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Quarto capitolo: il secondo stasimo Introduzione

Il canto corale di cui andremo ad occuparci, a paragone del precedente, presenta una maggiore somiglianza con la forma tradizionale dello stasimo sia dal punto di vista strutturale, in quanto è costituito da due coppie strofiche e non da una sola, che contenutistico.

La particolarità dello stasimo infatti è che in esso i coreuti avevano la possibilità di astrarsi momentaneamente dalla realtà drammatica evocando altre dimensioni spazio-temporali, cosa che faranno in questo canto dell'Alcesti.

La momentanea separazione dall'hic et nunc della vicenda rappresentata è permessa dal fatto che nello stasimo il coro resta da solo sulla scena: ciò comporta l'interruzione momentanea dell'azione e del duplice sistema di comunicazione in base al quale i coreuti dovevano rivolgersi contemporaneamente agli attori e al pubblico129. La pausa nell’evoluzione degli eventi e l’allontanamento dal presente

tragico porta inevitabilmente ad un rallentamento del ritmo della storia, ma dà al contempo la possibilità di aprire l’orizzonte drammatico da un punto di vista spazio-temporale. La suddetta apertura può avvenire verso un passato mitico, come accadrà nel terzo stasimo attraverso la rievocazione del periodo di servitù di Apollo, oppure verso il futuro. Questo è il caso dell’ode corale che siamo in procinto di analizzare, dove i coreuti fanno riferimento ai futuri canti in onore della moglie di Admeto che sarebbero stati innalzati ad Atene e a Sparta.

In casi come questi, Albert Henrics parla di choral projection130: i coreuti

proietterebbero cioè la loro performance in una immaginaria e collocata in un tempo differente da quello drammatico.

Il processo di identificazione, secondo lo studioso, sarebbe reso possibile dallo spiccato carattere rituale del coro tragico131, che lo accomunerebbe agli altri cori da

129 Gruber (2009), 13

130 Henrics (1994-1995), 68 ss.; Rutherford (1994-1995), 120. Henrics attribuisce questa capacità anche al coro lirico: nel secondo peana di Pindaro, ad esempio, un coro di Abdera descrive fanciulle che celebravano Apollo a Delfi e a Delo (97 ss); nel sesto peana, invece, un coro di giovani uomini arrivati in processione a Delfi evoca l'immagine di gruppi di fanciulle che cantano e danzano celebrando il figlio di Leto (15 ss.).

131 Henrics (1994-1995), 70 sostiene che il coro della tragedia mantenga una componente rituale importante in quanto esso si esibisce in occasione delle feste di Dioniso e riveste pertanto il

questo menzionati. Facendo riferimento a performances corali che hanno luogo nel mondo drammatico, i coreuti integrerebbero con esse la loro danza nell’orchestra. Pertanto la realtà effettiva e quella tragica risulterebbero unite dalla funzione cultuale rivestita sia dal coro evocato che da quello che lo evoca132.

Un’analisi che implichi una così forte ritualità insita nel coro tragico suscita inevitabilmente numerose obiezioni: anche se è vero che le tragedie erano rappresentate in occasione di feste religiose e nei pressi del santuario di Dioniso, in esse non vi era alcun riferimento formale o contenutistico ai culti dionisiaci o a temi legati al dio133. Non mi sento pertanto di appoggiare in toto la posizione di

Henrics, in quanto non penso che gli spettatori potessero veramente percepire la danza del coro come parte di un rituale in onore di Dioniso.

Ciò non obbliga però a negare la presenza di un aspetto rituale all’interno del coro tragico: semplicemente penso che questo non fosse così spiccato e contestualmente legato alla celebrazione delle Grandi Dionisie, ma che fosse rimasto all’interno del coro come un residuo della sua mansione originaria e che potesse riemergere nel momento in cui i coreuti sembravano avvicinarsi ai generi della lirica corale arcaica.

Così come la tragedia non può a mio avviso essere considerata un rituale in sé e per sé, ma conserva al suo interno gli echi di svariati riti riproposti in maniera più o meno fedele al loro svolgimento reale134, allo stesso modo anche il coro tragico con

la sua esibizione non compie un rituale specifico, ma conserva in potenza la possibilità di configurarsi temporaneamente come un gruppo di partecipanti ad una grande varietà di celebrazioni.

Quando i coreuti intonano delle odi con caratteristiche di determinati generi lirici, agli spettatori vengono alla mente le specifiche occasioni rituali a cui essi erano collegati e che dovevano essere familiari per loro, che ne facevano esperienza nella vita quotidiana. È in questo momento che i coreuti possono essere percepiti, oltre

ruolo collettivo di esecutore di una danza rituale e di partecipante attivo ai culti in onore del dio. 132 Henrics (1994-1995), 68 ss. In base a questa interpretazione, il rito funge da ponte fra passato e presente in quanto è immutabile; i coreuti delle rappresentazioni tragiche sarebbero proprio espressione della continuità della performance rituale.

133 Cfr. e.g. Scullion (2002), che enumera i motivi per cui alcuni studiosi ritengono che la tragedia sia profondamente legata al culto dionisiaco e ne dimostra l'inconsistenza.

134 Scullion (2002) 136-137: «Tragedy is full of ritual, rituals of all sorts, rituals connected with the full range of Greek divinities. It parodies, distorts, subverts, and probably even invents rituals as well as reflecting them. But it is not itself ritual».

che come personaggi del dramma, anche come esecutori di un rito135. In realtà,

secondo me, essi assumono l’aspetto esteriore di partecipanti ad un rituale senza però esserlo veramente; molto spesso, infatti, il rito stesso che i coreuti eseguono è svuotato della sua funzione originaria, ma finalizzato solo a suscitare determinate aspettative negli spettatori136. Inoltre, come abbiamo avuto modo di vedere già nel

primo stasimo, il canto rituale inserito in ambito tragico di solito non viene riflesso in maniera verosimile, ma deformato, manipolato, inserito in contesti estranei, mescolato ad elementi provenienti da generi totalmente diversi.

In merito a quest’ultima opzione, una delle interazioni tra generi lirici più produttiva in tragedia è quella fra peana e threnos, che osserveremo proprio nel secondo stasimo e nel suo preannuncio da parte di Admeto.

Secondo molti l’intonazione di questo canto sarebbe stata domandata ai coreuti dal marito di Alcesti, che poco prima aveva esortato i vecchi concittadini ad intonare un peana per l’implacabile dio degli Inferi (422-424: ἀλλ᾽, ἐκφορὰν γὰρ τοῦδε θήσομαι νεκροῦ/ πάρεστε καὶ μένοντες ἀντηχήσατε/ παιᾶνα τῷ κάτωθεν ἀσπόνδῳ θεῷ). Lo stasimo rappresenterebbe quindi la messa in atto della suddetta richiesta137.

Il fatto però che in questo momento luttuoso ci sia un invito ad innalzare un peana può sembrare strano, se pensiamo ai caratteri tradizionali del genere lirico. Anche nei rari casi in cui i peana storici erano eseguiti in situazioni di difficoltà, e non di gioia o ringraziamento come era più frequente, alla base del canto c’era la speranza in un miglioramento. Nel passo dell’Alcesti che abbiamo preso in considerazione, invece, la situazione è irrimediabile, senza alcuna possibilità di risoluzione. Alcesti è deceduta e pregare per la salvezza di qualcuno che è già morto è privo di senso;

135 Rodighiero (2012), 12: «Il coro tragico è tale "in the wider Greek religious and social sense of a group constituted to sing and dance" (Wilson 2005, 188), in grado di marcare con la sua presenza i momenti più importanti della vita sociale e religiosa della comunità. E si fa così carico, all'interno del dramma, delle funzioni di ciascuno dei cori ´attivi´ nella vita reale» 136 Furley (1999-2000), 185: «when a playwright uses a hymn in his play he is transposing an

artistic form from its original home in actual cult to a performance of a quite different kind, the dramatic festival of Dionysos. What the spectators witness in the orchestra of the theatre is no longer an actual cult song adressing an actual concern of theirs, but rather a fictional representation of this activity so familiar to them from everyday life».

sarebbe stato certamente un comportamento più adeguato alla situazione esprimere il proprio dolore attraverso un canto funebre138.

Ci sono in effetti alcuni studiosi, fra cui la Parker, che ritengono che il termine παιάν in questo caso sia utilizzato ossimoricamente per indicare un threnos139.

In questa direzione va la congettura di Diggle, che al verso 424 sostituisce il dativo ἀσπόνδῳ con l’accusativo ἄσπονδον: non si parlerebbe più quindi di “un peana in risposta al dio degli inferi che non accetta libagioni” ma di “un peana privo di libagioni per il dio degli Inferi”.

La proposta di collegare l'aggettivo "privo di libagioni" al peana e non al dio140 è

stata mossa dal filologo anche sulla base dello scolio di B al verso 424, che recita: θρῆνον ἐφ'ᾧ οὐ σπένδουσιν ὥσπερ ἐν τοῖς παιᾶσιν.

Dal momento che le offerte sacrificali erano un elemento essenziale nell’esecuzione dei peana, accettando il testo corretto da Diggle, come mi sembra opinabile fare, è quasi inevitabile pensare che in realtà Admeto stesse richiedendo un threnos. Tale ipotesi è avvalorata dall’utilizzo del verbo ἀντηχέω (“cantare in risposta”), che richiama l'esecuzione antifonale del compianto funebre, e dal fatto che il re fosse effettivamente in procinto di organizzare un funerale.

L’ambiguità nella presentazione del canto, che come abbiamo detto sembra connotarsi a metà fra peana e threnos, si mantiene anche nella sua esecuzione effettiva141. Possiamo considerarlo un peana142, o comunque un encomio che

racchiuda al suo interno riferimenti a contesti peanici143, se vogliamo dare rilievo 138 Kappel (1992), 48.

139 Per un utilizzo analogo del terminr, cfr. e.g. Eur. Hel. 177 ss. e Aesch. Ch. 149-151.

140 Optando per questa interpretazione ci troveremmo di fronte ad una disposizione chiastica delle parole (παιᾶνα τῷ κάτωθεν ἀσπονδόν θεῷ: termine all'accusativo-attributo al dativo- attributo all'accusativo-termine al dativo) tipica dello stile tragico (cfr. e.g. Soph. Aj. 859; Eur. Ion. 1606) 141 Una simile ambiguità fra peana e threnos è frequentissima in tragedia. Cfr. e.g. Aesch. Coeph.

149 ss., quando Elettra istruisce il coro a rispondere alle sue preghiere con un peana per il morto. L’ode che i coreuti iniziano subito dopo sembra configurarsi inizialmente come un

threnos per Agamennone, con l’immagine delle lacrime delle donne che si mescolano alle

empie offerte mandate da Clitemnestra. Il tono però cambia rapidamente, dando forma alla preghiera, rivolta al defunto, che qualcuno arrivi a vendicare la sua morte. L’atmosfera discordante di queste due parti dell’ode è perfettamente rappresentata dalla denominazione apparentemente ossimorica di παιᾶνα τοῦ θανόντος, che concilia fra loro due ambiti contraddittori, come quello peanico, legato all’Olimpo, alla luce e alla vitalità, e quello ctonio del lamento funebre.

142 Dale (1954), 87: «I'm inclined to think that Admetus means in effect sing a paean of Alcestis which will be a kind of challenge, echoing upon the ears of the god who is so deaf to this form of human approach».

143 Rutherford (1993),86: «Yet the ode that follow, the second stasimon, is not so much a dirge as an encomium to the dead Alcestis with an allusion to παιάν- singing at the Carneia».

alla menzione delle Carnee in onore di Apollo, al carattere fortemente elogiativo e alla promessa rivolta ad Alcesti di essere ricordata con riti e canti. Però l’aspetto del compianto del defunto unito al suo elogio e l’evocazione di figure ctonie riconduce al genere del threnos144.

A mio avviso, non è possibile né metodologicamente corretto cercare di far rispecchiare direttamente il canto in un’ unica forme corale, proprio perché questa non era l’intenzione del tragediografo.

È in ogni caso vero, però, che i paralleli con il genere del threnos sono molto più consistenti di quanto alcuni ritengano. Passiamo ora all’analisi del canto corale.

Analisi testuale (435- 475 )

Χο. ὦ Πελίου θύγατερ, [στρ. α χαίρουσά μοι εἰν Ἀίδα δόμοισιν τὸν ἀνάλιον οἶκον οἰκετεύοις. ἴστω δ’ Ἀίδας ὁ μελαγ- χαίτας θεὸς ὅς τ’ ἐπὶ κώπᾳ πηδαλίῳ τε γέρων (440) νεκροπομπὸς ἵζει πολὺ δὴ πολὺ δὴ γυναῖκ’ ἀρίσταν λίμναν Ἀχεροντίαν πορεύ- σας ἐλάτᾳ δικώπῳ πολλά σε μουσοπόλοι [ἀντ. α μέλψουσι καθ’ ἑπτάτονόν τ’ ὀρείαν χέλυν ἔν τ’ ἀλύροις κλέοντες ὕμνοις, Σπάρτᾳ κυκλὰς ἁνίκα Καρ- νείου περινίσεται ὥρα μηνός, ἀειρομένας (450) παννύχου σελάνας,

Parker (2007),141: «What they actually sing is an encomium, rather than a lament».

144 Lorch (1988), 114: «Stasimon 2 seems to be mainly a dirge» Invece la Swift (2012), 161, crede a ragione che questo stasimo contenga elementi provenienti dal threnos, dall'imeneo e dal peana.

λιπαραῖσί τ’ ἐν ὀλβίαις Ἀθάναις. τοίαν ἔλιπες θανοῦσα μολ- πὰν μελέων ἀοιδοῖς. εἴθ’ ἐπ’ ἐμοὶ μὲν εἴη, [στρ. β δυναίμαν δέ σε πέμψαι φάος ἐξ Ἀίδα τεράμνων †καὶ Κωκυτοῖο ῥείθρων † ποταμίᾳ νερτέρᾳ τε κώπᾳ. σὺ γάρ, ὦ μόνα ὦ φίλα γυναικῶν, (460) σὺ τὸν αὑτᾶς ἔτλας πόσιν ἀντὶ σᾶς ἀμεῖψαι ψυχᾶς ἐξ Ἅιδα. κούφα σοι χθὼν ἐπάνωθε πέσοι, γύναι. εἰ δέ τι καινὸν ἕλοιτο πόσις λέχος, ἦ μάλ’ ἂν ἔμοιγ’ ἂν εἴη στυγηθεὶς τέκνοις τε τοῖς σοῖς. (465) ματέρος οὐ θελούσας [ἀντ. β πρὸ παιδὸς χθονὶ κρύψαι δέμας οὐδὲ πατρὸς γεραιοῦ < . . . . > ὃν ἔτεκον δ’, οὐκ ἔτλαν ῥύεσθαι, σχετλίω, πολιὰν ἔχοντε χαίταν. (470) σὺ δ’ ἐν ἥβᾳ νέ͜ᾳ νέ͜ου προθανοῦσα φωτὸς οἴχῃ τοιαύτας εἴη μοι κῦρσαι συνδυάδος φιλίας ἀλόχου· τὸ γὰρ ἐν βιότῳ σπάνιον μέρος· ἦ γὰρ ἂν ἔμοιγ’ ἄλυπος δι’ αἰῶνος ἂν ξυνείη. (475)

Il secondo stasimo viene realizzato dopo una lunga sequenza di avvenimenti emotivamente coinvolgenti (l'ultimo dialogo fra Admeto ed Alcesti e le rispettive richieste e promesse; la morte della donna; i compianti di Admeto ed Eumelo). Il suo inserimento in questo preciso momento serve pertanto ad alleggerire la tensione emotiva negli spettatori, offrendo loro una pausa riflessiva, e a tirare le somme sull’evoluzione della vicenda e sui suoi punti chiave.

L’incipit dell’ode è costituito da un’invocazione, come quella del primo stasimo, ma rivolta ad un diverso destinatario. Mentre nel canto precedente i coreuti invocavano Zeus, pregandolo di trovare una via di salvezza, ora si rivolgono ad Alcesti e le augurano di poter abitare serenamente nella dimora priva di sole di Ade. L’eccellenza della donna, che più volte era già stata sottolineata, ora viene fatta presente persino al dio dei morti e a Caronte (439-444).

L’atmosfera lugubre derivante dai riferimenti al mondo ctonio viene momentaneamente messa da parte nell’antistrofe, dove sono menzionati canti e danze che onoreranno la memoria della donna rendendo la sua gloria immortale. Secondo Rutherford, l’esaltazione del valore di Alcesti e l’allusione al fatto che le sue virtù saranno cantate dai poeti rendono il presente stasimo un encomio, più che un threnos145.

Un’affermazione del genere non tiene però conto della natura complessa di questo tipo di canto corale. Esso infatti non era finalizzato solo ad esprimere dolore per la scomparsa del defunto, ma anche a preservarne la fama. Per assolvere a questa seconda funzione, i grammatici antichi testimoniano che il canto funebre si aprisse con un ἐγκώμιον per il morto146. Data la scarsità di frammenti di threnoi a noi

pervenuti, non abbiamo testimonianza diretta di come questa sezione fosse strutturata: ma potremmo avere almeno un’idea del tipo di elogio guardando a quello composto da Pindaro per il defunto Senocrate nell’Istmica seconda.

145 Rutherford (2001), 120.

146 Cfr. e.g. Ammon. fr. 178 Nickau, 12-15: Ἀριστοκλῆς δὲ ὁῬόδιος ἐν τῷ Περὶ ποιητικῆς

τοὔμπαλιν· φησὶ γὰρ ‘θρῆνος δ’ ἐστὶν ᾠδὴ τῆς συμφορᾶς οἰκεῖον ὄνομα ἔχουσα· ὀδυρμὸν γὰρ ἔχει σὺν ἐγκωμίῳ τοῦ τελευτήσαντος.. Per la duplice funzione di assicurare al defunto non solo πένθος, ma anche κλέος, cfr. Hor. carm. IV. 2, vv. 21-24, in merito a Pindaro: «flebili sponsae iuvenemve raptum/plorat et virs animumque moresque/aureos educit in astra nigroque/ invidet Orco».

Alla luce di queste considerazioni sulla componente encomiastica dei threnoi, la prima strofe dell’ode potrebbe essere interpretata come coerente con il genere del lamento funebre; l’antistrofe presenta invece un carattere più ambiguo.

Dopo essersi augurati che il valore della donna possa essere noto anche negli Inferi, i coreuti assicurano che sulla Terra rimarrà vivo, trasmesso dalle voci dei poeti147 e

onorato con forme rituali che ricordano quelle concesse alle divinità e agli eroi148.

L’occasione in cui Alcesti verrà celebrata è chiaramente specificata sia nella sua collocazione spazio-temporale che nelle sue modalità: si fa menzione di feste che si sarebbero tenute a Sparta nel mese di Carneo (449-451) e di altre ad Atene (452), di canti accompagnati dalla cetra a sette corde (446) e di inni senza la lira (447). La menzione relativa a Sparta è sicuramente quella più interessante per chi voglia ricondurre l’ode ad un contesto peanico.

Le Carnee infatti erano festività musicali che si tenevano nella città della Laconia in onore di Apollo Carneo149, pertanto la nostra vicenda mitica potrebbe essere

adatta a queste celebrazioni. Non abbiamo prove che fossero composti peana in occasione delle Carnee, ma la loro forte implicazione con Apollo lo rende

147 Il termine μουσοπόλοι non è utilizzato in maniera casuale: vi era ricorsa anche Saffo nel frammento 150 Lobel- Page, dove si afferma che lo θρῆνος non ha posto in casa dei poeti. Quanto al tema della canto dei poeti come unico mezzo che un mortale ha a disposizione per

ottenere gloria imperitura, cfr. e.g. Pynd. Pyth. I, dove il potere eternante della lira del poeta viene visto come il corrispettivo terrestre della forza creatrice e ordinatrice della lira d'oro di Apollo.

Il legame fra le grandi azioni e le canzoni di lode che le celebrano era un tema frequente negli epinici (cfr. e.g. Pind. Pyth. I 93-94).

Per il motivo della poesia che resiste allo scorrere del tempo, cfr. e.g. il frammento 581 Page di Simonide e la sesta Pitica di Pindaro, dove si fa riferimento al tesoro di canti che renderà eterna la fama di Senocrate (vv. 6-9). Un’altra ode incentrata sul tema dell’immortalità poetica di cui avremo modo di parlare in seguito è la Pitica III.

148 In merito al potere di donare gloria immortale che veniva attribuito al culto degli eroi, vd. e.g. Pind. fr. 133 Rutherford.

149 Weber aveva invece ipotizzato, nella sua edizione della tragedia (1930) e in un successivo articolo (1936), 138 ss., che le Carnee fossero inizialmente nate come feste in onore di Alcesti, che sarebbe stata una divinità ctonia predorica. Solo in seguito, con l’introduzione del culto di Apollo a Sparta, esse sarebbero state rivolte al nuovo dio e la figura della πότνια Alcesti sarebbe stata umanizzata. Weber attribuisce una primordiale origine divina anche ad Admeto, basandosi sull’etimo del suo nome (ἄδμητος come forma poetica per ἀδάματος,“indomabile”, che era spesso usato come attributo di Ade), e lo presenta come πάρεδρος di Alcesti. Secondo la sua ricostruzione del mito arcaico che raccontava la storia di queste due divinità, Admeto scendeva periodicamente negli Inferi per riportare alla luce la dea della terra, Alcesti, la quale si recava nell’Oltretomba quando la vegetazione cominciava a morire. La loro risalita insieme simboleggiava il ritorno alla vita ed il rinnovarsi ciclico della natura.

Anche Reiner (1938), 113-114, si serve di questi passi euripidei per attestare l’iniziale nascita delle Carnee come dedicate ad una dea ctonia: queste festività sarebbero state caratterizzate da un duplice carattere, quello di ringraziamento gioioso per l’abbondanza delle messi e quello di sacrificio espiatorio per la dea ctonia.

probabile; inoltre sappiamo da fonti antiche che il genere lirico era abituale durante le Gumnopaidiai150, celebrazioni tenute sempre a Sparta ed in onore di Apollo

durante le quali cori di giovinetti eseguivano peana per mantenere viva la fama degli eroi di Tirea151. La forte componente commemorativa che viene attribuita ai

canti in onore di Alcesti e la loro collocazione nell’ambito di una festa dedicata ad Apollo li accomuna a questi peana celebrativi: secondo Rutherford, Alcesti era stata innalzata al rango degli eroi152 e ne godeva gli stessi onori dal momento che aveva

mostrato un coraggio prettamente maschile nel decidere di morire al posto di Admeto153.

Il peana non era però l’unico metodo per ricordare la fama degli eroi: Richard Seaford attesta la pratica ben documentata da diverse parti del mondo greco di innalzare lamenti in loro onore per conservarne la presenza anche dopo la morte154.

Quindi anche determinare il tipo di canto che avrebbe dovuto onorare Alcesti in

150 Ath. XV. 678 c; Strabo X.4 18.

151 Cfr. Her. Hist. I.82 ss: intorno al 575 a.C., era sorto un conflitto fra gli abitanti di Sparta e di Argo per il controllo del territorio di Tirea. Per risolvere la questione, venne organizzato un combattimento a cui avrebbero preso parte trecento uomini per ognuno dei due schieramenti. Alla fine del conflitto, sopravvissero solo due Argivi ed uno Spartano; i primi si considerarono vincitori perché erano in maggioranza, il Lacedemone invece rivendicava per sé la vittoria in quanto i due avversari, pensando di aver trionfato, tornarono in città e questo loro allontanamento dal campo di battaglia equivaleva ad una ritirata. Per chiarire la situazione, la lotta venne ripresa e e questa volta prevalsero gli Spartani.

152 L’allusione ad una futura eroicizzazione post- mortem di persone ancora in vita che avevano mostrato particolare valore era frequente anche negli epinici: cfr. e.g. la Pitica V di Pindaro, dove il poeta sembra suggerire l’istituzione di un culto eroico per Battiade, re di Cirene ( 96- 97). A volte questo culto era poi davvero conferito al laudandus: Diodoro testimonia l’esistenza di un culto dedicato a Terone, committente della II e III Olimpica di Pindaro (XI.53.2), e sostiene che Ierone , destinatario di altri epinici, abbia fondato la città di Etna sperando che questo potesse garantirgli onori da eroe dopo la morte (XI.49.2), come è poi effettivamente avvenuto.

153 Rutherford (1993) 86 n. 30. In merito alla maschilizzazione di Alcesti (accompagnata a volte anche da una femminilizzazione di Admeto) si è a lungo parlato; cfr. e.g. Segal (1993). Lo

status maschile di Alcesti è avvalorato da molti suoi atteggiamenti e suggerito dal tragediografo

attraverso allusioni più o meno velate. Nel caso di questo stasimo, ad esempio, l’incipit ὦ Πελίου θύγατερ, χαίρουσά μοι εἰν Ἀίδα δόμοισιν ricorda in maniera evidente il momento in cui Achille compiange la morte di Patroclo (Hom. Il. Ψ 179: χαῖρέ μοι ὦ Πάτροκλε καὶ εἰν Ἀΐδαο δόμοισι). Lo stato di Alcesti è più volte paragonato a quello del compagno del Pelide; di questa