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La Madonna di Sant’Ambrogio e la fortuna della Madonna Medici del Buonarroti: aggiornamento sul Michelangelo fiorentino aggiornamento sul Michelangelo fiorentino

2.2_1. La Madonna di Sant’Ambrogio degli Uffizi

La critica, sulla scorta del contributo di Federico Zeri del 1948, è concorde nell’attribuire a Jacopino del Conte anche la Madonna con Bambino e san Giovannino, oggi conservata presso i depositi delle Gallerie degli Uffizi (Fig. 21); lo studioso segnalava anche una variante della tavola a Wrotham Park, che recava tradizionalmente un’assegnazione al catalogo di Fra Bartolomeo106 (Fig. 22). Zeri datava l’opera degli Uffizi all’estrema fase della permanenza fiorentina dell’artista, opinione condivisa anche da Iris Cheney107. Come vedremo, la forte consonanza stilistica che intercorre tra il quadro in oggetto e la Madonna Medici di Michelangelo per la sacrestia di San Lorenzo consente di accogliere tale datazione.

Un cartellino posto sul verso dell’opera degli Uffizi ne comprova la provenienza dal convento fiorentino di Sant’Ambrogio108. Non è tuttavia possibile precisare la data in cui il dipinto è entrato a far parte dell’arredo dello stesso convento109.

106 Zeri 1948, p. 181. 107 Cheney 1970, p. 33.

108 Sul cartellino si legge: “Estratti dal Convento di Sant’Ambrogio de Firenze”. Su una seconda etichetta posta

sul retro del dipinto, inoltre, è presente a stampa la dicitura “Inventario 1881. Categoria 294”. (A penna è possibile scorgere anche la data del 1906). Il convento di Sant’Ambrogio fu soppresso già nel 1808 e negli anni seguenti la destinazione d’uso dell’edificio fu modificata. Alla fine della dominazione francese, le monache, che nel frattempo si erano stabilite nel monastero della Pietà in via Giusti, chiesero ed ottennero di ritornare in Sant’Ambrogio. Nel 1816, infine, le Convertite si appropriarono dell’immobile. Artusi-Patruno 1996, pp. 185- 190; Carrara 1999, pp. 127-141. Sulla soppressione dei conventi fiorentini si veda anche Fantozzi Micali-Roselli 1980.

Nonostante le numerose vicissitudini vissute dal convento, qui brevemente ricordate, il fatto che nel 1881 si segnali ancora la derivazione del dipinto da Sant’Ambrogio forse lascia intendere che non fu venduto né andò disperso prima di quella data. Potrebbe darsi, quindi, che il dipinto sia entrato a far parte delle raccolte degli Uffizi in concomitanza della riqualificazione del centro cittadino occorso nello stesso 1881, a seguito della quale molte opere furono immesse sul mercato.

109 La derivazione conventuale dell’opera, che pure viene chiaramente segnalata nella scheda relativa del Polo

Museale Fiorentino, non è mai stata messa in rilievo dagli studi su Jacopino. Sebbene, come detto, non sia possibile stabilire il momento esatto in cui il dipinto entrò nel convento, l’indagine sulla storia del luogo consente di approfondire la conoscenza di un contesto culturale particolarmente attivo nell’ambito della vita cittadina di Firenze al principio del XVI secolo, anche sotto il profilo della committenza artistica. Al convento di Sant’Ambrogio, appartenente alle monache benedettine, erano affiliate diverse confraternite religiose. Tra queste, vale la pena menzionare la Compagnia di Santa Maria della Neve, nota agli studi poiché proprietaria di un numero piuttosto cospicuo di opere d’arte, come la famosa Madonna della Neve, eseguita nel 1517 da Andrea del Sarto e descritta da Vasari (1568, vol. IV, pp. 354-355. Sul dipinto di Andrea si vedano Shearman 1961, pp. 225- 230; Id. 2000, pp. 124-128; Natali 2004, p. 50). Nel 1534, in un momento quindi prossimo alla supposta datazione del dipinto degli Uffizi, fu fondata da un gruppo di monache benedettine la Compagnia del Santissimo Miracolo, una confraternita laica prettamente femminile associata al convento di Sant’Ambrogio (Strocchia 2002, pp. 235-267). Sebbene non sia dimostrabile, data l’assenza di testimonianze e documenti, la concordanza tra la data di fondazione della Compagnia e la possibile cronologia dell’opera, basata su riscontri stilistici, invita a prendere in considerazione, seppure molto cautamente, l’ipotesi che ci sia una interdipendenza tra i due fattori. D’altro canto, lo stesso soggetto dell’opera, una Madonna del latte, ben si confà ad una confraternita femminile e ad

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La Madonna degli Uffizi sembra porsi cronologicamente in un momento di poco successivo rispetto alle opere discusse finora110. Nello specifico, per la datazione della tavola si dovrà pensare ad una cronologia assai prossima al 1534. Infatti, il dipinto è qualificato da un palese aggiornamento condotto sulla Madonna Medici di Michelangelo, licenziata per le cappelle di San Lorenzo proprio a ridosso di quel momento (Fig. 23). Tale aggiornamento, tuttavia, si va ad innestare sul consueto sostrato sartesco, facilmente individuabile nel brano di paesaggio sullo sfondo, tratto letteralmente dalle due versioni del Sacrificio di Isacco della Gemäldegalerie di Dresda e del Museo del Prado di Madrid111 (Fig. 24), il che impedisce di spostare troppo avanti la tavola. Come osservava argutamente la Cheney, “the mixture of Andrea’s with a touch of Michelangelo’s grandeur is a not unattractive one”112.

Jacopino mostra dunque di aver avuto l’opportunità di studiare con grande attenzione la scultura della sacrestia, luogo divenuto la vera e propria “Accademia” fiorentina. L’artista, infatti, replica con alcune varianti il prototipo michelangiolesco della Madonna lactans, riprendendo anzitutto la monumentalità della figura, informata ad un nuovo canone proporzionale, nonché i particolari più minuti della veste. Inoltre vale la pena considerare fin da ora che l’analisi morfologica della maggior parte dei dipinti di soggetto sacro attribuiti al giovane pittore dimostra quanto, sin dagli anni della sua formazione, egli ebbe l’opportunità di coltivare un legame di grande prossimità con il Buonarroti, tanto da avere accesso molto

un luogo, la chiesa di Sant’Ambrogio, che nel 1230 fu teatro del Miracolo dell’Eucarestia (Francioni 1875). Inoltre, la duratura devozione nei confronti della Madonna lactans è confermata dalla presenza dell’affresco attribuito ad Agnolo Gaddi e scoperto nel 1839, situato nel secondo altare a destra della chiesa, raffigurante una Madonna del Latte in trono tra san Bartolomeo e san Giovanni Battista (Orzalesi 1900, p. 9). Si veda anche Borsook 1981, pp. 147-202.

110 Firenze, Galleria degli Uffizi, depositi, inv. n. 6009, olio su tavola, 126 x 94 cm. Mostra del Cinquecento toscano

1940, p. 135; Zeri 1948, pp. 181-181; Salvini 1956, p. 64; Härth 1959, pp. 167-173; Shearman 1965, p. 170 n. 4; Cheney 1970, p. 33; Freedberg 1971, p. 501 n. 20; Von Holst 1971, p. 48; Pace 1972, p. 220; Bruno 1974, n. 130, p. 71 n. 17; Keller 1976, p. 55; Zeri 1978, p. 1167; Catalogo degli Uffizi 1979, p. 318, n. P814; Freedberg 1985, pp. 59-81; Bassan 1988, p. 462; Costamagna-Fabre 1991, p. 23; Cheney 1996, p. 776; Vannugli 1998, p. 600; Donati 2010, p. 127.

111 Härth 1959, pp. 167-173; Costamagna-Fabre 1991, p. 23. Del Sacrificio di Isacco di Andrea del Sarto esiste anche

una terza versione, conservata a Cleveland, Museum of Art. Quanto al particolare del paesaggio, si rammenti che presso il Gabinetto dei Disegni e Stampe degli Uffizi è conservato un foglio che presenta il medesimo sfondo paesistico accanto ad alcune figure di studio (inv. 16480 F). Härth notava la somiglianza di questo brano di paesaggio con lo sfondo di una Crocifissione di Scuola di Anversa conservata presso il Museo di Berlino, deducendo da ciò che il foglio degli Uffizi fosse una copia dal dipinto berlinese forse di mano dello stesso Andrea del Sarto. In anni più recenti, invece, Petrioli Tofani (1992, p. 318) è tornata sull’argomento. Riprendendo l’opinione di Shearman (1965, vol. I, p. 110; vol. II, p. 270) – secondo il quale, non potendo il foglio essere di Andrea del Sarto date le sue qualità tecniche, avanzava cautamente il nome di Jacopino Sansovino – e di Freedberg (1963, p. 151, n. 14) – che lo lasciava nell’anonimato –, la studiosa ipotizzava che il foglio degli Uffizi fosse una copia di studio da un perduto disegno di Andrea del Sarto. Giusta questa ipotesi, dunque, si profila anche in questo caso la medesima pratica di bottega già abbondantemente discussa per quel che concerne Andrea del Sarto. Dovremmo immaginare ancora una volta, infatti, il giovane Jacopino alle prese con il reimpiego del materiale di bottega del maestro.

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verosimilmente anche al materiale grafico del maestro. Come confronto e a dimostrazione di quanto Jacopino del Conte si sia avvalso non soltanto di uno studio condotto sull’opera finita ma anche di alcuni progetti grafici (constatazione che corrobora l’ipotesi della sua appartenenza alla cerchia di Michelangelo e che getta nuova luce sul successivo sviluppo del suo percorso), si vedano il disegno preparatorio per la Madonna Medici conservato presso il Museo di Casa Buonarroti (inv. n. 71 F; fig. 25)113; il foglio con una Madonna con Bambino del Musée du Louvre (inv. 692 r/v; figg. 26; 27), parzialmente tratto dalla pala di Sant’Anna di Fra Bartolomeo114; il disegno del British Museum (inv. Pp. 1-58; fig. 28)115 e quelli di Windsor Castle (inv. n. 12773r; fig. 29; inv. n. RL 12764)116; i disegni, conservati sempre al British Museum (inv. n. 1859.0514.818, figg. 30; 31; inv. 1860.6.16.1, fig. 32)117 ed infine il foglio 599E degli Uffizi con alcuni studi di teste ideali (fig. 33)118.

Alla luce di un confronto piuttosto fertile che può condursi tra i summenzionati disegni di Michelangelo e le opere di Jacopino del Conte situabili cronologicamente entro gli anni trenta, nell’ottica di comprenderne l’evoluzione stilistica e di avanzare una seriazione cronologica, può desumersi che un primo importante e diretto accostamento al Buonarroti sia avvenuto con la redazione della Madonna degli Uffizi, in un momento in cui tale aggiornamento andò ad innestarsi su un sostrato sartesco ancora molto sentito. Come vedremo, negli anni seguenti il ricordo di Andrea del Sarto, che pure fu costante nell’immaginario culturale di Jacopino, divenne sempre più sfumato, lasciando spazio ad una sempre maggiore adesione al prototipo michelangiolesco: tale constatazione rende possibile avanzare un’ipotesi circa la cronologia delle opere attribuibili alla prima attività del nostro proprio in virtù della possibilità di misurarne la “temperatura michelangiolesca”.

La consapevolezza del legame coltivato con Michelangelo, peraltro, consente di comprendere il successivo sviluppo non solo stilistico ma anche professionale di Jacopino, il quale, al momento dell’ingresso nel contesto artistico romano forse poté avvalersi delle raccomandazioni del Buonarroti.

113 Pina Ragionieri in Ragionieri 2003, pp. 86-87, cat. n. 30. 114 Joannides 2003c, n. 47.

115 Chapman 2005, p. 223.

116 Joannides 1996, pp. 84-85, n. 19; pp. 38-39.

117 Chapman, op. cit., p. 222. Si consideri che di quest’ultimo foglio (1860.6.16.1) si conserva una copia presso il

Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (inv. n. 594F) tradizionalmente attribuito a Francesco Salviati (Barocchi 1950, p. 222, n. 3). Iris Cheney, tuttavia, ha rigettato l’attribuzione (1963, pp. 568-569), seguita da Luisa Mortari (1992, p. 185, cat. n. 84), secondo la quale si tratta piuttosto di un’opera di bottega.

118 De Tolnay 1975, p. 65, cat. n. 89. Sulla profonda e capillare influenza esercitata dai disegni di Michelangelo si

veda Joannides 1996, in particolare pp. 29-36. È del tutto paradigmatico della fortuna critica di Jacopino del Conte e della consapevolezza della sua importanza in questo contesto di ricerca che tra gli artisti citati dallo studioso non sia menzionato il caso del nostro.

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Quanto all’opera degli Uffizi, sotto il profilo iconografico, il pittore, pur riferendosi al modello michelangiolesco, si inserisce più fedelmente nell’alveo della tradizione, sfumando le novità più sorprendenti messe a punto dal Buonarroti.

A partire dalla metà del XIV secolo, la Madonna del Latte conobbe una straordinaria fioritura, soprattutto in ambito toscano, sovrapponendosi ed innestandosi sempre più di frequente sull’iconografia della Madonna dell’Umiltà.

La cospicua diffusione del tema trova una sua giustificazione nella definizione di una nuova tipologia di immagine devozionale, informata ad una più domestica ed intima relazione del fedele con la divinità. Tale nuova concezione, peraltro, fu grandemente incoraggiata dalla predicazione degli ordini mendicanti e dalla diffusione di testi come le Meditationes Vitae Christi, che, a differenza delle Sacre Scritture, ponevano spesso l’accento sul racconto dei momenti più privati ed intimi della vita di Maria e di Gesù, promuovendo una pratica devozionale volta a favorire una visione contemplativa e privata dell’immagine sacra119.

Un ulteriore slancio nella produzione di opere di tale soggetto dovette provenire poi dalla contemporanea diffusione del culto del latte mariano anche in Toscana, regione che conobbe in quel periodo una certa proliferazione delle reliquie del sacro liquido120. Inoltre, l’immagine si presta in maniera particolarmente calzante a veicolare alcuni concetti cardine della cultura cristiana, come ad esempio quello della carità121.

Millard Meiss, nell’ambito della sua ricognizione sul tema della Madonna dell’Umiltà, di fatto non operava alcuna distinzione tra questa iconografia e quella, più antica, della Virgo Lactans. La massiccia immissione del tema della Vergine Galaktotrophousa nella suddetta tipologia iconografica a partire dalla metà del Trecento è stata interpretata dallo studioso come risultato della volontà di esprimere l’umiltà di Maria122.

In realtà, come argomentato anche da Beth Williamson, l’iconografia della Virgo lactans, pur manifestandosi sovente nell’attitudine di una Madonna dell’Umiltà, ha probabilmente origini più antiche e significati più complessi, non necessariamente da leggersi come esclusiva dimostrazione dell’umiltà della Vergine123. Leo Steinberg, ad esempio, ha riportato fortemente l’attenzione sul tema dell’umanizzazione di Cristo, veicolato patentemente dall’iconografia della Madonna del Latte. La descrizione del momento naturalissimo dell’allattamento, infatti,

119 Dorger 2012, in particolare pp. 82-84; pp. 88-92. 120 Holmes 1997, pp. 191-193.

121 Levin 2004, pp. 52-58.

122 Sul tema di vedano, almeno, Meiss 1936, pp. 435-464; Id. 1951, pp. 132-156; Bonani-Baldassarre Bonani 1995,

p. 31; Williamson 1996; Holmes 1997, pp. 167-195; Berruti 2006, pp. 23-49; Bonani 2010, pp. 11-16; Cassigoli 2009; Williamson 2009; Dorger 2012.

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enfatizzando il motivo della maternità e del nutrimento di Cristo, allude al mistero dell’Incarnazione, al sacramento eucaristico e alla redenzione, divenendo così un canale immediato di comunicazione della salvezza. La modalità relazionale tra madre e figlio, appunto, si manifesta come risposta ad una necessità “terrena”: il concreto ed indispensabile gesto dell’allattamento sancisce e sottolinea l’umanità del figlio di Dio e la verità della sua Incarnazione124. Inoltre, l’immagine di Maria colta nell’atto di allattare Gesù ribadisce il suo ruolo di mediatrice per l’umanità e di “co-redentrice”: senza la sua intercessione e il suo nutrimento, il piano di salvezza di Dio non avrebbe avuto luogo125.

Il dipinto di Jacopino, quindi, si inserisce in questo speciale ambito iconografico e devozionale: la Madonna è accovacciata modestamente a terra e porge il seno a Gesù; ad assistere in qualità di testimone è chiamato il precursore, Giovannino, il quale si inginocchia e congiunge le braccia in segno di adorazione. Il valore devozionale dell’opera, come sovente in opere di simile soggetto, è accentuato dalla totale assenza di figure di mediazione e di elementi accessori: il gruppo sacro, infatti, si staglia in una sorta di isolamento narrativo, privato come è della descrizione di scene storiche o di altri episodi paralleli.

Rispetto alla Madonna degli Innocenti (Fig. 12) e alla Madonna di Berlino (Figg. 19; 20), la Madonna degli Uffizi si qualifica per la presenza di alcune inedite formule espressive: il volto di Maria appare infatti meno dolce, più severo e distaccato, “imbronciato”, secondo la calzante definizione di Vannugli126. Tale caratteristica espressiva fu esemplata proprio sul Michelangelo scultore delle Tombe127.

L’osservazione di una così stretta aderenza al paradigma michelangiolesco di San Lorenzo sembra non poco rilevante. Jacopino del Conte, infatti, al pari di altri colleghi della sua generazione, come Giorgio Vasari e Francesco Salviati, esibisce grande attenzione nei confronti del Michelangelo fiorentino – segnatamente (e precocemente), nei confronti delle sue opere per la Sacrestia Nuova.

Del resto, la sua precedente permanenza presso la bottega di Andrea del Sarto cadde in anni in cui lo stesso maestro osservava con interesse l’esempio del Buonarroti, seguito in questo anche da Pontormo: le loro opere licenziate allo scadere del terzo decennio presentano, in effetti, una monumentalità e una vena scultorea molto più evidenti rispetto alla produzione più antica: tali caratteristiche si spiegano facilmente con la curiosità con cui guardavano a

124 Steinberg ed. 1996, p. 15.

125 Morgan 1991, pp. 69-103, in particolare p. 96; Williamson 1996, pp. 269-273. 126 Vannugli 1991, p. 74.

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Michelangelo. A tal proposito, è ancora una volta Vasari a confermare questi nessi. Nel 1526 il d’Agnolo fu pagato per la scena con la Nascita del Battista nel Chiostro dello Scalzo (Fig. 34), luogo giustamente considerato un’antologia visiva della sua evoluzione stilistica nell’arco di diversi decenni. La storia, contraddistinta da un “michelangiolismo ingentilito”128, fu citata da Vasari come prova evidente dell’aggiornamento condotto dal Sarto sul modello del Buonarroti:

“Mancava al cortile dello Scalzo solamente una storia a restare finito del tutto; per il che Andrea, che aveva

ringrandito la maniera per aver visto le figure che Michelagnolo aveva cominciate e parte finite per la sagrestia di San Lorenzo, mise mano a fare quest’ultima storia; et in essa dando l’ultimo saggio del suo miglioramento, fece

il nascer di San Giovanni Battista, in figure bellissime e molto migliori e di maggior rilievo che l’altre da lui state fatte per l’adrieto nel medesimo luogo”129.

L’avvicinamento all’orbita del Buonarroti, quindi, fu parzialmente filtrato e veicolato dall’aggiornamento che sulle sue opere avevano condotto artisti come Andrea del Sarto, Iacopo Pontormo e Baccio Bandinelli. Lo stesso Vasari, nel descrivere il periodo del suo apprendistato presso la bottega del Sarto, raccontò dell’abitudine di copiare dal taccuino di disegni e di studi del maestro, fogli che a sua volta mostrava al suo giovane amico e collega Francesco Salviati130. Andrea del Sarto, d’altronde, ebbe senz’altro l’opportunità di conoscere, studiare e probabilmente copiare alcuni fogli del Buonarroti131.

Non può stupire, quindi, che parte dell’apprendistato fiorentino di Jacopino si sia svolto all’ombra delle Tombe, probabilmente in principio su sollecitazione dello stesso Andrea, e che nelle sue opere prevalga sempre una certa cura nel definire l’aspetto plastico delle superfici. Per concludere, anche Luigi Lanzi, nel descrivere la scuola fiorentina, affermava:

“Contemporanei del Vasari furono il Salviati, e Jacopo del Conte, stati pur con Andrea del Sarto, e il Bronzino scolar del Pontormo; portati però dal genio al pari di Giorgio alla imitazione di Michelangiolo”132.

Relativamente a Jacopino del Conte, poi, l’abate di Montecchio significativamente aggiungeva:

128 Si cita Antonio Natali 1998, p. 173. Si veda anche quanto rilevato da Shearman 1965, II, p. 306, n. 15. Si veda

anche Proto Pisani 1995.

129 Vasari 1568, IV, p. 383. Il corsivo è mio. 130 Vasari 1568, vol. V, pp. 512-513.

131 Sul rapporto tra Andrea del Sarto e Michelangelo si veda Joannides 1996, p. 30; Id. 2003a, pp. 69-70. 132 Lanzi 1809, p. 200.

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“Imitò Michelangelo, ma d’una maniera più disinvolta, e con colorito sì diverso, che par di altra scuola”133.

2.2_2. La fortuna delle Tombe medicee di Michelangelo

La fortuna del Buonarroti, e in particolare la prima reazione degli artisti più giovani alla sua attività fiorentina negli anni del passaggio tra terzo e quarto decennio del Cinquecento, e dunque le conseguenze dell’infaticabile esercizio condotto sul suo esempio da parte degli artisti della generazione di Jacopino non sono stati ancora del tutto valutati.

L’attenzione degli studi si è di volta in volta concentrata sul caso di singoli manieristi, limitandosi spesso a replicare per ciascuno l’inserimento nella categoria generalissima dei “michelangioleschi”.

Di recente, invece, in modo del tutto salutare, lo schema analitico si è andato progressivamente modificando e arricchendo sul piano storico-interpretativo. Il fenomeno della reazione all’opera di Michelangelo da parte dei suoi contemporanei, infatti, tende oggi ad essere valutato entro una cornice più ampia del problema134. Si è tentato cioè di svincolare il tradizionale approccio di studi sul manierismo da quell’ottica che aveva orientato e favorito una misurazione spesso negativa del percorso artistico di quegli artisti “seguaci di Michelangelo”, le cui opere, nel loro sostanziarsi come fortemente e, talvolta, esclusivamente debitrici dei prototipi del maestro, apparivano prive di originalità, di spessore teorico e di interesse.

Del resto, le stesse opere del Buonarroti, straordinariamente fertili sul piano inventivo e formale ma anche “problematiche” innanzi tutto sul piano della ricerca stilistica, e poisotto il profilo teorico ed intellettuale, per molti manieristi, quantunque “ossessionati” dal modello michelangiolesco, furono difficilmente replicabili nella loro complessità. L’adesione alle istanze michelangiolesche, difatti, spesso sfociò nel prelievo pedissequo di singoli brani, reimpiegati, combinati e giustapposti nelle loro composizioni in maniera frequentemente farraginosa, attirando per questo aspre reprimende, non solo, come si è detto, nella storiografia critica del Novecento, che di fatto ha emarginato come trascurabile o fortemente criticabile il fenomeno in esame, ma anche nella stessa letteratura artistica antica. In questo senso, il caso di Battista Franco (soprattutto per quel che riguarda la scena licenziata per l’Oratorio di San Giovanni

133 Lanzi, op. cit., p. 203.

134 Si veda, a tal proposito, lo studio curato da Francis Ames-Lewis e Paul Joannides (2003). Da ultimo, sul

problema del rapporto di Perino del Vaga, Daniele da Volterra e Pellegrino Tibaldi con Michelangelo si veda Hansen 2013.

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Decollato a Roma) rimane esemplare135, così come esemplare rimane la lucida polemica condotta da Giovan Battista Armenini relativamente all’imitazione di Michelangelo; nei suoi