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L’incredibile e spettacolare mondo dell’esilio

L O ‘ SPETTACOLO ’ DELL ’ ESILIO

1. L’incredibile e spettacolare mondo dell’esilio

Non corre certo il rischio di essere smentito chi affermi che le elegie dei Tristia e le epistole delle ex Ponto, opere che giungono a Roma dalla remota località pontica dove il loro autore è stato bandito, di questa località presentano al lettore un’immagine lugubre, inquietante, senz’altro poco attraente. La scelta, operata dal poeta, di rappresentare in questi termini la realtà dell’esilio non può in alcun modo stupire, per quanto non sia mancato chi, in passato, abbia cercato di ‘confutare’ le descrizioni fornite dall’esule, accusate di scarsa aderenza all’effettivo aspetto di quelle terre (d’altronde, Tomi – oggi Costanza – si trova alla stessa latitudine di Bologna: come poteva l’esule sentire tanto freddo?).1 La volontà del poeta relegato è tuttavia proprio quella di fornire ai lettori – in particolare, al più importante dei lettori: Augusto – l’immagine di un luogo così orribile da meritare l’abbandono: tanto più insistite saranno le lamentele dell’esule intorno alla ‘bruttezza’ di Tomi e dintorni (luoghi che effettivamente, a Roma, in pochi conoscevano per esperienza diretta), tanto maggiore – forse – sarà la possibilità che l’imperatore e i destinatari giudichino fin troppo crudele la condanna subita da Ovidio; del resto, nemmeno Augusto, al momento del verdetto, poteva immaginare che il luogo assegnato al poeta potesse rivelarsi tanto poco accogliente (ex P. I 2.71 ss.: nescit enim Caesar,

quamvis deus omnia norit, / ultimus hic qua sit condicione locus. […] ira viri mitis non me misisset in istam, / si satis haec illi nota fuisset humus).

Entro quest’ottica risulta pertanto comprensibile – e prevedibile – la tendenza dell’esule ad attribuire alla terra dell’esilio alcune caratteristiche estreme, alcuni dettagli unici e non riscontrabili altrove.2 Il luogo della relegazione è spesso connotato dall’aggettivo

1 Per un recente confronto tra le notizie fornite dall’esule e l’effettiva realtà ‘geo-meteorologica’ pontica,

cfr. HELZLE 2006, pp. 140 ss.

2 Questa tendenza fa d’altronde parte della più generale volontà, da parte dell’esule, di presentare il

proprio caso e il proprio destino in termini parimenti estremi ed iperbolici, come abbiamo visto nel primo capitolo a proposito del confronto con gli eroi dell’epica (cfr. supra, pp. 11 ss.).

superlativo ultimus (così già in Tr. I 1.127 s.: nobis habitabitur orbis / ultimus, a terra

terra remota mea; ma si confronti anche il passo di ex P. I 2 appena citato, dove si parla

dell’ultimus … locus in cui l’esule è costretto a vivere);3 a nessuno, tranne che a Ovidio, è stata assegnata una terra tanto lontana e tanto ostile, al punto che non è possibile stabilire alcuna comparazione (cfr. e.g. Tr. II 193 ss.: cumque alii causa tibi sint

graviore fugati, / ulterior nulli, quam mihi, terra data est. / longius hac nihil est, nisi tantum frigus et hostes…).4 I tratti iperbolici che l’esule, in questi e in numerosi altri passi, tende a conferire al luogo dell’esilio – come si anticipava – vogliono per l’appunto trasmettere ai lettori l’idea di un posto orribile; ma proprio al fine di rendere più perspicua l’immagine, l’esule sceglie di soffermarsi volentieri – ed è il punto cui vogliamo dedicare il presente capitolo – su quegli aspetti e quei dettagli di cui i lettori non possono attendersi l’esistenza e la cui menzione da parte dell’esule non può che

colpire la loro attenzione, nonché stimolarne la curiosità. Conviene a mio parere

senz’altro notare il fatto che la descrizione di una realtà tanto poco attraente si realizza paradossalmente attraverso la studiata tendenza a valorizzare, negli innumerevoli passi in cui l’esule fornisce ragguagli intorno al luogo del proprio esilio, l’elemento

incredibile, il dettaglio inatteso, l’aspetto innaturale e dunque, in qualche modo, meraviglioso; in questo senso, non sembra venir meno, nelle opere dell’esilio, quella

predilezione per il mirum fonte di ‘spettacolo’ che costituisce un elemento così tipico del poema metamorfico.5

Cominciamo dunque il nostro esame da uno dei primi componimenti interamente dedicati alla descrizione dello sconfortante paesaggio pontico, la celebre (e già menzionata) elegia ‘dell’inverno’ Tr. III 10.6 Dopo aver nominato le principali

3

Significativo ancora ex P. II 7.66 (ultima me tellus, ultimus orbis habet); d’altronde, l’intera seconda parte di ex P. II 7 (vv. 45 ss.), un’epistola indirizzata ad Attico, gioca sulla negazione di tutti gli elementi potenzialmente ‘consolatori’ che avrebbero potuto mitigare la sofferenza dell’esule e che invece risultano assenti (fra gli altri, si cita per l’appunto il luogo dell’esilio, vv. 63 s.: mitius exilium faciunt loca: tristior

ista / terra sub ambobus non iacet ulla polis); sul procedimento retorico, cfr. DAVISSON 1983 (p. 173) e il comm. di GALASSO 1995 a quest’elegia (pp. 308 s. e la n. ad 45-46).

4

Cfr. ancora Tr. III 4b.51 s. (ulterius nihil est nisi non habitabile frigus: / heu, quam vicina est ultima

terra mihi!) e, sulla necessità di doversi oltretutto difendere dagli attacchi dei barbari, ex P. I 8.7 (deque tot expulsis sum miles in exule solus).

5 Cfr. infra, pp. 106 ss. 6

Su Tr. III 10, cfr. soprattutto le ricche analisi di BESSLICH 1972, EVANS 1975 (entrambe da vedere per l’esame dei rapporti tra la descrizione ovidiana dell’inverno a Tomi e la rappresentazione virgiliana della Scizia in Georg. III) e GAHAN 1978; sulla rappresentazione del luogo dell’esilio secondo i tratti del locus

horribilis, cfr. KETTEMANN 1999(pp. 717 ss.); uno studio complessivo sulla rappresentazione della hiems in poesia latina è quello di DEHON 1993 (Tr. III 10 è discussa alle pp. 210 ss.).

popolazioni che abitano la regione (i Sauromati, i Bessi e i Geti), l’esule dichiara che durante la bella stagione le acque del Danubio costituiscono una valida difesa contro quei popoli (vv. 7 s.: dum tamen aura tepet, medio defendimur Histro: / ille suis liquidis

bella repellit aquis); non appena giunge l’inverno, tuttavia, si verifica un fenomeno la

cui singolarità è tale (per lo meno, agli occhi del pubblico romano), che il poeta vi dedica l’intero corpo centrale dell’elegia: i fiumi – addirittura il vasto Danubio, non certo inferiore al Nilo quanto a portata – congelano, permettendo così il passaggio dall’una all’altra sponda (vv. 25 ss.):

quid loquar, ut vincti concrescant frigore rivi,

deque lacu fragiles effodiantur aquae? ipse, papyrifero qui non angustior amne

miscetur vasto multa per ora freto, caeruleos ventis latices durantibus Hister

congelat et tectis in mare serpit aquis; quaque rates ierant, pedibus nunc itur, et undas

frigore concretas ungula pulsat equi; perque novos pontes, subter labentibus undis,

ducunt Sarmatici barbara plaustra boves. vix equidem credar, sed cum sint praemia falsi

nulla, ratam debet testis habere fidem.

Attraverso la domanda retorica introdotta dal quid loquar, il poeta comincia la descrizione di un evento che ha dell’incredibile: le conseguenze derivate dal congelamento dei fiumi vengono subito illustrate attraverso l’accostamento di termini apparentemente inconciliabili: le acque possono ora essere «scavate» (effodiantur

aquae), un verbo che certamente, di norma, non avrebbe senso riferire all’oggetto

liquido per eccellenza. Allo stesso modo, il mutamento di ‘mezzo’ attraverso cui muoversi sulla superficie dei fiumi risulta ben rilevato dal polittoto del verbo ire, che individua lo scarto temporale tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ (quaque rates ierant, pedibus

nunc itur):7 lo spazio tradizionalmente deputato al passaggio delle navi può essere ora

7 Su cui si veda il commento di B

ESSLICH 1972, p. 182: «quaque rates ierant, pedibus nunc itur klingt fast prosaisch».

miracolosamente ‘calpestato’, e gli animali condotti dalle genti barbare trovano a disposizione ‘ponti’ prima inesistenti – laddove all’aggettivo novos, riferito ai pontes, andrà attribuito tanto il significato ‘neutro’ di «nuovi» (poiché prima assenti) quanto quello ‘connotato’ di «mai visti» (perché creatisi in virtù di un fenomeno per l’appunto ‘miracoloso’). Al termine di questa prima breve sezione, il poeta si rende immediatamente conto del fatto che l’evento naturale appena descritto può a buon diritto suscitare l’incredulità dei lettori (vix equidem credar): all’esule si pone dunque il problema della credibilità dei suoi resoconti, che vedremo tornare anche in altri passi. Nel caso del nostro componimento, il poeta confuta l’eventuale accusa di ‘falsità’ per mezzo di un duplice argomento: da un lato, nessun vantaggio gli deriverebbe dall’affermare il falso (vv. 35 s.: cum sint praemia falsi / nulla, ratam debet testis

habere fidem); d’altro canto, la testimonianza oculare di chi ha visto accadere quanto

esposto non può che costituire una prova di veridicità (vv. 37 ss.):

vidimus ingentem glacie consistere pontum,

lubricaque immotas testa premebat aquas. nec vidisse sat est: durum calcavimus aequor,

undaque non udo sub pede summa fuit. si tibi tale fretum quondam, Leandre, fuisset,

non foret angustae mors tua crimen aquae. tum neque se pandi possunt delphines in auras

tollere: conantes dura coercet hiems; et quamvis Boreas iactatis insonet alis, fluctus in obsesso gurgite nullus erit; inclusaeque gelu stabunt in marmore puppes,

nec poterit rigidas findere remus aquas.

vidimus in glacie pisces haerere ligatos,

sed pars ex illis tum quoque viva fuit.

In questa seconda sezione di Tr. III 10 si descrive, dopo quello dei fiumi, il congelamento del Ponto, fenomeno parimenti ‘spettacolare’. Come si diceva, molta parte della ‘meraviglia’ risulta trasmessa dall’osservazione dell’esule intorno all’esperienza diretta che egli ha avuto del fenomeno: il poeta non soltanto ha «visto»

congelare il mare, ma ha addirittura «calpestato» l’immensa lastra di ghiaccio che ne ricopre la superficie, sperimentando l’insolita possibilità di mantenere i piedi asciutti sulla cima delle onde (undaque non udo sub pede summa fuit). A rafforzare l’immagine di una realtà ‘capovolta’, nella quale sta accadendo quanto sembrava impossibile, contribuisce il riferimento mitico dei vv. 41 s.; nemmeno il mito, nella situazione di cui l’esule è testimone, avrebbe seguito il suo corso: di fronte ad un evento a tal punto privo di ‘paralleli’, il poeta può spingersi ad immaginare un finale diverso per la storia di Ero e Leandro (cui è dedicata una delle coppie epistolari delle Heroides), il cui tragico epilogo – nel caso in cui la vicenda si fosse svolta in circostanze analoghe a quelle ora assistite dall’esule – sarebbe stato scongiurato, dal momento che l’eroe si sarebbe trovato a dover affrontare un mare molto meno minaccioso.8 Così come al mito, anche agli ordinari ‘avvenimenti’ riscontrabili entro uno scenario tradizionalmente ‘marino’ è sottratta la possibilità di sussistere: i delfini non possono saltare, il mare non è mosso nonostante l’imperversare del vento, i remi delle navi non possono solcare le onde. Come si può notare, in Tr. III 10 la descrizione fornita dall’esule si realizza attraverso l’insistito ricorso al paradosso che genera stupore.

A parte l’evento ‘straordinario’ costituito dal congelamento delle acque, è tuttavia l’esperienza dell’esilio nel suo insieme ad essere caratterizzata da eventi, circostanze, situazioni ‘incredibili’. In Tr. IV 1 l’esule dichiara che sarebbe più facile contare l’incomputabile piuttosto che i mala che lo hanno afflitto durante il viaggio verso Tomi;9 non da meno sono tuttavia le difficoltà che il poeta deve affrontare una volta giunto a destinazione (vv. 61 ss.):

nec tamen, ut veni, levior fortuna malorum est: huc quoque sunt nostras fata secuta vias.

8

Un procedimento analogo è quello attraverso cui nei versi finali dell’elegia, nei quali viene descritta la sterilità della regione pontica, l’esule immagina che, se si fosse svolta a Tomi, la storia di Aconzio e Cidippe avrebbe riscontrato qualche difficoltà ‘registica’: Aconzio non avrebbe infatti avuto a disposizione alcun frutto su cui incidere il messaggio indirizzato all’amata (vv. 73 s.: poma negat regio,

nec haberet Acontius, in quo / scriberet hic dominae verba legenda suae); sulla tendenza, ravvisabile

nelle elegie dell’esilio, ad «intuire zone rimaste implicite nel corpus delle storie del mito» e a «creare delle caselle nuove e riempirle con episodi mai attestati, ma ricavabili per induzione», cfr. LECHI 1993, pp. 25 s. (che rimanda a BARCHIESI 1986, p. 104).

9 Sono i vv. 55 ss.: meque tot adversis cumulant, quot litus harenas, / quotque fretum pisces, ovaque piscis habet. / vere prius flores, aestu numerabis aristas, / poma per autumnum frigoribusque nives, / quam mala, quae toto patior iactatus in orbe, / dum miser Euxini litora laeva peto; sulla figura

hic quoque cognosco natalis stamina nostri, stamina de nigro vellere facta mihi.

utque neque insidias capitisque pericula narrem (vera quidem, veri sed graviora fide),

vivere quam miserum est inter Bessosque Getasque illum, qui populi semper in ore fuit!

Il problema di credibilità che si pone all’esule viene qui addirittura risolto attraverso il silenzio: il poeta non racconterà quanto, pur essendogli veramente capitato (vera

quidem), sarebbe destinato a non essere creduto (veri … graviora fide). Dal momento

che i versi immediatamente seguenti a quelli citati sono occupati dal dettagliato resoconto di un assalto barbaro ai danni di Tomi, il lettore potrebbe chiedersi quali altre

insidiae e quali altri capitis pericula, taciuti dall’esule in quanto troppo ‘inverosimili’,

possano addirittura sopravanzare – quanto a gravità – quelli effettivamente narrati. Anche altrove il poeta lamenta il fatto che, per quanto appartenenti al dominio del ‘reale’, le disgrazie da lui subite, in virtù della loro quantità e della loro intensità, oltrepassano il limite del credibile; in Tr. I 5, poco prima di introdurre la già citata

synkrisis con Ulisse, il poeta afferma (vv. 49 s.):

multaque credibili tulimus maiora ratamque, quamvis acciderint, non habitura fidem.

Già nel primo libro dei Tristia, del resto, la descrizione del tormentato viaggio in mare verso il luogo dell’esilio non risparmia la segnalazione dell’elemento ‘stupefacente’, oggetto di meraviglia da parte non soltanto del lettore, ma anche dello stesso autore; in

Tr. I 11 – l’elegia conclusiva del libro – il poeta riconsidera le circostanze nelle quali il libellus è stato composto, nel bel mezzo cioè della tempesta: l’arditezza dell’impresa –

Ovidio immagina – avrà indotto allo stupore persino le isole Cicladi, costeggiate dalla nave dell’esule in rotta verso Tomi (vv. 7 ss.):

quod facerem versus inter fera murmura ponti, Cycladas Aegaeas obstipuisse puto.

fluctibus ingenium non cecidisse meum.10

È lo stesso poeta a meravigliarsi del fatto che il suo animo abbia saputo resistere di fronte a tante difficoltà. L’esperienza dell’esilio, d’altronde, si rivela a tal punto ‘clamorosa’ che l’esule, se pure un oracolo gli avesse predetto quanto sarebbe successo, avrebbe stentato a credervi (Tr. IV 8.41 ss.):

vita procul patria peragenda sub axe Boreo, qua maris Euxini terra sinistra iacet. hoc mihi si Delphi Dodonaque diceret ipsa,

esse videretur vanus uterque locus.

Ancora, in ex P. IV 3, rivolgendosi ad un amico ingrato che a Roma fa finta di non aver mai conosciuto Ovidio, il poeta lamenta il fatto che costui sia addirittura arrivato al punto di ingiuriare l’esule – fatto di per sé incredibile: vix equidem credo: subito

insultare iacenti / te mihi nec verbis parcere fama refert (vv. 27 s.). Il destinatario,

tuttavia, farebbe meglio ad essere più cauto, dal momento che potrebbe toccare anche a lui, com’è toccato a Ovidio, di subire un imprevedibile capovolgimento di sorte: la

divina potentia della Fortuna – argomenta il poeta – rende infatti possibile ciò che in

apparenza non lo sembrava (vv. 49 ss.):

ludit in humanis divina potentia rebus, et certam praesens vix feret hora fidem. ‘litus ad Euxinum’ si quis mihi diceret ‘ibis,

et metues, arcu ne feriare Getae,’

‘i, bibe’ dixissem ‘purgantes pectora sucos, quicquid et in tota nascitur Anticyra.’

sum tamen haec passus: nec, si mortalia possem, et summi poteram tela cavere dei.

tu quoque fac timeas, et quae tibi laeta videntur, dum loqueris, fieri tristia posse puta.

10 Cfr. parimenti Tr. III 14.31 s.: inque tot adversis carmen mirabitur ullum / ducere me tristi sustinuisse manu.

Questo passo è a mio parere interessante nella misura in cui individua un rapporto assai stretto fra ‘metamorfosi’ e stupore: il tema tradizionale del capovolgimento della sorte viene infatti illustrato nei termini di un’improvvisa trasformazione (laeta … fieri tristia) che genera incredulità; nemmeno il poeta avrebbe potuto credere a chi gli avesse preconizzato un futuro tra i Geti, ma anzi avrebbe giudicato un simile ‘indovino’ meritevole di una cura a base di elleboro, la medicina per la follia di cui è ricca la città di Anticira.11 Il collegamento tra ‘metamorfosi’ e ‘meraviglia’ costituisce naturalmente un aspetto centrale nel poema delle mutatae formae, come fra breve ci limiteremo ad accennare.

Per concludere il discorso intorno alla natura ‘spettacolare’ della realtà pontica, il paradosso, la contraddizione, l’accostamento straniante e imprevedibile sembrano per l’appunto caratterizzare il mondo dell’esilio in tutti i suoi aspetti. La sezione centrale di

Tr. V 10, che prenderemo ad esempio, è dedicata alla descrizione della ‘quotidianità’

tomitana vissuta dall’esule, fra i rischi derivati dagli attacchi esterni e le difficoltà di comunicazione ‘interna’ (vv. 21 ss.; 33 ss.; 43 s.):

saepe intra muros clausis venientia portis per medias legimus noxia tela vias. est igitur rarus, rus qui colere audeat, isque

hac arat infelix, hac tenet arma manu. sub galea pastor iunctis pice cantat avenis,

proque lupo pavidae bella verentur oves. vix ope castelli defendimur; et tamen intus mixta facit Graecis barbara turba metum. quippe simul nobis habitat discrimine nullo barbarus et tecti plus quoque parte tenet. […]

hos quoque, qui geniti Graia creduntur ab urbe, pro patrio cultu Persica braca tegit.

exercent illi sociae commercia linguae: per gestum res est significanda mihi. barbarus hic ego sum, qui non intellegor ulli,

11 Cfr. P

et rident stolidi verba Latina Getae. […]

adde quod iniustum rigido ius dicitur ense, dantur et in medio vulnera saepe foro.

Nel paradossale mondo di Tomi è riscontrabile una nutrita serie di situazioni insolite: armi nemiche nel bel mezzo delle vie cittadine; pastori guerrieri, costretti ad impugnare con una mano l’aratro, con l’altra le armi per difendersi (in terra pontica si incontrano pertanto, in una combinazione stridente, il mondo bucolico e quello dell’epica); pecore intimorite, anziché – come sarebbe naturale – dai lupi, dalla guerra; all’interno della città, i Greci si mescolano ai barbari, la civiltà si unisce alla rozzezza (gli stessi abitanti greci vestono improbabili bracae persiane); in un tale contesto Ovidio, il Romano, risulta invece il barbaro, mentre è la lingua latina ad essere paradossalmente derisa dai Geti (e l’esule, per essere compreso, si vede costretto a comunicare a gesti); nel foro si amministra uno ius che si rivela ossimoricamente iniustum, dal momento che fa ricorso alla violenza, trasformando in un campo di battaglia il luogo tradizionalmente (per lo meno, a Roma) associato al diritto e alla giustizia.12 L’accostamento di elementi ‘incompatibili’, o comunque insolitamente concomitanti, si realizza per mezzo dell’effettiva contiguità testuale dei vocaboli che li definiscono (v. 22: tela vias; v. 25:

galea pastor; v. 28: Graecis barbara turba; v. 38: Latina Getae): si descrive in questo

modo una realtà che non ‘separa’ ciò che ci si aspetterebbe distinto, come ad esempio le abitazioni barbare dalle greche (vv. 29 s.: simul nobis habitat discrimine nullo /

barbarus). Allo stesso tempo va notato il ricorrere, nel passo sopra riportato, della

preposizione sostitutiva pro, ad indicare ciò che si sarebbe naturalmente portati ad associare all’elemento descritto, al cui posto – tuttavia – si riscontra la presenza di un elemento ‘estraneo’ (v. 26: proque lupo pavidae bella verentur oves; v. 34: pro patrio

cultu Persica braca tegit).

12 Un buon esame del passo di Tr. V 10 è fornito da W

ILLIAMS 2002b, p. 349: «in this Tomis Ovid’s Roman cultural identity is under siege and, in its different way, as vulnerable to barbaric infiltration as the town itself […]. The arrows which are shot into the town (21-22) are a deadly sign of how thin the dividing-line is between the safety within and the barbarian threat outside; so thin that in lines 23-26 the literary worlds of pastoral and martial epic symbolically collide (or collude) in Ovid’s vision of the helmeted shepherd […]. His resulting crisis of cultural identity threatens to alienate him on two fronts: on the Roman side […]; and on the Tomitan side […]»; ma l’analisi più completa dell’intera elegia risulta quella proposta da CHWALEK 1996, pp. 70 ss.

Per rimanere su Tr. V 10, di cui abbiamo citato la sezione centrale, anche nei primi versi dell’elegia troviamo la segnalazione di una sensazione ‘innaturale’ che all’esule, dopo tre anni di esilio a Tomi, sembra di percepire: pur essendo soltanto tre gli inverni trascorsi, al poeta pare che – di anni – ne siano passati dieci (vv. 1 ss.):

ut sumus in Ponto, ter frigore constitit Hister, facta est Euxini dura ter unda maris.

at mihi iam videor patria procul esse tot annis,