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Analisi testuale della seconda parte del kommos: sequenze anapestiche di Admeto (895-902; 912-925) e seconda coppia strofica (903-

911= 926-934) .

Αδ.ὦ μακρὰ πένθη λῦπαί τε φίλων (895) τῶν ὑπὸ γαίας. τί μ’ ἐκώλυσας ῥῖψαι τύμβου τάφρον ἐς κοίλην καὶ μετ’ ἐκείνης τῆς μέγ’ ἀρίστης κεῖσθαι φθίμενον; δύο δ’ ἀντὶ μιᾶς Ἅιδης ψυχὰς (900) τὰς πιστοτάτας σὺν ἂν ἔσχεν, ὁμοῦ χθονίαν λίμνην διαβάντε. Χο. ἐμοί τις ἦν [στρ. β ἐν γένει, ᾧ κόρος ἀξιόθρη- -νος ὤλετ’ ἐν δόμοισιν (905) μονόπαις· ἀλλ’ ἔμπας ἔφερε κακὸν ἅλις, ἄτεκνος ὤν, πολιὰς ἐπὶ χαίτας ἤδη προπετὴς ὢν (910) βιότου τε πόρσω. Αδ. ὦ σχῆμα δόμων, πῶς εἰσέλθω, πῶς δ’ οἰκήσω, μεταπίπτοντος δαίμονος; οἴμοι. πολὺ γὰρ τὸ μέσον· τότε μὲν πεύκαις σὺν Πηλιάσιν (915) σύν θ’ ὑμεναίοις ἔστειχον ἔσω φιλίας ἀλόχου χέρα βαστάζων, πολυάχητος δ’ εἵπετο κῶμος

τήν τε θανοῦσαν κἄμ’ ὀλβίζων ὡς εὐπατρίδαι κἀπ’ ἀμφοτέρων (920) ὄντες ἀριστέων σύζυγες εἶμεν· νῦν δ’ ὑμεναίων γόος ἀντίπαλος λευκῶν τε πέπλων μέλανες στολμοὶ πέμπουσί μ’ ἔσω λέκτρων κοίτας ἐς ἐρήμους. (925) Χο. παρ’ εὐτυχῆ [αντ β σοι πότμον ἦλθεν ἀπειροκάκῳ τόδ’ ἄλγος· ἀλλ’ ἔσωσας βίοτον καὶ ψυχάν. ἔθανε δάμαρ, ἔλιπε φιλίαν· (930) τί νέον τόδε; πολλοὺς ἤδη παρέλυσεν θάνατος δάμαρτος.

Admeto non presta attenzione alle consolazioni che il coro gli ha appena rivolto ma, rinchiuso nel suo dolore, rimprovera ad una generica seconda persona singolare330 di avergli impedito di gettarsi nella tomba insieme ad Alcesti e di

giacere per sempre al suo fianco (897-899)331. Sia i coniugi che Ade avrebbero

tratto vantaggio da questa soluzione in quanto il dio dei morti avrebbe ottenuto due anime invece di una ed Admeto e Alcesti avrebbero potuto passare la palude infernale insieme (900-902).

330 Admeto potrebbe rivolgersi al corifeo o a tutto il gruppo del coro, se questo lo avesse accompagnato durante la processione funebre. In alternativa, si è anche supposto che si stesse riferendo ad un κωφόν πρόσωπον costituito da un servitore che lo aveva seguito sia durante le esequie che al suo ritorno in casa. Cfr. e.g. Eur. Andr. 841-842, dove Ermione sembra rivolgersi ad un servo che è sulla scena insieme a lei e alla nutrice, ma che non parla.

Dal momento che a mio avviso i coreuti hanno partecipato insieme ad Admeto al corteo funebre, ritengo molto probabile che siano stati loro a trattenerlo. Comunque non penso che sia tanto interessante sapere a chi fosse riferito il rimprovero, quanto il fatto che esso venga utilizzato per informare lo spettatore di eventi che si erano svolti al di fuori della scena.

331 Questa volontà viene espressa anche da Achille in relazione a Patroclo (Hom. Il. Ψ 91-92: ὣς δὲ καὶ ὀστέα νῶϊν ὁμὴ σορὸς ἀμφικαλύπτοι/ χρύσεος ἀμφιφορεύς, τόν τοι πόρε πότνια μήτηρ). Al desiderio irreale di morire insieme ad una persona amata si fa riferimento anche in Aesch.

Coeph. 894-895 (φιλεῖς τὸν ἄνδρα; τοιγὰρ ἐν ταὐτῶι τάφωι/είσηι· θανόντα δ’ οὔτι μὴ προδῶις

ποτε.); Eur. Me. (1210: οἴμοι, συνθάνοιμί σοι, τέκνον), Hipp. 1408 (ὄλωλα, τέκνον, οὐδέ μοι χάρις βίου).

Il corifeo cerca di consolarlo con un esempio personale: egli ha un parente che ha perso il suo unico figlio, ma non per questo si è lasciato abbattere: ha sopportato la sua disgrazia, pur essendo avanti negli anni e non avendo la possibilità di generare nuovi discendenti. L’esempio addotto non è calzante per il caso di Admeto, ma viene usato in generale per esortare alla sopportazione di fronte alle sventure della vita; la Dale, inoltre, pensa che la morte di un figlio dovesse essere sentita come molto peggiore rispetto a quella di una moglie in quanto essa è rimpiazzabile, mentre un figlio no, se si è in tarda età332. Pertanto questo doveva essere uno

stimolo in più per Admeto per ridimensionare il proprio male.

L’allusione all’esperienza personale fatta dal coro è stata per lungo tempo considerata come una testimonianza della sua natura di “voce del poeta”333: un coro

può parlare come una singola persona, ma non c’è nessun altro caso in tragedia in cui si abbia un così forte offuscamento della sua dimensione collettiva tanto da far pensare ad un parente comune a tutti i coreuti334. Si è ritenuto quindi che Euripide

stesse facendo sentire la sua voce per mezzo dei coreuti e si stesse riferendo ad un proprio caro, in particolare ad Anassagora, che secondo alcune fonti antiche sarebbe stato il suo maestro335. Da alcune testimonianze, in effetti, emerge che al

filosofo era toccata la disgrazia della perdita di un figlio e che egli l’aveva affrontata con capacità di sopportazione ammirevole336. Parker smentisce in

332 Conacher (1988), 190, sospetta che in questa consolazione ci possa essere dell’ironia, in quanto la condizione di questo vecchio che ha perso il suo unico figlio è analoga a quella di Ferete, che Admeto ha disconosciuto come padre.

333 Si trattava di una concezione estremamente diffusa soprattutto fra i critici antichi, che vedevano l’ affiorare della voce del poeta nei momenti in cui i coreuti si esprimevano usando la prima persona singolare. Cfr. sch. Eur. Med. 823 Schwartz 183, dove alle righe 20-21 lo scoliaste afferma: ἔπειτα καὶ ἀεὶ ὁ χορὸς ἐν προσώπῳ τοῦ ποιητοῦ εἰσάγεται τῷ δικαίῳ προστιθέμενος. 334 In Hipp 125-126 i coreuti dicono di avere un amico in comune (τόθι μοί τις ἦν φίλα/πορφύρεα

φάρεα), ma l’affermazione non suona strana; in commedia, invece, i vecchi che costituiscono il coro degli Acarnesi propongono un matrimonio collettivo con Διαλλαγή (990 ss), ma si tratta ovviamente di una metafora per indicare la riconciliazione successiva alla guerra.

335 Cic. Tusc. Disp.III.14.29; D. S. I. 7.7 ; D.L. II.10.

336 Il filosofo stoico Crisippo (apud Gal. de plac. Hypp. et Plat. 5.4. 1079) testimonia che, quando gli venne annunciata la morte del figlio, Anassagora rispose ᾔδειν θνητὸν γεννῆσαι. La notizia viene tramandata anche da Cicerone nelle Tuscolanae Disputationes (III.14.29). Cfr. anche fr. 964 Schwartz, probabilmente attribuibile al Teseo, in cui il personaggio parlante dice di aver imparato da un sapiente a volgere sempre la mente alle peggiori disgrazie in modo tale che, se queste un giorno fossero capitate, non lo avrebbero colto di sorpresa, facendolo soffrire più del dovuto. La Ciani(1975), 110, dice che questa teoria risale probabilmente ad Anassagora e venne teorizzata dal sofista Antifonte nel suo trattato Περὶ τῆς ἀληθείας. Secondo la studiosa il discorso di Eracle ai versi 779 ss. dell’Alcesti sarebbe proprio una parodia di questo trattato e denuncerebbe come l’ascesi anassagorea fosse diventata per i sofisti un pretesto per vivere una vita all’insegna dell’edonismo.

maniera convincente l’ipotesi che Euripide volesse fare riferimento alla propria esperienza personale, e quindi alla figura di Anassagora, dicendo prima di tutto che egli non era imparentato con il sapiente, e poi che quest’ultimo costituiva una figura eccezionale. Per consolare Admeto, invece, sarebbe stato più efficace portare come esempio un uomo normale, in modo tale da convincerlo che una sventura del genere poteva essere sopportata da chiunque.

In ogni caso, Admeto non dà peso neppure a questo genere di consolazione e la vista della casa torna ad angosciarlo: di nuovo chiede come potrà riuscire ad entrare e spiega meglio il motivo di questa sua reticenza337 (911 ss.). La situazione della

processione funebre gli ha fatto rivenire alla mente una circostanza ben più felice, quella del corteo nuziale al termine del quale egli era entrato nel palazzo assieme ad Alcesti338 . Le affinità fra i due momenti sono palesi339, così come lo è però

anche la loro differenza sostanziale: Admeto ricorda che allora a spingerlo in casa assieme ad Alcesti, erano stati gli imenei (916), mentre nel momento presente era un γόος ἀντίπαλος ὑμεναίων (922)340 a trascinarlo dentro, dove ad attenderlo non

c’era la moglie, ma solo un letto vuoto (925)341. Altri elementi della processione 337 L’invocazione ὦ σχῆμα δόμων (911), letteralmente “o aspetto della casa”, secondo la Dale è espressione della forte emozione del parlante, che si sta avvicinando a qualcosa che gli è familiare ma che ora gli appare in un’ottica diversa a causa dei forti sentimenti che lo scuotono. 338 Il valore di marcatore di confine che la porta di casa assume sia in occasione della morte che del

matrimonio è messo in risalto da Buxton (2013), 18.

339 Le somiglianze fra questi due tipi di cortei appaiono evidenti anche dalle rappresentazioni pittoriche che ci sono pervenute: cfr. Bérard (1984), 85-104, che sulla base delle rappresentazioni figurative dei due momenti rituali arriva a definire il convoglio funebre come una rappresentazione invertita della processione nuziale.

340 La confusione fra gli inni per i matrimoni e quelli per i funerali era uno dei mezzi più utilizzati in tragedia per permettere la combinazione dei due rituali. Cfr. e.g. Aesch.Ag. 707-716 (dove gli imenei per le nozze di Paride ed Elena sono percepiti dalla città di Troia come un canto πολύθρηνος), Pr. 553-560 (dove le Oceanine confrontano i canti che stanno innalzando ora per Prometeo con quelli ben diversi che avevano eseguito per le sue nozze); Soph: Ant. 806-816, (quando Antigone si avvia verso la caverna dove troverà la morte e parla quindi di un matrimonio con Ade, in occasione del quale ella non riceverà imenei), OT. 420- 423 (quando Tiresia definisce ἄνορμον l’imeneo per il matrimonio di Edipo e Giocasta); Eur. Supp. 990-1008 (dove Evadne confronta il momento delle sue nozze con Capaneo con quello presente, in cui preferirebbe morire piuttosto che continuare a vivere così), Phaet. 227-244 (dove l’inno nuziale è cantato appena prima della scoperta del cadavere dello sposo), Tro. 331-352 (nel delirio di Cassandra che vagheggia il suo matrimonio con Agamennone e nella maggiore consapevolezza della sua sorte mostrata da Ecuba). La stessa commistione è presente in Ar. Thesm. 1034-1041, nella parodia dell’Andromaca di Euripide. Wilamowitz, nella sua edizione dell’Eracle, osserva a commento dei versi 481 ss. che a suo avviso la contrapposizione fra nozze e morte doveva essere già un tema tipico dei threnoi. Non abbiamo attestazioni dirette dell’utilizzo del tema nel genere lirico, ma ne abbiamo in quantità abbondante negli epigrammi funebri, che Wilamowitz definisce come naturalmente affini al threnos.

341 L’ espressione perifrastica κοίτας λέκτρων per indicare il talamo è utilizzata da Euripide anche in Med. 436-437.

nuziale che vengono citati sono le fiaccole (915), il corteo che risuonava di grida (918) e le vesti bianche, esplicitamente contrapposte a quelle scure che ora è costretto ad indossare (921). Tutti e tre trovano un loro doppione nell’occasione del corteo funebre, che in maniera simile era caratterizzato dalle torce, da grida e da vesti particolari 342.

Il fatto che in questo momento Euripide insista in particolar modo sulla descrizione del matrimonio fra Admeto e Alcesti potrebbe essere ricondotto al procedimento retorico per cui la menzione di una situazione passata (qui introdotta da τότε μὲν, 915) caratterizzata dalla felicità rende più grande la sventura della condizione presente (chiaramente contrapposta attraverso la combinazione di particelle νῦν δέ, 922). Il procedimento, molto diffuso in epica e tragedia e nelle iscrizioni funerarie, sarebbe inoltre facilitato dalle somiglianze formali che accomunano le due cerimonie descritte.

Queste continue menzioni della sfera matrimoniale potrebbero però essere viste non solo come un ricordo del matrimonio passato, ma anche come un’anticipazione delle seconde nozze che uniranno Admeto e sua moglie. La Foley nota alcuni elementi formali su cui si insiste sia in questo momento che nella scena del ricongiungimento343: il coro sottolinea che il re di Fere non potrà più vedere il

volto della moglie (876-877), così come Admeto ricorda il suo tenere per mano Alcesti nel momento in cui la conduceva in casa (917). Quando Eracle affiderà la misteriosa donna all’amico, l’aspetto della fanciulla è celato, come testimonia lo scolio al verso 1050344, e l’eroe insisterà ripetutamente sulla necessità che Admeto 342 Sulla condivisione da parte di entrambi i riti di questi elementi, vd. Rehm (1994), 29. Cfr. anche Foley (2001), 85, che nota un’associazione fra matrimonio e morte e pensa sia rinforzata da questi paralleli strutturali che accomunano i due momenti rituali. La studiosa considera particolarmente forte soprattutto il legame fra la morte sacrificale e le nozze, perché:

1. sia le nozze che il sacrificio prevedono la fine di un’esistenza (reale o simbolica) per assicurare la sopravvivenza sociale

2. entrambi cercano di ottenere un futuro propizio attraverso la violenza, la perdita o la sottomissione del presente.

A mio avviso, anche la morte di Alcesti potrebbe essere interpretabile come morte sacrificale: ella avrebbe deciso di rinunciare alla vita per garantire la sopravvivenza dell’οἶκος, che si sarebbe disgregata senza Admeto, come nota giustamente Vellacott (1975), 101

343 Foley (2001), 311.

344 Schwartz 241, 22-23: νέα γὰρ, ὡς ἐσθῆτι: καὶ γὰρ νέα φαίνεται ὡς ἐκ τῆς ἐσθῆτος· ἦν γὰρ περικεκαλυμμένη. Cfr. anche Hyp. α, 6-9: Ἡρακλῆς (…) ἐσθῆτι καλύπτει τὴν γυναῖκα· Il fatto che il viso di Alcesti non fosse ben visibile è deducibile anche dalla difficoltà di Admeto nel riconoscere la moglie (coglie solo qualche vaga somiglianza, cfr. Eur. Alc. 1061- 1063 (…) σὺ δ’, ὦ γύναι,/ ἥτις ποτ’ εἶ σύ, ταὔτ’ ἔχουσ’ Ἀλκήστιδι/ μορφῆς μέτρ’ ἴσθι, καὶ προσήϊξαι δέμας.) e dall’invito di Eracle ad osservarla attentamente (Eur. Alc. 1105: ἄπεισιν, εἰ χρή· πρῶτα δ’ εἰ

tocchi l’ospite e la conduca in casa tenendola per mano345. Questi due elementi

messi particolarmente in rilievo in entrambe le scene costituivano due momenti fondamentali nel rituale del matrimonio, l’ἀνακαλυπτήρια346 e il χείρ ἐπὶ καρπῷ347:

Secondo la Foley, quindi, questi riferimenti nell’epiparodo avevano il compito di anticipare agli spettatori le future nozze348. Non so però quanto la sua ipotesi,

seppure affascinante, possa avere credito, in quanto molte altre morti tragiche di donne sono ricche di rimandi alla sfera matrimoniale senza che poi si verifichino effettivamente dei riti nuziali349.

Sarebbe sicuramente interessante poter ammettere che in questo momento il tragediografo dissemini delle allusioni al lieto fine per creare aspettative nello spettatore e che metta a punto un gioco di ironie per cui, inconsapevolmente, piangendo la morte di Alcesti in realtà i personaggi ne anticipano il ritorno alla vita: data la topicità del collegamento fra matrimonio e morte, però, non mi sento di poterlo affermare. Penso semplicemente che Euripide si serva di questa associazione ampiamente diffusa per aumentare la carica emotiva del kommos e far rendere pienamente conto ad Admeto di quanto la situazione sia cambiata rispetto al passato, in modo tale da permettergli la totale comprensione della propria condizione che verrà raggiunta nel discorso ai versi 935-961.

Già a questo punto, però, Admeto ha capito quanto sia cambiata radicalmente la sua situazione (913-914: μεταπίπτοντος δαίμονος; οἴμοι πολὺ γὰρ τὸ μέσον350) e non è

in grado di affrontare questa svolta: la consolazione del coro è che almeno prima di questa sventura aveva avuto un’ottima sorte e non gli era toccato nessun dolore (926-928)351. Inoltre, anche se aveva perso Alcesti, gli rimaneva comunque la

χρεὼν ἄθρει; 1121: βλέψον πρὸς αὐτήν). 345 Eur. Alc. 1113; 1115; 1117.

346 Si tratta del momento in cui lo sposo sollevava il velo che copriva il volto della moglie: poteva avere luogo durante il banchetto nuziale o, più spesso, nel momento in cui i coniugi arrivavano nella camera da letto. Cfr. e.g.Rehm (1994), 14; 141-142; Buxton (2013), 21.

347 Lo sposo, conducendo la neo-moglie nella nuova casa, le cingeva il braccio con la mano. La ritualità di questa posizione viene testimoniata dal suo ricorrere in gran parte delle raffigurazioni fittili di sposi durante il corteo nuziale.

348 Foley (2001), 311, interpreta come indizi anticipatori del secondo matrimonio fra Admeto ed Alcesti anche le ambiguità fra rito di preparazione al funerale e al matrimonio che emergono dal racconto della serva (vd. sopra, n. 108, p. 41).

349 Per esempi, vd. sopra, n. 341 p. 111.

350 Nell’uso di μεταπίπτω è implicita la metafora dei dadi; per τὸ μέσον utilizzato per indicare una grande differenza fra una situazione del passato e quella presente, cfr. Her. Hist. I.126

351 La Parker interpreta la frase παρ’ εὐτυχῆ/ σοι πότμον ἦλθεν ἀπειροκάκῳ/τόδ’ ἄλγος in maniera diversa, come se il coro volesse abbreviare il periodo intercorso fra il momento in cui la morte di Admeto era stata rimandata e quello in cui era avvenuta quella di Alcesti con lo scopo di

propria vita (928-929). Il termine qui utilizzato è βίοτος, che più spesso ha il significato di “mezzi di vita”, “risorse”, ma in alcuni passi di Omero e nei Persiani di Eschilo (360) assume il significato di vita terrena; a mio avviso viene accompagnato da ψυχή per rimarcare il guadagno di Admeto e fargli notare che egli ha ancora sia un’esistenza fisica, che non è stata distrutta dalla morte, sia un’anima, che non è stata costretta a scendere nell’Ade. La constatazione è fatta seguire da quella, ancora più secca, della morte della moglie (930: ἔθανε δάμαρ, ἔλιπε φιλίαν) e dal suo ridimensionamento (931: τί νέον τόδε;). Torna quindi il motivo del non tibi hoc soli: Admeto non era il primo uomo a cui era morta la moglie352, ma il suo stesso destino era già toccato a molti altri che lo avevano

affrontato e sopportato.

accentuare la drammaticità della situazione. Trovo lambiccata questa spiegazione e ritengo sia più probabile che si tratti dell’ennesimo tentativo di consolazione: seppure ora gli è toccata una sventura, almeno prima la sua vita era stata felice e priva di affanni. Degno di nota è l’aggettivo ἀπειρόκακος, che in tutta la letteratura greca a noi pervenuta compare solo qui e in Thuc. V. 105. Mentre qui ha il significato di “inesperto di mali”, lo storiografo utilizza τὸ ἀπειρόκακον nel senso di “innocenza”, concetto che implica sempre una mancata esperienza dei mali, anche se da un’ altra prospettiva. I mali, cioè, non sarebbero conosciuti non perché non siano stati subiti ma perché non sono stati commessi

352 Il concetto era già stato espresso ai versi 417-418. La frase πολλοὺς ἤδη παρέλυσεν θάνατος δάμαρτος (931-933) è interpretabile in vari modi. Prima di tutto, accettando il testo edito dalla Parker va detto che il verbo παραλύω significa anche “turbare”,”distruggere”, ma dal momento che qui i coreuti stanno cercando di far capire ad Admeto che la sua vita non è del tutto rovinata come pensa è più adatto il significato di “allontanare”. Se invece volessimo prendere in considerazione il testo nella sua forma tradita, troveremmo che in quasi tutti i manoscritti non compare πολλούς, ma πολλοῖς, e che in V inoltre non abbiamo il genitivo singolare δάμαρτος, ma l’accusativo plurale δάμαρτας. Hermann ha tentato di interpretare il testo come ci è tramandato dalla maggior parte dei testimoni (quindi con δάμαρτος e πολλοῖς) e ha aggiustato la frase presupponendo che il termine φιλίαν fosse oggetto non solo di λείπω (930), come è scontato, ma anche di παραλύω. Ne risulterebbe quindi una traduzione del tipo: “per molti (inteso come dativo di svantaggio) la morte della moglie ha rovinato l’amore reciproco”. Ma una costruzione del genere è sicuramente poco plausibile. Murray, seguito dalla Dale, accetta δάμαρτας da V e lo pone come complemento oggetto, ottenendo una frase del tipo “ la morte ha separato le mogli.”; servirebbe però un genitivo di separazione πολλῶν. Penso quindi che la proposta di Carter di vedere il πολλοῖς come corruzione di πολλούς, errore paleograficamente plausibile, sia la soluzione più economica e che dà un senso migliore. La Parker adotta questa congettura e preserva il δάμαρτος della maggior parte dei testimoni (“la morte ha allontanato molti dalla propria moglie”).

Analisi metrica:

Seconda coppia strofica: 903-911=926-934

1) wq wq ia 2) qww|qwwqwwq enop 3) wqwq§-.., wqq a dim cat 4) wwqqqq ? 5) wwüw| wwüw wwüwwq ia dim 6) wwqwwqq ? 7) qqwwqq ? 8) wwqwqq ?

Il problema di questa stanza è quello di dare un’interpretazione metrica che sia coerente nel suo complesso, andando a giustificare la combinazione dei diversi generi metrici. La prima sequenza è costituita da un metron giambico; per la seconda il discorso è più complesso: la Parker la ricollega alla parte centrale di 569=579 e la identifica come enoplio, utilizzando il termine nel senso esteso attribuitole dalla Dale, che con tale denominazione indicava sequenze variamente formate in cui doppie brevi si alternano a successioni breve-lunga353. Garzya

preferisce interpretarlo come un tetrametro dattilico catalettico mancante dell’ultimo elemento e penso che sia una definizione più precisa. II 3 è un dimetro giambico catalettico, che la Parker ipotizza possa essere letto in successione con II 2, dal momento che i due cola non sono separati da fine di parola, in modo tale da formare una lunga sequenza enopliaca. Non penso però che sia opportuno e preferisco vedere II 2 come un tetrametro dattilico catalettico e II 3 come dimetro giambico catalettico. Anche la sequenza 5 viene interpretata con sicurezza come un dimetro giambico, stavolta però intero e completamente soluto. Questa classificazione da parte della Parker comporta la sua accettazione di un fenomeno che ella in genere considerava un’anomalia prosodica nei giambi lirici, vale a dire

la split resolution.354 Nell’antistrofe il fenomeno si presenta addirittura due volte355;

per giustificare quella che ella ritiene un’ineleganza metrica, la Parker commenta che forse Euripide si era fatto prendere la mano dalla costruzione retorica del parallelismo sintattico (ἔθανε δάμαρ| ἔλιπε φιλίαν).

Molto più problematica è l’identificazione dei restanti cola che compongono la coppia strofica. La Parker definisce le sequenze 4, 6 e 7 come “un mistero”: subito dopo, però, conviene che in realtà se la sequenza II 7 fosse vista da sola sarebbe facilmente identificabile con un reiziano, così come secondo me si potrebbe fare con II 6, che ne rappresenta una forma in cui l’elemento libero della base è reso con una doppia breve. Dato però che nella coppia strofica troviamo una sequenza come II 4, la Parker ipotizza che le due sequenze possano essere lette in chiave anapestica (II 7: yqwwqq; II 4: wwqyqq ), ma II 7 presenta una lunghezza che non è attestata in questi versi356. La Dale invece prospetta un’altra

possibilità: la studiosa nota che la sequenza wwqqqq è frequente in contesto ionico357 e che anche qqwwqq potrebbe essere interpretata come unione di

un metron ionico catalettico, in cui le prime due brevi sono contratte in una lunga, e di uno completo wwqq. L’interpretazione ionica sarebbe adatta anche per giustificare il finale di II 8, in quanto in questo tipo di versi la sequenza wqq poteva costituire una chiusa. La Dale però nota che un’interpretazione in tale senso di queste sequenze metriche sarebbe stata immediata in un contesto marcatamente ionico, come quello di Persiani, Baccanti o Supplici, in cui questi metra sono combinati fino a formare delle lunghe sequenze. Non lo è altrettanto qui, tanto che