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L’importanza di chiamarsi Biblide (e Mirra)

I NOMI NELLA POESIA DELL ’ ESILIO

1. L’importanza di chiamarsi Biblide (e Mirra)

Nel nono libro delle Metamorfosi, dopo la breve menzione della vicenda di Mileto, fondatore ed eponimo della città ionica, la triplice anafora (in polittoto) del nome di Biblide introduce il lungo episodio che vede come protagonisti i due fratelli figli di Mileto e Ciane (Met. IX 450 ss.):

Hic tibi, dum sequitur patriae curvamina ripae, filia Maeandri totiens redeuntis eodem

cognita Cyanee praestanti corpora forma,1

Byblida cum Cauno, prolem est enixa gemellam. Byblis in exemplo est, ut ament concessa puellae, Byblis Apollinei correpta cupidine fratris:

non soror ut fratrem, nec qua debebat, amabat.

L’insistita ripetizione del nome dell’eroina2 si accompagna all’altrettanto marcato rilievo conferito dal narratore, fin dai primi versi dell’episodio, al rapporto di parentela che lega i due personaggi: come si può notare, nella sezione citata viene posto in particolare evidenza il fatto che essi sono fratelli (prolem … gemellam; fratris; non

1 Così stampa il verso – sulla scorta di Heinsius – Tarrant, riferendo la notazione sulla bellezza a Ciane;

Anderson preferisce invece la variante praestantia corpora forma, da riferire piuttosto alla prolem …

gemellam; ma cfr. quanto notava BÖMER ad loc.: «Wendungen dieser Art werden von Ovid so stereotyp […] auf die Schönheit einer jungen Frau bezogen, daß es […] ganz unwahrscheinlich ist, daß er hier die Säuglinge (proles gemella) gemeint hat. Es muß also heißen: praestanti corpora forma, ausgesagt von Cyanee […], und nicht: praestantia corpora forma, womit die Zwillinge gemeint wären. Bei dieser Fassung müßte corpora in der Bedeutung ‘gemelli’, ‘infantes’ sim. verstanden und eniti mit Objekt (praestantia corpora) und Praedikatsnomen (prolem gemellam) verbunden werden […]. Beides wäre für Ovid ganz ungewöhnlich; so kompliziert ist seine Sprache im allgemeinen nicht».

2 Cfr. K

ENNEY ad loc.: «l’anafora e la posizione enfatica del nome sottolineano l’importanza di Biblide nella storia».

soror ut fratrem).3 Giunto appena al terzo verso dell’episodio, il lettore ha già a disposizione gli elementi essenziali attraverso cui comprendere – a grandi linee – ciò che dovrà attendersi dal seguito della storia: si tratterà dell’amore (ament; cupidine;

amabat) incestuoso nutrito da una sorella nei confronti del fratello, da Biblide nei

confronti di Cauno, laddove l’aspetto centrale, che per l’appunto segna la vicenda amorosa in questione, è costituito proprio dal legame parentale fra i due protagonisti: l’esito finale della storia sarà determinato non semplicemente dal fatto che Biblide ama Cauno, ma in particolare dal fatto che amante ed amato si trovano ad essere fratelli. Fin dai versi introduttivi dell’episodio, pertanto, il narratore conferisce una particolare rilevanza ai nomi che qualificano tanto i due protagonisti in sé quanto il rapporto che li lega: da un lato, il lettore viene subito messo al corrente dei loro nomi propri (Byblida

cum Cauno); dall’altro, vengono parimenti rilevati i nomi comuni qualificanti il

rapporto di parentela (nec soror ut fratrem).4

A questo proposito, l’evolversi della vicenda viene per l’appunto segnato da una sorta di ‘separazione’ fra nome proprio e nome comune. Dopo una prima fase in cui Biblide non riesce a rendersi conto della passione che sta per conquistarla (v. 457: illa quidem primo

nullos intellegit ignes), col passare del tempo l’eroina comincia a manifestare i primi

segni dell’amore – per quanto ancora inconsapevole – che nutre (vv. 464 ss.):

sed nondum manifesta sibi est nullumque sub illo igne facit votum; verumtamen aestuat intus.

3 Tarrant giudica interpolato il v. 456 (non soror ut fratrem, nec qua debebat, amabat): secondo lo

studioso, «line 455 forms so ringing a conclusion to its paragraph that any continuation of the thought is likely to seem anticlimatic, but 456 is particularly lame» (TARRANT 2000, p. 428); la fonte dell’interpolazione sarebbe costituita da Ars I 283 ss., dove Ovidio cita l’uno di seguito all’altro i casi di Biblide e Mirra: Byblida quid referam, vetito quae fratris amore / arsit et est laqueo fortiter ulta nefas? /

Myrrha patrem, sed non qua filia debet, amavit / et nunc obducto cortice pressa latet; lo stesso Tarrant

riconosce tuttavia che «it would admittedly be typical of Ovid to transfer to Byblis in the Metamorphoses a phrase he had applied to Myrrha in the Ars (especially in light of the close parallels between the two episodes in the Metamorphoses), and such a transfer on the level of plot is in fact present here: in the

Metamorphoses it is Myrrha, not Byblis, who tries unsuccessfully to hang herself in horror at her

incestuous passion» (ibid., p. 429); alla luce del sottile gioco intratestuale fra Met. e Ars (troppo allettante per poter essere compromesso) e della complementarietà degli episodi di Biblide e Mirra nelle Met. (su cui cfr. infra, pp. 65 ss.), il verso va a mio parere conservato proprio in virtù dell’importanza che nell’episodio di Biblide viene conferita ai nomi di parentela (un elemento parimenti decisivo nell’episodio di Mirra; cfr. in particolare, come ‘parallelo’ del nostro verso, X 336 s.: dignus amari / ille, sed ut pater,

est); cfr. anche BÖMER ad IX 456: «soror und frater bleiben die “Leitworte” […] dieser Geschichte».

4 Cfr. T

ISSOL 1997, pp. 42 s.: «she [= Byblis] views her existing close relationship with him [= Caunus] as paradoxically hindering the close relationship she desires […]. […] the categories defined by soror and

iam dominum appellat, iam nomina sanguinis odit;

Byblida iam mavult quam se vocet ille sororem.

La ‘separazione’ fra nome proprio e nome comune, cui facevo riferimento, risulta particolarmente evidente nell’ultimo verso ora citato: i due nomi qualificanti la protagonista, visivamente separati e collocati alle due estremità dell’esametro, identificano un personaggio che vorrebbe non vederli coincidere; che vorrebbe continuare ad essere chiamata ‘Biblide’, ma contemporaneamente cessare di essere chiamata ‘sorella’: l’essenza del dramma in cui l’eroina sta precipitando consiste proprio nell’impossibilità che una tale separazione si verifichi.5 Secondo la medesima logica, la protagonista vorrebbe che all’appellativo comune indicante il ‘fratello’ (qui reso attraverso la perifrasi nomina sanguinis) si sostituisse il generico appellativo per ‘amante’ (dominum):6 il desiderio è ancora una volta quello di conservare il nome proprio dell’amato, ma di cancellare il nome che ne qualifica il rapporto di parentela. Il semplice vocativo Caune risulta per l’appunto l’appellativo utilizzato da Biblide nel successivo monologo (vv. 487 ss.):

o ego, si liceat mutato nomine iungi,

quam bene, Caune, tuo poteram nurus esse parenti! quam bene, Caune, meo poteras gener esse parenti!

Il tentativo, questa volta, dopo la sospirata ‘eliminazione’ degli autentici nomi comuni di parentela, è quello di trovarne i sostituiti (mutato nomine): anziché ‘sorella’ di Cauno, Biblide vorrebbe piuttosto essere ‘nuora’ del padre di lui, e allo stesso modo desidererebbe che Cauno, anziché ‘fratello’ suo, fosse ‘genero’ del padre di lei. La perfetta, speculare corrispondenza dei vv. 488 e 489 vuole tuttavia risaltare il ‘cortocircuito’ ravvisabile nelle parole dell’amante infelice: anziché individuare un

5 Cfr. J

ENKINS 2000, p. 444: «Byblis therefore wishes yearningly for power over naming; her first mental tactic is to ‘rename’ her brother as master […]. One might next expect Byblis to rename herself from ‘sister’ to puella, ‘girl(friend)’, and thereby form the amatory pair dominus/puella. Instead, surprisingly, she renames herself Byblis, seeking to divorce her identity from ‘sister’».

6 Sul gioco di parole derivato dal doppio senso del termine dominus (una «forma di cortesia per riferirsi ai

membri della famiglia» e allo stesso tempo «vezzeggiativo di amante»), cfr. KENNEY ad loc.; sull’‘inconsapevolezza’ del gioco di parole nella mente di Biblide, la quale «has not yet recognized what she really hopes for from her brother […] and therefore cannot address him with a term of endearment», cfr. KNOX 1984.

nuovo possibile legame parentale fra i due personaggi, il duplice desiderio espresso da Biblide si risolve piuttosto in una frustrante tautologia, nella misura in cui il padre di Cauno (di cui Biblide vorrebbe essere nuora) e il padre di Biblide (di cui vorrebbe che Cauno fosse genero) sono la stessa persona.7

Se dunque l’eroina, come abbiamo visto, riscontra una sorta di fastidio nel pronunciare i nomi della parentela che la lega all’amato, la medesima difficoltà si ripresenta – in misura ancora maggiore – nel momento in cui Biblide si vede costretta a specificare il proprio nome nella tradizionale formula incipitaria che deve aprire la lettera indirizzata al fratello;8 la scrittura del messaggio comporta una serie di cancellature e di ripensamenti, finché la donna riesce finalmente a redigere l’epistola (vv. 528 ss.):

scripta ‘soror’ fuerat; visum est delere ‘sororem’ verbaque correptis incidere talia ceris:

‘quam, nisi tu dederis, non est habitura salutem, hanc tibi mittit amans; pudet, a, pudet edere nomen. et si, quid cupiam, quaeris, sine nomine vellem posset agi mea causa meo nec cognita Byblis ante forem, quam spes votorum certa fuisset.

La «convoluted syntax»9 attraverso cui Biblide esordisce è segno dell’imbarazzo generato dal fatto che, nonostante i desideri dell’eroina, i due nomi che ne definiscono l’identità (Byblis e soror) risultano senz’altro inseparabili; la protagonista si rende conto, in sostanza, che non è possibile «cancellare» il nome di parentela (visum est

delere ‘sororem’) conservando invece il nome proprio, che al contrario, una volta

esplicitato, implica inesorabilmente la compresenza dell’altro; è questo il motivo per cui ora l’eroina vorrebbe inviare il messaggio senza rivelare la propria identità (sine nomine

vellem / posset agi mea causa meo), ed è significativo il fatto che il nome proprio della

mittente – che, in ossequio ai dettami della convenzione epistolare, non sarebbe potuto

7 Sulla funzione retorica dei versi ‘ripetuti’ in Ovidio, cfr. K

ENNEY ad Met. VII 246-7.

8

TISSOL 1997 (pp. 43 ss.) discute l’importanza della scrittura nell’episodio di Biblide; sul gioco di parole – evidentemente voluto – derivante dall’associazione del nome della protagonista al termine greco per ‘papiro’ (βύβλος / βίβλος), cfr. già AHL 1985, pp. 211 s.

9 J

rimanere nascosto – faccia la sua comparsa all’interno di una complicata frase ipotetico- temporale (nec cognita Byblis / ante forem, quam spes votorum certa fuisset).

Una volta constatata l’impossibilità di ‘eludere’ il legame fraterno, Biblide propone dunque all’amato di sfruttare quello stesso legame e di mascherare la relazione amorosa cogliendo le opportunità fornite dal rapporto che già li avvicina in quanto fratelli (vv. 558 ss.):10

dulcia fraterno sub nomine furta tegemus: est mihi libertas tecum secreta loquendi, et damus amplexus et iungimus oscula coram. quantum est, quod desit?

Ma la circostanza per cui Cauno si trova ad essere suo fratello torna a pesare negativamente su Biblide al momento della consegna della lettera al servo incaricato di recarla al destinatario (vv. 568 ss.):

deque suis unum famulis pudibunda vocavit et pavidum blandita, ‘fer has, fidissime, nostro’ dixit et adiecit longo post tempore ‘fratri’.

Anche nell’epilogo della storia al nome della protagonista viene riservata una particolare rilevanza. Così come la narrazione dell’episodio si è aperta nel segno di Biblide, il cui nome viene subito posto in evidenza attraverso la triplice anafora sopra rilevata, allo stesso modo la conclusione della vicenda si segnala per la consueta notazione eziologica da parte del narratore, che menziona la persistenza del nome dell’eroina in quello della fonte in cui Biblide si è trasformata (vv. 663 ss.):

sic lacrimis consumpta suis Phoebeia Byblis vertitur in fontem, qui nunc quoque vallibus illis

nomen habet dominae nigraque sub ilice manat.

10 Sul parallelo con Fedra (Her. 4), che illustra ad Ippolito le opportunità loro concesse dal legame

È curioso il fatto che al v. 665 venga attribuito alla protagonista un appellativo, dominae (‘padrona’ del nome), che forse Biblide avrebbe voluto sentirsi rivolgere – nel suo significato ed impiego elegiaco di ‘amante’ – da parte di Cauno, di colui cioè cui l’eroina aveva tentato, come abbiamo visto, di attribuire l’ambiguo appellativo di

dominus.

L’epilogo della storia di Biblide, suggellata dalla conservazione del nome dopo la metamorfosi, assomiglia a quello di tanti altri episodi narrati nel poema. Come la critica non ha mancato di notare, i nomi definiscono e qualificano i personaggi delle vicende mitiche tanto quanto i loro corpi, ed in moltissimi casi il nome del personaggio trasformato costituisce l’unico elemento che si conserva dopo la metamorfosi, sopravvivendo dunque al mutamento del corpo.11 Più in generale, a parte il caso dei nomi propri, va notata la predilezione che Ovidio dimostra di nutrire nei confronti dei nomi in quanto portatori di un significato in grado di generare ambiguità e contraddizione nel contesto entro cui vengono utilizzati o a seconda del modo in cui vengono intesi;12 abbiamo visto – un esempio fra i tanti – in che modo nell’episodio di Biblide i nomi di parentela che definiscono il rapporto tra i due protagonisti costituiscano la causa prima del dramma dell’eroina e risultino i principali ‘avversari’ del suo desiderio.13 Un discorso analogo può essere svolto a proposito dell’episodio ‘parallelo’ a quello di Biblide: la storia di Mirra, l’eroina irrimediabilmente innamorata

11 H

ARDIE 2002b, pp. 245 s.: «bodies change, names remain. A metamorphosis may function as an aetiology of the meaning of a common noun, originally the proper name of a person who loses their human body, in a reversal of the actual derivation of a proper name from common noun […]. The name survives as a reminder of the person now absent, in the way that tombs preserve the names of those no longer present in body».

12 Su questo aspetto fondamentale del poema ovidiano, il punto di riferimento è costituito da R

OSATI 1983 (da vedere in particolare, alle pp. 153 ss., la sezione intitolata ‘Lo spettacolo della parola’).

13 Sulle conseguenze derivate dal tentativo di alterare i propri ‘nomi’ da parte dei personaggi delle Metamorfosi, cfr. quanto in generale notato da ANDERSON 1963, pp. 20 s.: «changing names, changing the meaning of words can therefore produce results as drastic as those caused by changing forms. […] The many soliloquies in the central part of the Metamorphoses all, to a certain extent, analyze the meaning of critical moral terms. Each speaker, aware of the moral responsibilities implicit in the word or words under discussion, tries to evade these formal obligations; and, when reason fails to justify such evasion or change, he or she then lets emotions overcome reason and morality. Knowingly, they undertake nefas or scelus, and usually they experience the consequences soon after in their moral depths»; cfr. anche quanto, a partire dai casi di Biblide e Mirra, osserva TISSOL 1997, p. 51: «that Myrrha and Byblis should rid themselves of the nomina consanguinitatis by exploring the semantic extensions of words and names shows how closely verbal wit can be bound up with self-deceptive fantasy. […] we observe language stretched and exploited, made to promote the worse argument over the better».

del proprio padre. La stretta connessione fra i due episodi, ben esaminata dalla critica,14 si manifesta anche e soprattutto nel valore parimenti ‘drammatico’ conferito ai nomi di parentela, che ancora una volta rappresentano il principale ostacolo alla realizzazione del desiderio della protagonista; a differenza di Biblide, che in principio non realizza appieno la natura del proprio sentimento, Mirra è pienamente consapevole – fin da subito – della portata ‘eversiva’ di ciò cui aspira (Met. X 345 ss.):15

ultra autem sperare aliquid potes, impia virgo, et, quot confundas et iura et nomina, sentis? tune eris et matris paelex et adultera patris? tune soror nati genetrixque vocabere fratris?

Le associazioni di nomina ‘incompatibili’ ai vv. 347 s.16 vogliono per l’appunto trasmettere l’idea della paradossale e – allo stesso tempo – mostruosa situazione che si verrebbe a creare nel caso in cui Mirra non riuscisse a resistere all’amore per il proprio padre – un amore che può legittimamente sussistere, a patto che si mantenga entro i limiti dell’affetto che una figlia deve nutrire nei confronti del genitore: dignus amari /

ille, sed ut pater, est (vv. 336 s.); ecco che dunque anche il nome del sentimento nutrito

da Mirra (‘amore’) contribuisce alla creazione del paradosso e della contraddizione che sta alla base della storia: l’eroina può amare Cinira, nella misura in cui una figlia ama suo padre; ma quello covato da Mirra risulta un amore che oltrepassa il limite dell’affetto filiale ed assume piuttosto il significato di ‘passione erotica’: il nome del sentimento rimane lo stesso, a cambiare è l’accezione del significante.

Così come nel caso di Biblide, anche nell’episodio di Mirra i nomi della parentela continuano ad attirare l’attenzione del lettore e ad occupare il centro della narrazione fino al termine della storia;17 l’impiego ‘distorto’ dei nomi raggiunge il suo culmine nel

14

Cfr. soprattutto GALINSKY 1975 (pp. 88 s.), NAGLE 1983 e i comm. di KENNEY e REED ai due episodi (passim).

15 N

AGLE 1983, p. 310: «[…] Orpheus has Myrrha indicate that she knows what she is doing, that she understands exactly what she wants».

16

Su cui cfr. quanto osservato da BÖMER ad loc.: «es freut den Dichter offensichtlich und es gelingt ihm auch, alle möglichen oder doch möglichst viele illegale und legale Verbindungen dieses Bereichs in rhetorisch pointierten und oft so kurzen Formulierungen auszudrücken, daß man einen Teil von ihnen erst nach wiederholtem Lesen durchschaut».

17 Si confronti, in particolare, l’esitazione di Biblide nel pronunciare il nome ‘fratello’ (sono i vv. 569 s.

momento in cui, durante l’amplesso, i termini di parentela filia e pater, qualificanti l’autentico rapporto fra Cinira e Mirra, vengono utilizzati come vezzeggiativi in senso per l’appunto erotico (vv. 465 ss.):

accipit obsceno genitor sua viscera lecto virgineosque metus levat hortaturque timentem. forsitan aetatis quoque nomine ‘filia’ dixit, dixit et illa ‘pater’, sceleri ne nomina desint.18

Per concludere, resta da segnalare il parallelismo fra gli episodi di Biblide e Mirra anche per quel che riguarda la conservazione del nome proprio dopo la metamorfosi; nel caso della seconda storia, il nome dell’eroina è conservato dal prodotto liquido della corteccia entro cui Mirra ha ‘affondato’ il suo volto (vv. 497 ss.):

non tulit illa moram venientique obvia ligno subsedit mersitque suos in cortice vultus.

quae quamquam amisit veteres cum corpore sensus, flet tamen, et tepidae manant ex arbore guttae. est honor et lacrimis, stillataque robore murra

nomen erile tenet nulloque tacebitur aevo.

Anche Mirra, come Biblide, rimane – pur nella nuova forma assunta dal suo corpo – ‘padrona’ del nome: è interessante, a questo proposito, che venga qui utilizzato il rarissimo (in latino classico) aggettivo erilis, che conta in Ovidio un’altra attestazione soltanto.19 Tenendo conto del parallelo di Biblide e della (probabile) allusione alla figura del fratello nell’utilizzo dell’espressione nomen … dominae sopra rilevata, non è da escludere la presenza di un gioco verbale anche nell’ultimo verso dell’episodio di Mirra: ci si potrebbe chiedere se nell’espressione nomen erile non sia ravvisabile un

nome ‘padre’ ai vv. 429 s. del nostro episodio: ‘vive’ ait haec, ‘potiere tuo’ – et non ausa ‘parente’ /

dicere conticuit, dove particolarmente significativa risulta l’elisione, segno appunto dell’incertezza e

dell’imbarazzo, fra tuo ed et (cfr. KENNEY ad loc.).

18 R

OSATI 2002 (p. 291) nota come il forsitan del v. 467, che nelle Metamorfosi spesso accompagna le osservazioni del narratore a proposito di «events and situations that can have happened», contribuisce alla creazione dell’effetto paradossale e all’accrescimento del pathos della storia.

19 Met. III 140; due attestazioni in Virgilio (entrambe nell’Eneide), tre in Orazio, nessuna in Tibullo e

riferimento all’erus della storia, per l’appunto Cinira; in commedia, com’è noto, l’erus è il padrone della casa nonché il padre di turno, e risultano molto comuni, tanto in Plauto quanto in Terenzio, espressioni quali erilis filius / filia ad indicare, specificamente, il figlio o la figlia del paterfamilias.20 Il nomen erile conservato da Mirra è senz’altro il proprio – ma l’eroina parimenti serba una traccia, un ricordo dell’uomo che ha amato. Conviene ora lasciare da parte le Metamorfosi e tornare a considerare le opere dell’esilio; alla luce di quanto abbiamo rilevato a proposito dell’importanza e della centralità dei nomi nel poema delle forme mutevoli (esaminando in particolare gli episodi di Biblide e Mirra, accomunati dall’utilizzo ‘drammatico’ dei nomi di parentela), si tratta ora di verificare quale rilievo e quale utilizzo venga conferito agli stessi nell’ambito dell’ultima produzione ovidiana.