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Analisi testuale della prima parte del kommos: sequenze anapestiche di Admeto (861-871; 878-888) e prima coppia strofica (872-877=

889-894)

Αδ. ἰώ, στυγναὶ πρόσοδοι, στυγναὶ δ’ ὄψεις χήρων μελάθρων. ἰώ μοί μοι, αἰαῖ <αἰαῖ>. ποῖ βῶ; ποῖ στῶ; τί λέγω; τί δὲ μή; πῶς ἂν ὀλοίμην; ἦ βαρυδαίμονα μήτηρ μ’ ἔτεκεν. (865) ζηλῶ φθιμένους, κείνων ἔραμαι, κεῖν’ ἐπιθυμῶ δώματα ναίειν. οὔτε γὰρ αὐγὰς χαίρω προσορῶν οὔτ’ ἐπὶ γαίας πόδα πεζεύων· τοῖον ὅμηρόν μ’ ἀποσυλήσας (870) Ἅιδῃ Θάνατος παρέδωκεν.

271 Ciani(1975),115-116. Nel suo articolo la studiosa individua una selezione dei motivi consolatori ricorrenti, già utilizzati in nuce da Omero, sviluppati dai poeti lirici e da Erodoto e poi presenti in forma cristallizzata nei tre tragediografi maggiori. Eschilo, Sofocle ed Euripide, infatti, fanno per lo più uso di questi nuclei prefissati tramandati dalla tradizione, limitandosi ad apportarvi un ampliamento davvero minimo.

272 Buona parte dei temi approfonditi nell’epiparodo, come la necessità di sopportazione, il motivo del non tibi hoc soli, l’inevitabilità della morte, erano stati già nominati in una sorta di sintetica

consolatio del corifeo ai versi 416-419: Ἄδμητ’, ,ἀνάγκη τάσδε συμφορὰς φέρειν·/ οὐ γάρ τι

πρῶτος οὐδὲ λοίσθιος βροτῶν/γυναικὸς ἐσθλῆς ἤμπλακες· γίγνωσκε δὲ/ ὡς πᾶσιν ἡμῖν κατθανεῖν ὀφείλεται.

Χο. πρόβα πρόβα, βᾶθι κεῦθος οἴκων. [στρ α Αδ. αἰαῖ. Χο. πέπονθας ἄξι’ αἰαγμάτων. Αδ. ἒ ἔ. Χο. δι’ ὀδύνας ἔβας, σάφ’ οἶδα. Αδ. φεῦ φεῦ. Χο.τὰννέρθε δ’ οὐδὲν ὠφελεῖς. (875) Αδ. ἰώ μοί μοι. Χο. τὸ μήποτ’ εἰσιδεῖν φιλίας ἀλόχου πρόσωπόν σ’ ἔσαντα λυπρόν. Αδ. ἔμνησας ὅ μου φρένας ἥλκωσεν· τί γὰρ ἀνδρὶ κακὸν μεῖζον ἁμαρτεῖν πιστῆς ἀλόχου; μήποτε γήμας (880) ὤφελον οἰκεῖν μετὰ τῆσδε δόμους. ζηλῶ δ’ ἀγάμους ἀτέκνους τε βροτῶν· μία γὰρ ψυχή, τῆς ὑπεραλγεῖν μέτριον ἄχθος. παίδων δὲ νόσους καὶ νυμφιδίους (885) εὐνὰς θανάτοις κεραϊζομένας οὐ τλητὸν ὁρᾶν, ἐξὸν ἀτέκνους ἀγάμους τ’ εἶναι διὰ παντός. Χο. τύχα τύχα δυσπάλαιστος ἥκει. [αντ α Αδ. αἰαῖ. Χο. πέρας δέ γ’ οὐδὲν ἀλγέων τίθης. (890) Αδ. ἒ ἔ. Χο. βαρέα μὲν φέρειν, ὅμως δὲ ... Αδ. φεῦ φεῦ. Χο. τλᾶθ’· οὐ σὺ πρῶτος ὤλεσας ... Αδ. ἰώ μοί μοι.

Χο. γυναῖκα· συμφορὰ δ’ ἑτέρους ἑτέρα πιέζει φανεῖσα θνατῶν.

Admeto entra sulla scena innalzando lamenti alla vista della casa vuota273, nella

quale per lui ora è impossibile entrare274. La sua angoscia è resa dall’incalzare delle

domande retoriche sul suo futuro (864: ποῖ βῶ; ποῖ στῶ; τί λέγω; τί δὲ μή;), che culmina nel desiderio di morte (πῶς ἂν ὀλοίμην;275). Per la prima volta qui Admeto

sembra conformarsi all’atteggiamento che i coreuti si sarebbero aspettati da lui dopo una disgrazia così grande come la perdita di una moglie del calibro di Alcesti276: il desiderio di suicidio verrà più volte ripetuto nel corso di questo

dialogo lirico, a testimonianza del cambiamento avvenuto in Admeto. Ora egli è pienamente consapevole della gravità della propria condizione, alla quale preferirebbe persino quella dei defunti (866-867: ζηλῶ φθιμένους, κείνων ἔραμαι,/ κεῖν᾽ ἐπιθυμῶ δώματα ναίειν). Il motivo della sua invidia verso i morti verrà chiarito ed ampiamente motivato nel discorso che egli pronuncerà a partire dal verso 935; per ora, Admeto non lo approfondisce e si limita a definirsi βαρυδαίμων277 (865) e a dire di aver perso ogni gioia di vivere, dopo che Thanatos

lo ha privato della moglie278 (868-871).

273 Αnche Serse nei Persiani entra in scena con il grido inarticolato ἰώ (907); il re di Persia e quello di Fere si trovano nella stessa condizione in quanto sono psicologicamente abbattuti (Serse lo è anche fisicamente, cfr. v. 913) e desidererebbero essere morti insieme a coloro che hanno perso (Aesch. Pers. 915-917; Eur. Alc. 864-869). Non sappiamo se l’ interiezione ἰώ sia da intendere come extra metrum o come piede anapestico: la Parker avanza l’ipotesi, a mio avviso interessante ma poco certificabile, che esso costituisca una sorta di segnale per indicare un lamento di dolore prolungato che diventa gradualmente udibile man mano che il personaggio avanza sulla scena.

274 La Dale spiega l’utilizzo dei plurali στυγναὶ πρόσοδοι, στυγναὶ δ’ ὄψεις (861) per attrazione con il seguente χήρων μελάθρων. La Parker invece ipotizza in maniera molto suggestiva che indichino il prolungamento nel tempo del dolore di Admeto, che si rinnoverà ogni volta che il re vedrà la casa o vi dovrà entrare. La stessa difficoltà di tornare in una casa ormai deserta traspare dal lamento di Ifi in Eur. Supp. 1094-1097: εἶἑν· τί δὴ χρὴ τὸν ταλαίπωρόν με δρᾶν;/ στείχειν πρὸς οἴκους; κἆιτ’ ἐρημίαν ἴδω/πολλὴν μελάθρων ἀπορίαν τ’ ἐμῶι βίωι;. Anche qui la situazione del presente è contrastata subito dopo dal ricordo di un passato felice, che per Ifi è costituito dal tempo in cui la figlia era ancora in vita.

275 Πῶς seguito da una domanda in ottativo potenziale in tragedia può esprimere un desiderio; in genere però la speranza riposta nella sua realizzazione è poca. Cfr Barrett (1964),201, in relazione ai versi 208-209.

276 Eur. Alc. 227-229: ἄξια καὶ σφαγᾶς τάδε / καὶ πλέον ἢ βρόχῳ δέραν/ οὐρανίῳ πελάσσαι. 277 Questo raro composto di δαίμων in tragedia ricorre solo qui e in Eur. Tro. 112-113

(δύστηνος ἐγὼ τῆς βαρυδαίμονος/ ἄρθρων κλίσεως); viene utilizzato anche da Aristofane nelle

Ecclesiazuse (1102-1103: ἆρ᾽ οὐ κακοδαίμων εἰμί; βαρυδαίμων μὲν οὖν /νὴ τὸν Δία τὸν σωτῆρ᾽

A questo punto, ha inizio il primo intervento del coro (872-877), a cui Admeto prenderà parte solamente attraverso dei brevi lamenti sulla cui modalità di realizzazione avremo modo di parlare in seguito.

I coreuti lo esortano ad entrare nella casa279; pur ammettendo che egli ha sofferto

cose degne di lamenti, che si trova nel pieno della sofferenza280 e che è doloroso

sapere di non poter rivedere l’amata moglie, gli ricordano che la sua disperazione non porta alcun giovamento ai morti (873-875). Questo è il primo dei topoi consolatori ad essere nominato281; non sortisce però nessun effetto se non ricordare

ad Admeto il dolore che lo affligge e che egli considera la più grande sciagura possibile (878-880). Come già il coro aveva fatto nel primo stasimo282, qui anche

Admeto compiange la situazione di coloro che decidono di sposarsi. Rimpiange di essersi unito in matrimonio con Alcesti e di aver abitato con lei in quella casa (880- 881) e arriva addirittura ad invidiare coloro che sono senza moglie e figli283 (882;

887-888): per loro i dolori hanno una portata sopportabile, in quanto devono

278 L’utilizzo del termine ὅμηρος (“ostaggio”) per riferirsi ad Alcesti ha creato problemi negli interpreti fin dai tempi antichi. Gli scolii lo glossano con il sinonimo ἐνέχυρον e cercano di spiegarne il senso in due modi diversi. Gli scolii di V suggeriscono che Ade stia trattenendo Alcesti per assicurarsi che alla fine Admeto muoia; questa interpretazione non sembra però avere senso in quanto il re prima o poi dovrà morire in ogni caso. Gli scolii di B offrono un’altra idea, intendendo che Alcesti sia stata presa come ostaggio affinché Admeto potesse vivere, ma anche questo è un nonsense perché Thanatos non ha portato via Alcesti per fare in modo che suo marito restasse in vita. La Dale cerca di ovviare a queste complesse giustificazioni supponendo che ὅμηρος sia utilizzato banalmente nel senso di “sostituto”, come ritengo sia probabile; il termine assume tale significato anche in Eur. Ba. 293, altro passo dal senso problematico se si intendesse ὅμηρος come “ostaggio”.

279 La dimora viene indicata con l’espressione κεῦθος οἴκων (872), che a prima vista potrebbe sembrare ridondante, come pensa la Dale, ma che invece caratterizza in maniera pregnante la casa di Admeto come luogo ctonio, appartenente al mondo degli inferi. Κεῦθος infatti significa “rifugio”, “nascondiglio” (spesso sotterraneo) e Antigone stessa aveva definito la caverna in cui poi morirà κεῦθος νεκύων (Soph. Ant. 818).

280 L’espressione δι᾽ ὀδύνας ἔβας, σάφ᾽ οἶδα (874) viene utilizzata da Euripide anche nell’Elettra (1210). I coreuti qui si riferiscono allo stato d’animo di Oreste, che ha appena ucciso Clitemnestra. Ovviamente διά ὀδύνας non significa “attraverso il dolore”; infatti se διά è seguito da termini legati alla sfera dei sentimenti in caso genitivo significa “trovarsi nel pieno di...”, “essere in uno stato di...”

281 Il motivo dell’inutilità del lamento risale già ad Omero (Il. Ω. 524) ed è molto frequente in tragedia così come nella lirica arcaica (cfr. e.g Arch. fr. 11 West (οὔτέ τι γὰρ κλαίων ἰήσομαι, οὔτέ κάκιον θήσω τερπωλὰς καὶ θαλίας ἐφέπων). Verrà sviluppato da Euripide in Tro. 697-698;

Hel. 1285-1287; fr. Schwartz 332. Altrettanto diffuso però è quello del potere consolatorio delle

lacrime: il rapporto fra i due topoi è evidente in Eur. Alc. 1079-1080, dove ad Eracle che aveva domandato τί δ’ ἂν προκόπτοις, εἰ θέλεις ἀεὶ στένειν; Admeto aveva risposto ἔγνωκα καὐτός, ἀλλ’ ἔρως τις ἐξάγει, In questo modo sarebbe affermata contemporaneamente l’inutilità delle lacrime e la loro naturale necessità.

282 Eur. Alc. 238-243.

283 Il motivo della maggiore felicità di coloro che non hanno figli è sviluppato dalle donne di Corinto in Eur. Med. 1090 ss.

soffrire solo per se stessi (883-884)284. Invece essere obbligati a sopportare anche la

sofferenza causata dalle morti delle mogli e dalle malattie dei figli è una prova intollerabile (885-887)285. I coreuti intervengono di nuovo per cercare di moderare

il dolore di Admeto: essi convengono che per lui si prospetta un duro destino286, ma

ripetono di nuovo che lamentandosi egli non pone fine ai suoi mali (889-890). Bisognerebbe invece che si sforzasse di sopportare la sventura della perdita della moglie287; seppure questa sia senza dubbio pesante, Admeto non è né l’unico né il

primo288 a doverla sperimentare (891-892). Il motivo consolatorio del non tibi hoc

soli era ampiamente diffuso ed esplorato nella lirica arcaica: di solito veniva

accompagnato da un exemplum mitico che, oltre ad attenuare il carattere di esclusività che il sofferente attribuisce al proprio male, nobilitava il destino della persona da consolare: qui si ha un unicum perché, come vedremo, il corifeo non porta un esempio tratto dal mito ma dalla propria esperienza personale.

La prima coppia strofica si chiude con un altro motivo consolatorio, secondo il quale ad ogni uomo tocca una diversa sventura289(893-894).

284 Lo stesso tipo di discorso, espresso quasi con gli stessi termini, si trova anche nell’ Ippolito, quando la nutrice si lamenta del dolore che le sta apportando la preoccupazione per Fedra: τὸ δ᾽ ὑπὲρ δισσῶν μίαν ὠδίνειν/ψυχὴν χαλεπὸν βάρος, ὡς κἀγὼ/τῆσδ᾽ ὑπεραλγῶ (258-260).

285 La Parker sottolinea l’importanza di questa frase per la nostra comprensione della società e della mentalità greca. Alcuni pensavano che in passato, con una mortalità infantile più elevata, i parenti fossero meno attaccati ai propri figli e meno colpiti dalla loro perdita; la sentenza pronunciata da Admeto smentisce però questo luogo comune.

286 L’aggettivo δυσπάλαιστος e la sua variante δυσπαλής sono usati anche altrove in tragedia (Aesch. Supp. 468; Aesch. Coeph. 692; Eur Supp. 1108) e in Pindaro (Ol. VIII.25; Pi. IV 273). Implicano sempre il concetto di un qualcosa di inesorabile contro cui è difficile lottare.

287 Cfr. e.g. Arch. fr. 13 West, dove si parla di alcuni uomini morti durante un naufragio. Il poeta sostiene che la sopportazione sia stata concessa dagli dei come rimedio per il dolore e che pertanto questo è l’atteggiamento più indicato da adottare.

288 Cfr.e.g. Arch. fr. West 13, v. 7: ...ἄλλοτε ἄλλος ἔχει τόδε.

289 Cfr. e.g. Bacch. Pros. fr. 13 Maehler: πάντεσσι θνατοῖσι δαίμων ἐπέταξε πόνους ἄλλοισιν ἄλλους.

Analisi metrica:

Prima coppia strofica: 872-877=889-894

1) wq|wq| qwq w|qqU ia trim sync cat 2) wqwq wqqwq ia doch

3) wwüwq | wq| wqw U doch ba 4) qqwq w| qwq ia dim 5) wqwq w qwwq|wwq wewD 6) wqqwq w|qqI doch ba

La Dale osserva che la prima coppia strofica è composta da metra che possono facilmente passare al recitativo290 e che quindi è possibile che questi versi non

fossero propriamente cantati o che addirittura fossero pronunciati dal solo corifeo291.

La stanza è formata prevalentemente da giambi, che sono i metra in assoluto più presenti nei kommoi; sulla base di questa ampia diffusione, Wilamowitz ne deduce che essi dovessero essere utilizzati anche nei canti che accompagnavano le processioni funebri ateniesi292. Anche Broadhead conviene che il ritmo giambico e

quello anapestico fossero largamente utilizzati nei threnoi in quanto, essendo ascendenti, erano facilmente adattabili alle grida e ai lamenti293.

I 1 è un trimetro giambico sincopato catalettico. Questa sequenza presenta una struttura perfettamente simmetrica in strofe ed antistrofe: la corrispondenza fra il verso 872 e 889 non è solo a livello metrico, ma anche sintattica, con la ripetizione iniziale per anadiplosi di una parola bisillabica con finale in alfa lunga (πρόβα πρόβα; τύχα τύχα) e con il finale costituito da un bisillabo spondiaco (οἴκων; ἥκει).

290 Dale (1954), 114.

291 Anche Conacher (1988), 189, è dello stesso parere. 292 Wilamowitz (1921), 208.

In I 2 invece il metron giambico viene associato ad un docmio294. Questo tipo di

combinazione è frequentissima, soprattutto nell’ambito dei kommoi, tanto che Peretti ipotizza che originariamente i threnoi fossero composti dall’associazione di questi due versi295. L’associazione con i giambi stempera l’effetto di agitazione del

docmio, che di solito viene utilizzato per indicare ogni tipo di forte emozione296

mentre in questa maniera acquisisce un tono mesto e consolatorio.

I 3 secondo la Parker è costituito da un docmio associato ad un baccheo297 che però

termina con una brevis in longo: ciò presuppone la necessità di stabilire fine di verso. Questo sarà un elemento importante quando ci occuperemo di indagare sulla realizzazione dei lamenti di Admeto.

I 4 vede di nuovo il riaffiorare del ritmo giambico, mentre I 5 per la Parker è un dattilo epitrito in cui però gli ancipitia sono tutti realizzati come brevi in modo tale da assimilarne il ritmo a quello giambico. La Dale e Garzya, invece, preferiscono interpretarlo come un giambelego. I 6 è formato da un docmio ed un baccheo. In questa sequenza metrica, la responsione fra strofe ed antistrofe è stata ristabilita da una congettura di Wilamowitz. Il verso della strofe, infatti, nella forma tradita dai manoscritti (877: πρόσωπόν αντα λυπρόν) presentava una sillaba in meno rispetto al verso corrispondente nell’antistrofe (894: πιέζει φανεῖσα θνατῶν). Wilamowitz propone di sostituire αντα con σ’ ἔσαντα, un avverbio omerico presente anche in Bacchilide nella sua forma εἰσάνταν298 ma mai attestato in tragedia. Hartung aveva

suggerito di inserire σ’ ἔναντα, che invece era utilizzato anche nel dramma, anche se in pochi passi: veniva però usato generalmente in contesti di aggressività ed il suo significato di “di fronte” implicava di solito una sfumatura di ostilità299;

ἔσαντα, invece, era regolarmente combinato con verbi legati alla vista, pertanto è sembrato più appropriato in unione con εἰσιδεῖν.

294 Per ottenere un docmio della stessa forma sia nella strofe che nell’antistrofe, bisogna scandire con sinizesi la parola ἀλγέων al verso 890.

295 Peretti (1939), 39 ss. 296 Dale (19682), 110.

297 Per l’associazione dei due metra, cfr. Medda (1993), 189-194. 298 Ba. V.110.

299 Cfr. e.g. Eur. Or. 1479; Ar. Equ. 342; Abbiamo però anche l’occorrenza sofoclea di Ant. 1299 in cui viene usato con un verbo che significa “vedere” (ἔναντα προσβλέπω).

Veniamo ora al problema dei lamenti di Admeto e al loro rapporto con i versi cantati dal coro300. Prima di tutto, le interiezioni che punteggiano la coppia strofica

non sono attribuite unanimemente ad Admeto: L per esempio dà tutte le battute al coro mentre P riserva ad ad Admeto i versi 876 e 877 e ai coreuti tutti gli altri. Una distribuzione plausibile delle battute è tradita da B, O e V: al coro verrebbero attribuiti i versi più lunghi e ad Admeto le espressioni di dolore. Non sappiamo però se queste interiezioni andassero ad interrompere il discorso dei coreuti o fossero eseguite contemporaneamente ad esso: dalla trattazione della Parker, infatti, sembra che in alcuni punti i coreuti non tengano conto delle esclamazioni di Admeto e continuino a cantare come se egli non avesse parlato, mentre in altri danno l’impressione di rispondergli.

Ad esempio, il fatto che l’αἰαῖ di Admeto sia seguito dall’utilizzo da parte del coro del termine αἰαγμάτων (873), che ne ripete il suono, le fa dedurre che i coreuti dovessero aver ascoltato i lamenti del dolente, il che comporterebbe una recitazione alternata delle battute.

L’impressione opposta deriva invece dal verso 891 βαρέα μὲν φέρειν, ὅμως δὲ; la struttura sintattica, grammaticale e logica della frase è incompleta e termina nel verso seguente (892: ...τλᾶθ’· οὐ σὺ πρῶτος ὤλεσας …). Fra i due versi però vi è il gemito di Admeto (φεῦ φεῦ): verrebbe spontaneo quindi pensare che esso fosse eseguito indipendentemente dal canto del coro, in modo tale da non dover presupporre che interrompesse in maniera così forte il fluire del discorso301.

Andando ad osservare lo schema metrico del verso, però, ci rendiamo conto che si tratta di quella III sequenza costituita da docmio e baccheo concluso con brevis in

longo:questo fenomeno costituisce uno dei criteri boeckiani fondamentali per

fissare la fine di verso302. Bisognerebbe quindi cercare di eliminarlo se si vuole

dimostrare che le sequenze III e IV ( 874-875 =891-892) siano in sinafia.

300 Della modalità di esecuzione di queste battute di Admeto ha parlato la professoressa Martinelli nel corso di Metrica e ritmica greca (a.a. 2015-2016), che ho avuto la possibilità di frequentare. La mia analisi del problema parte da considerazioni nate in quel contesto.

301 La stessa situazione viene prospettata dalla Parker per il verso seguente (892: τλᾶθ’·οὐ σὺ πρῶτος ὤλεσας), che porta a termine la costruzione della frase nel verso 893 (γυναῖκα· συμφορὰ δ’ ἑτέρους ἑτέρα). In questo caso però la decisione della studiosa di vedere i due versi in sinafia potrebbe essere potenzialmente più condivisibile (anche se non penso che sia così) perché non abbiamo delle obbligazioni forti come la brevis in longo ad imporci la fine di verso. 302 Cfr. e.g. Dale (1954), 69, che a proposito del verso 232 dell’Alcesti aveva affermato: «A final brevis in longo (…) is possible only if there is a ‘pause’ (in the technical sense) before the following line».

Nell’antistrofe la soluzione è semplice: basta supporre che la vocale finale breve di δὲ sia allungata dal nesso τλ con cui si apre il verso seguente; nella strofe, però, non vi è nessun modo per eliminare la brevis in longo.

Un’altra possibilità di correzione starebbe in un’interpretazione metrica diversa della sequenza: ad esempio, potremmo integrare i lamenti di Admeto nel verso, non considerandoli come extra-metrum, e ottenere quindi lo schema wwwqwqwqwqq303. Tutte le altre interiezioni di Admeto però sono staccate dal

verso del coro304, pertanto ritengo poco conveniente contravvenire a questo

andamento. Inoltre l’identificazione del verso come docmio + baccheo è avvalorata anche dalla sequenza VI, dove la suddetta combinazione si ripete e questa volta in maniera certa..

La Parker mi sembra optare per una terza soluzione, presupponendo una modalità di realizzazione del verso differente fra strofe ed antistrofe. La studiosa infatti sostiene che dopo il verso 874 i coreuti si fermassero per far esprimere il proprio dolore ad Admeto, mentre nel punto corrispondente dell’antistrofe essi continuassero il proprio canto come se Admeto non li avesse interrotti305. Non

ritengo però che sia corretto presupporre una situazione ritmica differente fra strofe ed antistrofe, fenomeno che dall’analisi della Parker sembra emergere anche in I 2. Qui la studiosa interpreta il verso della strofe come una risposta del coro al lamento di Admeto (873)306, mentre per il verso corrispondente dell’antistrofe (890) esclude

del tutto la dimensione dialogica. Questa discrepanza emerge durante la discussione delle particelle δέ γε al verso 890, che sono considerate come fortemente oppositive307; la Parker entra però in polemica con Denniston, che

303 Potrebbe essere interpretabile o come docmio (wwwqwq) + pentemimere giambico (wqwqq) oppure come cretico con il primo elemento soluto (wwwq) + giambo (wqwq)+ baccheo (wqq).

304 Questo distacco è evidente, ad esempio, fra la prima e la seconda sequenza dell’antistrofe, dove il verso 889 termina in dittongo (τύχα τύχα δυσπάλαιστος ἥκει) e il lamento di Admeto che lo segue comincia per vocale (αἰαῖ), pertanto per evitare lo iato dobbiamo obbligatoriamente pensare che in mezzo ci sia fine di verso.

305 Parker (2007), 224: «…. in the antistrophe at least they seem to sing continuously. One cannot immagine them falling silent between ὅμως δέ and τλᾶθ and between ὤλεσας and γυναῖκα so as to allow Admetus to interject his moans. It looks then, as if they sing 3 to 6 without interruption, while Admetus’ moans form a sort of accompaniment”.

306 Ivi: «...in the strophe the chorus in a manner answer Admetus’ cry αἰαῖ with πέπονθας ἄξι’ αἰαγμάτων. »

307 Cfr. e.g. Eur. Or. 546-547: ἐγὼ δ’ἀνόσιός εἰμι μητέρα κτανών, / ὅσιος δέ γ᾽ ἕτερον ὄνομα, τιμωρῶν πατρί.

aveva inserito questo passo dell’Alcesti come unico esempio nel dramma dell’uso dialogico di δέ γε, che egli considera estraneo alla tragedia308. La studiosa non è

infatti d’accordo sulla presenza di un dialogo in questo punto e sostiene che il coro canti in maniera continua e sia solo accompagnato, e non interrotto, dai gemiti di Admeto309.

Sostenendo questa tesi, però, la Parker o entra in contraddizione con la sua idea iniziale della seconda sequenza del coro intesa come risposta al lamento di Admeto oppure ritiene che la strofe avesse una realizzazione ritmica diversa dall’antistrofe anche in questo punto.

Riassumendo la posizione della Parker, secondo il suo esame la prima sequenza del coro dovrebbe essere interrotta dai lamenti di Admeto sia nella strofe che nell’antistrofe, e la stessa situazione viene teoricamente prospettata anche per la seconda sequenza310.

Dopo il terzo colon, la Parker segna fine di verso ma poi nega categoricamente che questa possa esserci nel punto corrispondente dell’antistrofe, quindi immagino prospetti una situazione ritmica che varia fra le due stanze della coppia strofica. La quarta sequenza si prolunga nella quinta senza essere interrotta da Admeto sia nella strofe che nell’antistrofe (o almeno, nell’antistrofe la sinafia è segnalata chiaramente dal fatto che la Parker segni come lunga la sillaba finale di ὤλεσας, mentre per la strofe, in cui la sillaba finale di ὠφελεῖς è naturalmente lunga, non si pronuncia ma non segnala fine di verso).

Per la quinta e la sesta sequenza, invece, non abbiamo elementi che attestino la presenza o meno di fine di verso: la Parker presuppone che esse fossero cantate in maniera consecutiva e che i lamenti di Admeto costituissero solo un sottofondo. Ritengo che l’opinione della Parker sulle modalità di realizzazione di questi lamenti sia molto confusa e che crei più problemi di quanti ne voglia risolvere: a mio avviso, infatti, non sarebbe necessario presupporre che i lamenti di Admeto siano pronunciati a volte come battute che interrompono quelle dei coreuti e altre volte come un semplice sottofondo del canto lirico, ma possiamo considerarli sempre eseguiti in alternanza con i versi del coro.

308 Denniston (19542), 154. 309 Parker (2007), 231

310 Parker (2007), 224: «the first two cola are synctactically independent both in the strophe and in the antistrophe»

L’ostacolo maggiore che la Parker individua nel momento in cui mette in dubbio il fatto che i versi attribuiti ad Admeto e ai coreuti fossero alternati, come abbiamo visto, è ai versi 891 e 892. Qui il lamento di Admeto, se interposto fra le battute del coro, interromperebbe la sintassi della frase. Non penso però che questa evenienza sia da evitare ad ogni costo: può capitare infatti, anche se magari non spesso, che la pausa di fine di verso non corrisponda ad una pausa sintattica311. Stinton, in un suo