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L’America latina tra sostituzione dell’import e apertura al mercato

Nel documento Giugno 2013N. 4 (pagine 101-105)

4. Lo sviluppo industriale non cade dal cielo

4.4 L’America latina tra sostituzione dell’import e apertura al mercato

L’America latina, a partire dagli anni Trenta e fino alla crisi debitoria dei primi anni Ot-tanta, si caratterizza per un percorso di crescita incardinato su una strategia di industria-lizzazione basata sulla sostituzione delle importazioni (import-substitution industrialisation, ISI), ossia sulla creazione guidata dallo Stato di una base produttiva domestica che rim-piazzi le importazioni di beni manifatturieri.

Questo processo aveva alla sua base, da un lato, un’ispirazione nazionalista, mirata a ri-durre la dipendenza politica dell’area dall’influenza occidentale (soprattutto dagli Stati Uniti) e, dall’altro, una giustificazione economica, data la forte dipendenza delle economie latinoamericane dalla produzione del settore primario. In particolare, la tesi principale a fondamento dell’attuazione di politiche protezionistiche della manifattura, che divenne poi nota come il paradigma di Singer-Prebisch, era incardinata sulla premessa di un dete-rioramento, nel lungo periodo, delle ragioni di scambio delle economie sottosviluppate ri-spetto a quelle sviluppate, conseguente alla specializzazione delle prime su beni primari e delle seconde su beni industriali42; con l’avanzare del progresso tecnologico, il divario nelle ragioni di scambio si sarebbe inevitabilmente accentuato.

Gli strumenti di attuazione delle politiche ISI sono stati molteplici43, e in larga parte coin-cidenti con quelli ampiamente utilizzati in quegli stessi anni da Corea e Taiwan. Essi com-prendevano: dazi e quote alle importazioni (con l’obiettivo di scoraggiare l’importazione dei manufatti concorrenti con quelli domestici, soprattutto beni di consumo durevoli); la partecipazione diretta dello Stato nei settori ritenuti strategici per l’economia (soprattutto industria pesante e settori orientati alla produzione di beni militari); l’accesso al credito ga-rantito da istituti di credito pubblici; l’apertura agli investimenti diretti esteri con l’obiet-tivo di importare la tecnologia e il know-how necessario per la nascita di nuovi settori produttivi44. Alla coincidenza, almeno parziale, degli strumenti impiegati nell’ambito asia-tico, tuttavia, corrispondono obiettivi sostanzialmente diversi45.

Innanzitutto, mentre Corea e Taiwan adottano da subito politiche molto selettive, non solo tra i settori ma perfino tra le imprese di uno stesso settore, le politiche protezioniste nel continente sudamericano appaiono sostanzialmente indiscriminate. L’intervento cioè non Scenari industriali n. 4, Giugno 2013

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42La tesi è fondata sull’imponente documentazione di uno studio delle Nazioni Unite ripreso da Singer (1964).

Per un’analisi approfondita delle tesi di Prebisch e Singer, ivi inclusa la loro evoluzione nei decenni succes-sivi, si veda Ho (2012).

43Si veda Baer (1984).

44Vale la pena di rilevare la differenza rispetto ai casi giapponese e coreano (ma non cinese), nei quali è

total-mente assente lo strumento degli investimenti esteri in entrata, in ragione di una diversa valutazione dei suoi effetti sullo sviluppo tecnologico dell’economia ospitante.

è mirato all’acquisizione nel medio periodo di potenziali vantaggi comparati in determinati ambiti manifatturieri, ma risponde alla logica di favorire qualunque produzione domestica che sia in grado di rimpiazzare le importazioni. Soprattutto, mentre nel caso asiatico le po-litiche protezionistiche si affiancano fin dall’inizio a una strategia di orientamento della produzione verso i mercati esteri, con l’obiettivo primario di realizzare una base industriale locale capace di esportare verso le economie più avanzate (ampliando così la scala della do-manda potenziale), al contrario nel contesto latino-americano l’ISI assume i connotati di una vera e propria politica autarchica (più precisamente denominata inward-oriented, orien-tata all’interno), in cui la produzione locale è rivolta principalmente al mercato domestico e l’afflusso di capitali esteri sotto forma di investimenti diretti e importazioni di beni stru-mentali serve da complemento negli ambiti in cui la tecnologia nazionale non può arri-vare. Una differenza decisiva col modello asiatico c’è anche sugli strumenti: riguarda la totale assenza nel modello sudamericano di qualsiasi forma di condizionalità degli aiuti e di una contestuale sterilizzazione del sistema decisionale pubblico da ogni forma di cattura da parte di interessi organizzati.

Pur emergendo già sul finire degli anni Sessanta una maggiore attenzione verso i mercati esteri attraverso accordi commerciali intra-area46e sussidi alle esportazioni, fino ai primi anni Ottanta, con la parziale eccezione del Messico (caratterizzato dalla nascita, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, della maquila lungo il confine con gli Stati Uniti47) e del Brasile, la struttura manifatturiera dell’America latina fu sostanzialmente rivolta alla domanda di consumo domestica, e questo orientamento si rifletté anche nella destinazione dei flussi di investimenti diretti esteri48.

Questo modello di sviluppo inevitabilmente generò nel corso dei decenni uno squilibrio crescente nella bilancia dei pagamenti, poiché a fronte di flussi crescenti di importazioni (sia di materie prime sia di beni capitali) necessari per sostenere l’espansione produttiva do-mestica, sussisteva una debolezza strutturale delle esportazioni. Il forte indebitamento

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46Nel 1960 venne istituito il Mercado Comun Centroamericano (MCCA) formato da El Salvador, Guatemala,

Honduras e Nicaragua, che venne però abolito nel 1969 a causa di tensioni interne tra gli stati per poi resu-scitare nel 1991. Sempre nel 1960 un’esperienza analoga di integrazione economica venne avviata nell’A-merica del Sud comprendente tutte le principali economie della regione con l’aggiunta del Messico (Asociación Latinoamericana de Libre Comercio, ALALC); l’iniziativa fu un sostanziale fallimento e spinse nel 1969 alcuni membri a fondare il Grupo Andino. Nel 1982 l’ALALC venne sostituito con l’Asociación

Latinoa-mericana de Integracion (LAIA), con l’intento di dare attuazione concreta alla necessità di ridurre le barriere

commerciali tra i paesi membri e favorire l’integrazione economica dell’area. In anni più recenti, si è assi-stito alla nascita del MERCOSUR (1991), da parte di Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, e del NAFTA

estero che ne derivò divenne insostenibile nei primi anni Ottanta, a seguito sia del rallen-tamento dell’economia nei paesi avanzati (che ridusse di conseguenza la domanda di im-portazioni dei beni prodotti in America latina) sia del brusco aumento dei tassi d’interesse sul debito indotto dalla politica monetaria restrittiva adottata dagli Stati Uniti.

Il risultato fu lo smantellamento del sistema dell’ISI tra gli anni Ottanta e i primi anni No-vanta, che, per la radicalità e la direzione assunte dal cambiamento, accomuna in parte l’e-sperienza del Sudamerica con quanto avvenuto a seguito della disgregazione del blocco sovietico. Infatti, pur con le specificità che contraddistinguono all’origine i due modelli, si assiste pressoché negli stessi anni anche nel caso delle economie sudamericane a una de-cisa apertura dei mercati domestici alla concorrenza estera e a un forte ridimensionamento dell’intervento pubblico diretto nell’economia, attuato innanzitutto attraverso l’abbatti-mento delle restrizioni alle importazioni, il contenil’abbatti-mento della spesa pubblica e la priva-tizzazione delle principali attività economiche, compreso il settore finanziario49. Il punto, in questo quadro, è che non si trattò di una liberalizzazione dei mercati che seguì una fase già avviata di riposizionamento strategico della produzione domestica verso i mercati esteri (come avvenne nel caso del Sud Est asiatico), bensì di una liberalizzazione che avrebbe do-vuto essa stessa guidare l’apertura al commercio internazionale.

Questo cambiamento radicale di paradigma nella politica economica contribuì in parte a ovviare alle principali debolezze del modello di sviluppo sudamericano, ossia lo scarso orientamento alle esportazioni della produzione nazionale e l’elevata volatilità dei prezzi interni, associata con una persistente iperinflazione. La pressione competitiva derivante dalle importazioni, i maggiori flussi di investimenti diretti esteri (attratti da un quadro di maggiore stabilità macroeconomica e dalle politiche di dismissione delle imprese pubbli-che), nonché la maggiore integrazione commerciale all’interno del subcontinente ameri-cano e con le economie più avanzate, imposero al tessuto produttivo domestico un processo di “distruzione creatrice”50che liberò risorse produttive dai settori meno efficienti. Questo cambiamento determinò un miglioramento complessivo della competitività e rese più at-trattive le merci domestiche nei mercati internazionali. Contemporaneamente, il controllo dei tassi di cambio (spesso attraverso l’ancoraggio delle valute nazionali al dollaro) e le po-Scenari industriali n. 4, Giugno 2013

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49Con l’eccezione del Cile, che avviò gradualmente il piano di liberalizzazione già a partire dagli inizi degli

anni Settanta, nei restanti paesi dell’America latina il processo di liberalizzazione e apertura avvenne lungo un arco di tempo molto limitato (Singh et al., 2005). La liberalizzazione dei mercati domestici fu in molti casi imposta, com’è noto, dalle istituzioni internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) che assistevano finanziariamente le economie in difficoltà, come condizione necessaria per poter accedere ai prestiti (Edwards, 1995).

50Basti pensare che, a titolo di esempio, tra il 1974 e il 1982, durante la fase di transizione dell’economia cilena,

litiche di bilancio restrittive adottate dai governi nazionali consentirono di riportare la di-namica dei prezzi interni sotto controllo (almeno nel breve periodo).

Allo stesso tempo, però, queste politiche conseguirono risultati modesti in termini di svi-luppo economico, con tassi di crescita del PIL che, dopo la crisi degli anni Ottanta (definiti il decennio perduto), risultarono positivi negli anni Novanta ma mediamente inferiori ri-spetto al periodo caratterizzato dall’ISI51. Inoltre, se da un lato esse favorirono la crescita delle esportazioni, allo stesso tempo generarono un flusso ancora maggiore di importa-zioni, creando nuovi squilibri nella bilancia dei pagamenti che contribuirono all’esplosione di crisi valutarie sul finire degli anni Novanta e nei primi anni 200052. Questo squilibrio tra esportazioni e importazioni fu determinato sia dalla natura asimmetrica delle misure adot-tate, che favorirono l’afflusso pressoché indiscriminato di importazioni senza prevedere al contempo misure attive di supporto alle esportazioni, sia dall’apprezzamento delle valute nazionali per contrastare l’inflazione, che resero meno competitive le esportazioni favo-rendo al contrario le importazioni53.

Complessivamente, le economie latinoamericane dopo gli anni Ottanta subirono un gene-rale riposizionamento verso il basso della struttura produttiva domestica, sia in termini di diversificazione settoriale sia di contenuto tecnologico delle produzioni domestiche, che ancora oggi pesa sulla loro capacità di sviluppo. Infatti, le esportazioni si orientarono in modo prevalente verso produzioni a basso valore aggiunto, basate sulla trasformazione di risorse naturali (come nel caso di Argentina, Brasile, Cile e Uruguay) oppure sull’assem-blaggio di input intermedi importati (come nel caso del Messico e di alcune repubbliche centroamericane)54. Il risultato è consistito non solo nella scarsa capacità di innovazione tec-nologica del sistema produttivo nel suo insieme ma anche nella cristallizzazione del si-stema industriale su produzioni dall’importanza sempre più marginale rispetto alla dinamica della domanda internazionale.

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51Cile e Argentina costituiscono in questo quadro un’eccezione, con tassi di crescita molto sostenuti negli anni

Novanta (Hofman, 2000).

52Secondo i dati tratti da Ernst (2005), durante gli anni Novanta Argentina e Brasile registrarono un tasso di

crescita medio annuo delle esportazioni pari rispettivamente a 8,5% e 6,0%, a fronte di un tasso di crescita medio annuo delle importazioni pari rispettivamente a 25,2% e 11,8%. Si può osservare che questi anda-menti mantengono una condizione di sostanziale inefficienza del settore manifatturiero (già presente negli anni dell’ISI), secondo la definizione suggerita da Singh (1977 e 1987) e ripresa qui nel capitolo 2.

53Si veda Agosin e Ffrench-Davis (1995).

54Si veda in particolare il già citato Katz (2001), Shafaeddin (2005), Dingemans e Ross (2012). Nella seconda

metà degli anni Novanta, con l’eccezione del Messico, in cui i principali settori manifatturieri destinati alle

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