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Analisi testuale (213 237) Χο.

— ἰὼ Ζεῦ, τίς ἂν πᾷ πόρος κακῶν [στρ γένοιτο καὶ λύσις τύχας ἃ πάρεστι κοιράνοις; <αἰαῖ>· εἶσί τις ἢ τέμω τρίχα (215) καὶ μέλανα στολμὸν πέπλων ἀμφιβαλώμεθ’ἤδη; — δῆλα μέν, φίλοι, δῆλά γ’, ἀλλ’ ὅμως θεοῖσιν εὐχώμεσθα· θε͜ῶν γὰρ δύναμις μεγίστα. (220) ὦναξ Παιάν, ἔξευρε μηχανάν τιν’ Ἀδμήτῳ κακῶν. πόριζε δὴ πόριζε· καὶ πάρος γὰρ †τοῦδ’ ἐφεῦρες† καὶ νῦν λυτήρ- ιος ἐκ θανάτου γενοῦ, φόνιον δ’ ἀπόπαυσον Ἅιδαν. (225) παπαῖ < qwq qwqwq> [αντ ὦ παῖ Φέρητος, οἷ’ ἔπρα- ξας δάμαρτος σᾶς στερείς. αἰαῖ· ἄξια καὶ σφαγᾶς τάδε καὶ πλέον ἢ βρόχῳ δέραν οὐρανίῳ πελάσσαι. τὰν γὰρ οὐ φίλαν ἀλλὰ φιλτάταν (230) γυναῖκα κατθανοῦσαν ἐν <γ’> ἄματι τῷδ’ ἐπόψῃ. ἰδοὺ ἰδού· ἥδ’ ἐκ δόμων δὴ καὶ πόσις πορεύεται.

βόασον ὦ, στέναξον, ὦ Φεραία χθών, τὰν ἀρίσταν γυναῖ- (235) κα μαραινομέναν νόσῳ κατὰ γᾶς χθόνιον παρ’ Ἅιδαν. οὔποτε φήσω γάμον εὐφραίνειν πλέον ἢ λυπεῖν, τοῖς τε πάροιθεν τεκμαιρόμενος καὶ τάσδε τύχας (240) λεύσσων βασιλέως, ὅστις ἀρίστης ἀπλακὼν ἀλόχου τῆσδ’ ἀβίωτον τὸν ἔπειτα χρόνον βιοτεύσει.

Il coro inizia lo stasimo chiedendo a Zeus100 se mai potrebbe esserci una via di

scampo dalle disgrazie101 che incombono sui due sovrani o se invece dovrà

prepararsi al lutto (213-215).

Nonostante la gravità della situazione sia chiara, come dimostra il ripetersi di δῆλα102, i coreuti sembrano riporre di nuovo la loro fiducia nel potere degli dei e si

rivolgono a Peana scongiurandolo di trovare una soluzione alla sventura di Admeto e di allontanare da lui la morte.

100 Per peana che iniziano con un’invocazione a Zeus, vd. e.g. Pind. pae. VI.

101 Al verso 215, i codici tramandano ἔξεισί τις al posto di εἶσί τις, che è congettura di Wilamowitz. La correzione è resa necessaria dal fatto che, nella versione tradita, non ci sarebbe responsione fra il verso 215 e il 228 perché il primo sarebbe più lungo di una sillaba.

Wilamowitz propone εἶσί basandosi sull’assunzione che αἰαῖ fosse scritto ἓ ἔ, poi corrottosi in ἔξ (questo spiegherebbe la perdita dell’interiezione e la presenza di una sillaba supplementare al verso successivo). Il filologo intendeva però εἶσί nello stesso senso di ἔξεισί (“uscirà qualcuno?”). La Dale, pur adottando a testo la correzione, non ne era pienamente convinta: fa notare infatti che questo contesto non richiede necessariamente un lamento del tipo di ἓ ἔ, mentre dal punto di vista del senso sembra adattarsi meglio ad ἔξεισί che al verbo semplice. La Parker risolve questa difficoltà grazie ad un suggerimento di Collard, come la studiosa tiene a specificare nel commento. Eἶσί sarebbe da collegare alla prospettiva di salvezza, prendendo come soggetto il λύσις τύχας del verso 214 e intendendo “ci sarà una qualche risoluzione del destino”. La Parker osserva che, senza questo collegamento, avremmo una frase del tipo “uscirà qualcuno o dovrò tagliare i capelli...”, il cui senso non è adeguato al contesto. Il coro deve in ogni caso aspettare che qualcuno esca dal palazzo, o Alcesti, come aveva preannunciato la serva, nel caso in cui la regina dovesse essere ancora in vita, o qualcuno che ne annunci la morte. L’alternativa non è quindi fra l’aspettare che esca qualcuno o il cominciare le pratiche del lutto, perché in ogni caso i coreuti dovrebbero aspettare notizie dall’interno della casa prima di piangere la morte di Alcesti.

102 Diggle (1994), 9-10, propone δεινά al posto di δῆλα, argomentando che il nesso fra l’evidenza della sventura e la preghiera agli dei non è consequenziale. Non mi sembra però

un’argomentazione sufficientemente convincente per sostituire una lezione che non presenta problemi di nessun tipo.

Lavinia Lorch trova un gioco di ironia tragica nella duplice invocazione prima a Zeus e poi ad Apollo: ho già detto come quest’ultimo sia sicuramente la divinità meno adatta ad apportare la salvezza in questo contesto e come fosse uscito vinto dallo scontro verbale con Thanatos. Per quanto riguarda Zeus, Lorch nota che egli è la causa originaria dei mali di Admeto in quanto ha obbligato Apollo a fare da schiavo nel suo palazzo ed è quindi alla base del rapporto fra il dio ed il sovrano. Comincerebbe quindi a costruirsi uno scambio dialettico fra azione e canto del coro: questo tende a porre fiducia in eventi che lo sviluppo scenico rigetta in maniera evidente103.

Non penso però che il coro possa veramente sperare in un intervento salvifico da parte del dio: ritengo invece più probabile che l’invocazione ad Apollo Peana, il dio che per eccellenza libera dai mali104, sia dovuta solo al fatto che era

tradizionalmente appropriata per il contesto, anche se poi il coro, esprimendo la propria vera opinione nell’antistrofe, rivelerà un atteggiamento decisamente più pessimista.

Lo schema utilizzato nell’invocazione dei versi 220-225 è quella tradizionale della preghiera, incentrato sulla rievocazione del rapporto preesistente tra il destinatario della supplica ed il suo beneficiario (222-223: καὶ πάρος γὰρ †τοῦδ’ ἐφεῦρες†) e sul fatto che se mai il dio prima era stato benevolo nei suoi confronti, allora doveva esserlo anche in quel momento105.

Il concetto è persino rafforzato dalla sostituzione della formula condizionale εἴ ποτέ… καὶ νῦν con quella che sembra una vera e propria asserzione: il coro sa per certo che Apollo in passato ha già salvato Admeto.

La sicurezza nel rivolgersi al dio rende ancora più stridente l’accostamento con la parte successiva dell’ode: una volta compiuto il loro dovere rituale, i coreuti compiangono apertamente la sorte di Admeto, costretto a vivere senza la moglie. Essi sono talmente sicuri che Alcesti sarebbe morta quello stesso giorno (231-232:

103 Lorch (1988), 111.

104 Cassola nella sua edizione degli Inni Omerici (19915), 81, spiega: «il dio che tiene lontano la malattia diventa naturalmente un dio risanatore in senso stretto (…). In questo campo, Apollo finì col sostituirsi quasi totalmente a Paiaon, il medico degli dei, assumendone il nome come proprio epiteto».

105 Cfr. e.g. la preghiera di Diomede ad Atena (Il. Ε 116) o quella di Saffo ad Afrodite nel frammento 1 Lobel Page.

ἐν <γ’> ἄματι τῷδ) che parlano della disgrazia utilizzando l’aoristo (226-227: ὦ παῖ Φέρητος, οἷ’ ἔπραξας δάμαρτος σᾶς στερείς ), come se fosse già compiuta.106

Quello che sembra un repentino cambiamento di opinione è, a mio avviso, conseguenza del meccanismo drammaturgico di cui avevamo parlato nella premessa per cui un canto cultuale inserito in un contesto drammatico che gli è estraneo genera degli effetti diversi rispetto a quelli ai quali mirava nella sua forma canonica.

In questo passo, l’invocazione a Peana, che doveva essere fonte di speranza e di alleggerimento dai mali, non fa altro che aggravare la desolazione della situazione perché gli stessi coreuti che l’avevano pronunciata ne smentiscono la validità 107.

Come abbiamo visto infatti essi danno per certa la morte di Alcesti, disgrazia talmente grande da poter giustificare un suicidio di Admeto (228-233 ). La loro ode di compianto per il re di Fere viene interrotta dall’arrivo di Alcesti, alla quale attribuiscono caratterizzazioni estremamente positive come “la migliore fra donne” (235-236) e “un’ottima moglie” (240-241). In questa situazione, però, il valore della donna non fa altro che rendere più profonda la sofferenza di Admeto, in quanto ne aggrava la perdita; intorno a questo tema si articola la serie di anapesti recitativi che precedono l’intervento di Alcesti (237-242), incentrata sulla riflessione che le nozze non apportino gioia ma dolore.

106 La forma forte del participio aoristo passivo è stata proposta da Monk per ripristinare la responsione: i manoscritti riportavano la forma στερηθείς, più usuale.

107 Ci sono anche altre modalità attraverso cui il peana tragico può incrementare l’angoscia invece di alleviarla. A volte, ad esempio, il canto in sé e per sé viene effettivamente percepito come gioioso, ma o è immediatamente seguito da una disgrazia oppure è simbolo di una felicità passata e ormai perduta. Il primo caso è rappresentato egregiamente dal secondo stasimo dell’Eracle, nel quale i vecchi, per festeggiare il ritorno di Eracle, innalzano peana in suo onore così come le fanciulle di Delo fanno per Apollo (687-694). Poco dopo, però, l’arrivo di Lissa porterà ad un ribaltamento della sorte e alla pazzia di Eracle. Alla visione di Lissa, il coro grida di terrore ed invoca Peana (815- 816: ὦναξ Παιάν, /ἀπότροπος γένοιό μοι πημάτων),

ricollegandosi al clima ben diverso della sezione precedente.

Per quanto riguarda il peana che viene evocato come ricordo di un passato roseo in contrapposizione con la sventura che affligge il presente, cfr. e.g. Aesch. Ag. 242-246:

raccontando del sacrificio di Ifigenia in Aulide, si apre un breve flashback che ritrae la fanciulla intenta a cantare un peana simposiale ( … ἐπεὶ πολλάκις/ πατρὸς κατ’ ἀνδρῶνας εὐτραπέζους/ ἔμελψεν, ἁγνᾷ δ’ἀταύρωτος αὐδᾷ πατρὸς/ φίλου τριτόσπονδον εὔποτμον/παιῶνα φίλως ἐτίμα).

L’associazione fra il tema del matrimonio e quello della morte, che percorrerà in maniera consistente tutto il dramma, era già sottintesa nel resoconto della serva dell’ultima giornata della sua padrona108.

I rimandi fra questa scena e il primo stasimo in realtà sono diversi, tanto che Hose propone di interpretare quest’ultimo come una ripresa in chiave lirica del discorso dell’ancella109. La funzione dell’ode corale non può però essere ridotta a quella di

una Szenenreflex; la sua posizione all’interno della struttura drammatica le dà al contrario il ruolo centrale di punto d’unione fra la parte precedente e quella seguente del dramma. Essa infatti, riprendendo dei temi che erano già stati trattati e anticipandone degli altri che emergeranno, congiunge la prima sezione, in cui Admeto ed Alcesti erano stati presenti solo come oggetto di racconto (prologo; primo episodio) e di riflessione (parodo; primo stasimo) con la seconda, in cui appariranno fisicamente sulla scena.

Il legame con la prima parte del dramma non consiste solo nella ripresa di alcuni punti concettuali del discorso della serva, ma anche nell’atmosfera di incertezza tendente al pessimismo (più marcata nella parodo, meno nel primo stasimo perché a questo punto i coreuti hanno una visione più chiara della condizione della loro regina) e nell’invocazione ad Apollo. I motivi che vengono anticipati qui e che saranno centrali nella seconda parte del dramma sono invece la possibilità di un suicidio110, motivata dal fatto che una vita senza Alcesti non vale la pena di essere

vissuta111, e il pensiero che le nozze portino dolore e non gioia112.

108 I preparativi per il momento del decesso descritti dall’ancella sembrano fondersi a tratti con quelli per un matrimonio. Alcesti, dopo essersi lavata, si veste e adorna con cura (160-161); prega Estia (162-169), dea protettrice del focolare alla quale facevano dei sacrifici anche le novelle spose; si getta più volte sul letto nuziale e rievoca la perdita della verginità (175 ss.). Per un confronto fra gli elementi rituali presupposti dalle due cerimonie, cfr. Rehm (1994), 29. 109 Hose (1990-1991), 101, individua anche delle riprese puntuali dei concetti espressi nella ῥῆσις. Cfr.e.g. Eur. Alc. 196-198 e 227-229 ; 202-203 e 221.

110 Il coro la menziona ai versi 226-229; anche Admeto in seguito sembra averla presa seriamente in considerazione (897-899: τί μ’ ἐκώλυσας ῥῖψαι τύμβου/ τάφρον ἐς κοίλην καὶ μετ’ ἐκείνης). τῆς μέγ’ ἀρίστης κεῖσθαι φθίμενον;

111 Eur. Alc. 240-242 e 278;386; 864-871; 939-940;960-961. 112 Eur. Alc. 238-239 e 879-882.

Analisi metrica

Prima coppia strofica: 213-225= 226-237

1) wqqwq qwqwq doch hypodoch 2) uqwq wqwq ia dim

3) qwq uqwq lec 4) inter.

5) qww|q wq|wwU cho ia dim 6) qwwq aq|wq cho ia dim 7) qwwq wqq aristoph

8) qwqwq qwqwq hypodoch hypodoch 9) wqw|q aqwq ia dim

10) qwwq wqq||H aristoph

11) inter.

12)qqwq uqwq aqwq ia trim 13)wqwq| wqw|q wqq ia trim cat 14)qqwq qwq ia dim sync 15) w|üwqwwq|wq tel

16)wüwqwwqwqqI hag

A partire da Hermann, anche questo canto viene diviso fra due semicori o comunque fra più individui. La spartizione delle battute è più incerta che ai versi 86-130; il cambio del personaggio parlante è necessario solo al verso 218 (dove qualcuno esorta altri individui, connotati come φίλοι, ad iniziare una preghiera) e al verso 221, quando questa supplica viene messa in atto. La Parker non propone altri cambi di parola dopo il verso 218 perché non avrebbe comportato nessun giovamento supporne degli altri nell’antistrofe dopo il verso 229, dove il senso non

ne richiede113. Altri, come Diggle o la Dale che riprende la sua stessa distribuzione

di battute, pensano ad un dialogo maggiormente frammentato.

Nella sua analisi, la Parker divide il canto in tre sezioni (1-3; 4-10; 11-16): l’inizio di ognuna di queste è marcata da un’interiezione. La seconda e la terza sarebbero poi divise in due sottogruppi da un verso catalettico (7 per la seconda sezione, 13 per la terza) che che funge da clausola.

La prima sezione presenta un andamento inizialmente docmiaco114 e poi giambico;

è conclusa da un verso che la Parker classifica come lecizio115, ma che la Dale

invece vede come un semplice dimetro giambico sincopato, opzione che mi sembra più plausibile visto che è preceduto da due metra giambici.

Per la struttura metrica del primo verso, possiamo avvalerci solo della strofe perché nell’antistrofe il testo è lacunoso. L’editore bizantino di L ha cercato di ristabilire la responsione con il verso 213 inserendo al verso 226 una stringa di esclamazioni (παῖ παῖ φεῦ φεῦ ἰὼ ἰώ). Il testo viene copiato in questa forma anche da P e trasmesso nei primi codici a stampa. I critici di diciottesimo secolo cercarono di aggiustare le esclamazioni in modo tale da garantire la corrispondenza metrica fra strofe ed antistrofe. Dindorf fu il primo a considerare il verso come interpolato e a presupporre al suo posto una lacuna.

La seconda sezione inizia con due dimetri giambo-coriambici seguiti da un aristofanio, interpretabile come una loro forma catalettica116.

113 L’unica concessione viene fatta per i versi 233-234, che possono essere interpretati come un’interruzione parlata del canto da parte del corifeo. Un cambio di parola a questo punto ne richiede un altro simmetrico nella strofe, all’altezza del verso 222. Se però i versi 233-234 non fossero parlati ma cantati, come crede la Parker, non avremmo motivo di immaginare che a questo punto prenda la parola un nuovo personaggio.

114 A livello puramente descrittivo, il primo verso è composto da due bacchei e un giambo finale, che prelude al cambiamento ritmico in senso giambico che avrà luogo a partire dal secondo verso.

115 Il termine lecizio, insieme a quello di euripideo, viene utilizzato per indicare il dimetro trocaico catalettico (qwqxqwq). L’origine del nome deriva dalla parodia aristofanea dei prologhi di Euripide in Ra 1200 ss, dove Eschilo interrompe ogni incipit dell’avversario con la formula ληκύθιον ἀπώλεσεν. Questa espressione corrisponde metricamente alla forma del colon in questione, con soluzione del terzo elemento (qwwwwqwq).

116 In alternativa, come fa Schroeder (1910), 5 possiamo interpretare questo aristofanio come coriambo più baccheo.

I dimetri giambo-coriambici sono dei cola formati dall’associazione di coriambi (qwwq) e giambi (nella loro forma normale xqwq o catalettica xqq)117. Il

dimetro giambo-coriambico sembra essere formato da due metra totalmente diversi: il coriambo non può essere considerato come un giambo con le prime due posizioni invertite perché nel giambo abbiamo un anceps in prima posizione, nel coriambo una lunga. In ogni caso, c’è una piccola quantità di occorrenze nel dramma in cui un coriambo può essere usato al posto di un giambo118. Questa

licenza sembra proprio ispirata dalla possibilità di combinare giambi e coriambi nella lirica.

Il verso 8 riprende il ritmo docmiaco dell’1 e come questo è seguito da un dimetro giambico. La sequenza si conclude di nuovo con l’aristofanio in clausola. Questa sezione presenta dei problemi all’altezza del verso 9 (219 nella strofe, 232 nell’antistrofe). Il fatto che i versi 219-220 e 231-232 siano in sinafia fra loro è evidente: il verso 220 infatti si apre con la postpositiva γὰρ mentre il 231 si chiude con la prepositiva ἐν. Per conciliare la presenza di questa particella ed il mantenimento della responsione metrica, dobbiamo presupporre necessariamente una brevis in longo, condizione che è inconciliabile con la sinafia. Pertanto ci deve essere un problema o nel testo o nella colometria.

Pensando ad un errore testuale, dobbiamo ipotizzare che la particella fosse naturalmente lunga. In questa direzione, sono state proposte tre soluzioni principali: o sostituire ἐν con εἰν secondo la correzione di Dindorf o accettare la correzione ἐν τ’ἄματι di Maas oppure seguire Musgrave e pensare ad un originario ἐν γ’. Quest’ultima soluzione è quella stampata dalla Parker: Diggle ritiene però che il γε in questa frase sia privo di senso. La crasi fra τῳ e l’α dorica che aveva proposto Maas viene considerata estremamente improbabile perché priva di paralleli119.

Anche l’utilizzo di εἰν è considerato una soluzione forzata: è vero che avremmo un parallelo a poca distanza nella stessa Alcesti (436: χαίρουσά μοι εἰν Ἀίδαο δόμοις),

117 Parker (1996), 78, ritiene che essi potessero avere origine eolica e ne trova le prime attestazioni in Anacreonte (fr. 381 b Page) e Saffo (fr. 128 Page).

118 Si tratta di un espediente particolarmente conveniente nel caso in cui si voglia mettere un nome proprio nel primo metron di un trimetro giambico recitato. Cfr. e.g. Soph. Phil. 1099-1121; 1138-1161; Aristoph. Ach. 1150-1161: Vesp. 526-631; Lys 326-340; 331-345.

119 Diggle (1994),200, osserva che anche la crasi fra τῳ e alfa breve è un fenomeno estremamente raro: è attestato solo una volta in Euripide, in un verso che inoltre Diggle considera spurio (Eur.

Hipp. 637: τἀγαθῷ) e un po’ più spesso in Sofocle, ma sempre circoscritto al caso di τἀνδρὶ

ma in quel caso era evidente la volontà di ricalcare il modello dell’addio a Patroclo (Il.Ψ 179: χαῖρέ μοι ὦ Πάτροκλε καὶ εἰν Ἀΐδαο δόμοισι). Nel contesto dei versi che stiamo discutendo, invece, l’epicismo apparirebbe del tutto ingiustificato. Diggle opta quindi per una correzione colometrica, seguendo Schroeder che mette fine di verso dopo εὐχώμεσθα (219)120 e dopo κατθανοῦσαν (231). In questa maniera si

eliminerebbe il problema della brevis in longo al verso 231.

A questo punto, però, ai versi 219 e 231 ci troveremmo di fronte ad uno schema metrico del tipo wqwq aqq e la Dale nota giustamente che la responsione fra un molosso e un baccheo non è mai attestata in fine di colon, ma solo all’inizio121.

Inoltre sono estremamente rari i casi in cui un dimetro giambico catalettico presenta una terzultima sillaba lunga.

Un’altra divisione colometrica proposta per risolvere il problema è quella di Itsumi, che propone θεοῖσιν εὐ-/ χώμεσθα· θέων [γὰρ] δύναμις μεγίστα per i versi 219-220 e γυναῖκα κατ-/θανοῦσαν ἐν ἄματι τῳδ’ ἐπόψῃ per i versi 232-233122. In questo

modo, i due versi in sinafia presenterebbero uno schema metrico interpretabile come giambo più enoplio (wqwq aqwwqwwqwqq).

Riassumendo, penso che la soluzione migliore sia pensare alla caduta di un γ’, come proposto da Musgrave. A mio avviso, infatti il γέ è funzionale a sottolineare che è proprio in quel giorno che Alcesti sarebbe morta, mettendo in risalto l’inevitabilità del decesso e al tempo stesso la conoscenza di una data stabilita dal Destino.

La terza sezione si apre con un trimetro giambico seguito dalla sua forma catalettica. Il dimetro giambico sincopato che troviamo al verso 14 dell’antistrofe (il suo corrispettivo nella strofe è corrotto) viene descritto dalla Parker come un

lecythion in reverse, in quanto presenta una struttura del tipo giambo + cretico e

non cretico + giambo, come avevamo visto al verso 3. L’ultima parte è caratterizzata dal contrasto fra il finale blunt del telesilleo (15) e quello pendant

120 Diggle stampa però εὐξόμεσθα, adottando la congettura di Hadley, al posto del congiuntivo esortativo εὐχώμεσθα trasmesso da B e da L dopo la correzione di Triclinio. Non penso però che l’uso del futuro porti dei miglioramenti tali da giustificare la correzione di un testo tradito che ha perfettamente senso.

121 Dale (19682), 101-102.

del’agesicoreo (16). Questi ultimi tre versi in particolare, però, portano alla luce diversi problemi che rendono difficile arrivare ad una scansione metrica sicura. Una grande difficoltà è rappresentata dal τοῦδ’ ἐφεῦρες del verso 223 (verso 14 della strofe), che la Parker mette fra cruces in quanto la sequenza qwqqq (τοῦδ’ ἐφεῦρες καὶ νῦν) è a stento possibile dal punto di vista metrico e non è in responsione con il verso 235. Suppone quindi che l’espressione possa essere una glossa, volta a spiegare un termine paleograficamente distante, pertanto per la scansione metrica del verso si basa sulla sola antistrofe. Mi sembra ottima la congettura di Dindorf, che propone un παρῆσθα originario: in questo modo, si ripristinerebbe la responsione metrica, il senso sarebbe coerente e avremmo anche una valida spiegazione per la caduta del verbo e la sua sostituzione attraverso un giro di parole che lo glossa. Infatti παρῆσθα potrebbe essere stato perso per aplografia a causa del πάρος γὰρ che lo precede.

Sorgono però dei problemi anche in merito alla divisione dei versi e alla loro classificazione. Riporto qui di seguito alcune divisioni colometriche che sono state proposte: 1) PARKER: vv. 223-225: vv. 235-237: †τοῦδ’ ἐφεῦρες† καὶ νῦν λυτήρ- χθών, τὰν ἀρίσταν γυναῖ- ιος ἐκ θανάτου γενοῦ κα μαραινομέναν νόσῳ . φόνιον δ’ ἀπόπαυσον Ἅιδαν. κατὰ γᾶς χθόνιον παρ’ Ἅιδαν Scansione metrica: qqwqwqq ia dim sync wwqwwqwq + tel ww qwwqwqq hag

La Parker motiva la sua decisione di interpretare questi due versi come metri eolo- coriambici ricordando che lo scioglimento della base eolica łł in tre brevi non è rara in Euripide e Sofocle; pertanto è accettabile anche che la mezza base di questi

versi sia soluta in due tempi brevi. Resta però il problema del verso 236, dove intercorre fine di parola fra le due brevi che costituiscono la soluzione della mezza base ł (κα|μαρ). La situazione potrebbe essere risolta definendo genericamente il verso enoplian, come fa la Dale o Garzya; inoltre la Parker porta all’attenzione un analogo caso di split resolution al verso 272 dell’Alcesti per dimostrare che, seppure

di solito venga evitato, il fenomeno può essere accettato. 2) DIGGLE vv. 223-225: vv. 235-237: †τοῦδ’ ἐφεῦρες† καὶ νῦν χθών, τὰν ἀρίσταν λυτήριος ἐκ θανάτου γενοῦ, γυναῖκα μαραινομέναν νόσωι φόνιον δ’ ἀπόπαυσον Ἅιδαν. κατὰ γᾶς χθόνιον παρ’ Ἅιδαν Scansione metrica qqwqqU wqwwqwwqwq wwqwwqwqqI

Accanto alla soluzione di Diggle, la Parker ne propone un’altra molto simile che presenta quindi gli stessi pregi e gli stessi difetti:

3) PARKER b vv. 223-225: vv. 235- 237 †τοῦδ’ ἐφεῦρες† καὶ νῦν χθών, τὰν ἀρίσταν λυτήριος ἐκ θανάτου γυναῖκα μαραινομένα γενοῦ φόνιον δ’ ἀπόπαυσον Ἅιδαν. νόσῳ κατὰ γᾶς χθόνιον παρ’ Ἅιδαν Scansione metrica: qqwqqU wqwwqwwq wqww qwwqwqqI

Le proposte di divisione colometrica numero 2 e numero 3 hanno il pregio di seguire la divisione retorica e di formare negli ultimi due versi due cola simili ma