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L’appello all’ordinario e il riconoscimento dell’ineludibilità del dato pragmatico fanno quindi parte di una medesima strategia usata da Wittgenstein per indurci a riconoscere il limite delle nostre asserzioni e per spronarci a cambiare le nostre vite. Tale appello, come si è visto, ha consentito sia di illustrare il nesso che sussiste tra il dovere di riconoscere la finitezza della natura umana e il desiderio di trasformare l’assetto istituzionale delle pratiche, sia di porre in rilievo il problema dei rapporti che sussistono tra le prassi che appartenendo esclusivamente al linguaggio si possono definire «culturali» e le prassi che trovandosi «alla base» dei comportamenti normati degli individui, sono classificabili come «istintive» o «naturali». Il problema che sorge è quindi quello di riuscire a trovare un concetto o un metodo che sia in grado di distinguere i casi in cui le forme di vita sono impiegate per denotare in senso lato una «cultura», ovvero un insieme socialmente regolato di azioni e istituzioni, dai casi in cui con esse Wittgenstein si riferisce a quello sfondo né ragionevole né irragionevole della vita che è condizione condizionata dei nostri giochi del

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linguaggio. Tuttavia, come si è in parte accennato, nell’opera di Wittgenstein mancano dei riferimenti chiari che possano aiutare a capire a che tipo di azioni egli stesse pensando nel riferirsi alle forme di vita: se a comportamenti condivisi con il regno animale, o se a gesti che comprendono anche la sfera sociale dell’agire. Anche nelle annotazioni successive all’opera del ’53, dove abbondano i riferimenti alla dimensione umana della condotta, è estremamente difficile, se non impossibile, identificare i comportamenti che possono essere definiti, nella sua lettura, «convenzionali» o «innati». Non è chiaro, in altri termini, se i «fatti della vita» a cui Wittgenstein allude possiedano lo stesso grado di complessità di quelli elencati per indicare condotte apprese, o se invece con essi egli voglia riferirsi solo a quella serie di fatti biologici come il nascere, il crescere, il mangiare, il camminare, il riprodursi, ecc.82 ascrivibili a forme di vita anche non umane. Per cercare di mettere in luce tale aspetto, vorrei prendere in considerazione l’analisi di alcuni concetti particolarmente importanti nel pensiero wittgensteiniano e in grado di aiutare a comprendere il nesso che lega l’agire animale a quello dell’uomo. A tal scopo prenderò in esame le riflessioni sull’animalità esposte in PU, tentando di mettere in risalto con esse i punti più utili a definire sia i rapporti tra forme di vita umane e forme di vita animali sia a illustrare il senso etico che è implicito nel riconoscimento di una definizione autonoma di quest’ultime (intese come ulteriore esemplificazione possibile del concetto wittgensteiniano di «Lebensformen»). Nello svolgere questo confronto, cercherò poi di evidenziare in che modo l’analogia con il regno animale consenta a →ittgenstein di illustrare non solo l’appartenenza delle azioni sociali al regno biologico dell’azione ma anche l’enigmaticità che contraddistingue a volte la dinamica dei rapporti tra individui all’interno di uno stesso corpo sociale.

Nella prima pagina della seconda parte di PU, Wittgenstein espone un paragone tra il modo in cui può sperare un uomo (cfr. BPP: II, §15; Z 469a) e quello in cui può farlo un cane83. Egli dapprima scrive che di un animale, in generale, possiamo immaginarne tutta

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Ci si potrebbe in tal senso chiedere se possano ancora essere definiti «naturali» alcuni comportamenti come il mangiare per non saziarsi, il raccontare una storia senza una fine, o il camminare senza una meta. In tali casi, verrebbe da pensare che la razionalità allo scopo intrinseca per natura nelle suddette azioni sia stata modificata dal desiderio di una cultura di farlo e quindi dalla sua volontà di esibire il carattere gratuito del modo di agire umano. Ma chi o cosa ci può autorizzare a definire come «più naturale» un’azione come il raccontare una storia con un finale o il mangiare per saziarsi?

83 O più in generale un animale: «In questo caso […] ho detto che la speranza, il credere, ecc. sono

incorporati nella vita umana, in tutte le situazioni e reazioni di cui è costituita la vita umana. Il coccodrillo non spera, l’uomo sì. O anche: del coccodrillo non si può dire che speri; lo si può dire, invece, degli uomini» (BPP: I, §16). Da notare che a differenza della citazione presente nella prima pagina della seconda parte di P←, qui →ittgenstein non sembra dire che all’animale sia preclusa esclusivamente una manifestazione «concettuale» dello sperare, analogamente al modo in cui al cane del passo in oggetto viene preclusa la possibilità di attendere il rientro del padrone due giorni dopo il suo congedo («dopodomani»;), come ci

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una serie di emozioni quali la rabbia, il terrore, la tristezza, l’allegria, lo spavento. (L’animale è cioè inserito, insieme alla propria forme di vita, in una linea di continuità con le reazioni primitive degli uomini, in particolare con quelle che appartengono alla sfera istintiva). Immediatamente dopo invece, nell’analizzare il caso specifico del cane, si chiede se esso possa fare qualcosa di più di un semplice «aspettare il padrone» (PU: II, p. 229) come, ad esempio, credere che «arriverà dopodomani» o, «simulare il dolore» (PU: §250; cfr. anche Z: §389), rispondendo che una reazione siffatta è una prerogativa esclusiva dell’essere umano, o più in generale di chi è in grado di padroneggiare l’uso di una lingua (PU: I, p. 229)84:

«Può sperare solo colui che può parlare? Solo colui che è padrone dell’impiego di un linguaggio. Cioè, i fenomeni dello sperare sono modificazioni di questa complicata forma di vita» (Ibidem).

L’uso dei termini «modificazioni» e «complicata» è particolarmente significativo nel passo. Wittgenstein sembra nuovamente suggerire, come già in altri passi, che al di sotto delle condotte sociali degli individui si trova una base pragmatica più originaria, che egli chiama «primitiva» – o «istintiva», ovvero non derivante da premesse logiche – condivisa fino a un certo stadio con quella animale e suscettibile di modificazione e trasformazione. Wittgenstein descrive tale sfondo come un groviglio di comportamenti innati, impiegando tutta una serie metafore che vanno dall’indicazione di uno strato di roccia oltre il quale non è possibile scavare, all’immagine più sfumata di un brulichio di gesti e reazioni su cui si stagliano i nostri modi di agire e giudicare, consentendo quindi di leggere in termini

sarebbe attesi dato che se non è dimostrabile che gli animali non dispongono di atti intenzionali concettualmente strutturati, è plausibile ritenere che siano in grado di esprimere fenomeni riconducibili al nostro sperare, desiderare, credere ecc.; ma che addirittura non sembra concepibile per essi un’espressività intenzionale tout court, ovvero un modo di esprimere l’attesa, la speranza e il desiderio minimamente riconducibile a quello umano. La difficoltà di rappresentare linguisticamente tali fenomeni non sembra tuttavia placarsi nemmeno quando →ittgenstein prende a riferimento lo sperare dell’uomo, per il quale egli esibisce talvolta una difficoltà che lascia il lettore alquanto perplesso. Infatti, nel passo in questione, subito dopo aver asserito con fermezza che per il coccodrillo non si dà il fenomeno dello sperare, con un’affermazione che sa più di resa che di socratica ignoranza, Wittgenstein scrive: «Ma come dovrebbe comportarsi un uomo perché di lui si possa dire che non spera mai? – La prima risposta è: Non lo so. Sarebbe già più facile dire come dovrebbe comportarsi un uomo che non si strugge mai per qualcosa; o che non si rallegra mai di niente; o che non si spaventa mai, o non ha timore di alcunché» (Ibidem).

84 Il contesto di analisi in cui è espressa questa osservazione allude a una critica dell’interiorità che non è

possibile affrontare in questa sede con il dovuto approfondimento. Per ora ci limitiamo a dire che l’intento di Wittgenstein è di demolire l’idea tipica lockiana che una sensazione, come ad esempio il dolore – ma lo stesso si potrebbe dire di un’emozione, un’idea o un pensiero – sia un oggetto mentale circoscrivibile e denotabile al pari di un oggetto del mondo esterno e che pertanto il suo significato si possa determinare attraverso la definizione dei criteri grammaticali che lo identificano (concetti, comportamenti, espressioni, ecc.).

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estetici la formazione plurale dei nostri abiti espressivi. Così, ad esempio, a proposito del dolore dice:

«Per noi, “dolore” descrive un disegno che ritorna con differenti variazioni nel tessuto della vita»; (PU: II, p. 219);

oppure, adottando di nuovo la metafora estetica del disegno, scrive:

«Nella vita degli esseri umani noi giudichiamo un’azione in base al suo sfondo e questo sfondo non ha un colore uniforme; possiamo piuttosto immaginarcelo come un complicatissimo disegno in filigrana, un disegno che non saremmo in grado di riprodurre, ma che saremmo in grado di riconoscere in base all’impressione generale che ci fa» (BPP: II, §624);

«Non quello che uno fa in questo momento, ma l’intero brulichio delle azioni umane è lo sfondo sul quale noi vediamo un’azione, sfondo che determina il nostro giudizio, i nostri concetti e le reazioni che abbiamo» (BPP: II, §629).

«Lo sfondo è l’ingranaggio della vita. E il nostro concetto designa qualcosa in questo ingranaggio» (BPP: II, §625);

L’idea che lo sperare, o il provare dolore siano qualcosa che si trovi intrecciato al tessuto della vita, inteso come uno sfondo senza un colore uniforme o «un disegno» che è in grado di assumere forme concettuali più complesse («complicatissimi disegni in filigrana»), porta a supporre che tra il linguaggio umano e il dato delle Lebensformen sussista una differenza qualitativa capace di rivelare una distanza tra noi e gli altri esseri viventi85; che cioè vi sia uno scarto pronunciato tra le azioni propriamente naturali e le

85 Il paragone che Wittgenstein svolge riguarda esclusivamente gli esseri umani e gli animali. Piante, pietre,

bambole, cadaveri (PU: §§282-284) e in generale tutti gli oggetti inanimati, nella misura in cui non sono in grado di eseguire azioni o manifestare gesti emotivi (o pensieri), sono esclusi dalla forma di vita umana, o più precisamente, da quella i cui membri si comportano in maniera analoga agli uomini: «Solo di ciò che si comporta come un uomo si può dire che ha dolori» (P←: §283). Nell’osservazione successiva, →ittgenstein fa riferimento al modo in cui si potrebbe confrontare il dolore di una pietra con il dolore di una mosca. Al di là del fatto banale che una pietra non può soffrire, l’esempio riproduce l’immagine del dolore che noi tutti, in quanto uomini, condividiamo, ovvero di un qualcosa che ci paralizza impedendoci per così dire di «andare avanti» nelle nostre vite. (Le metafore di →ittgenstein su tale tema permeano l’afflato esistenziale di tutta la sua ricerca). Ciò che Wittgenstein sembra dirci, quindi, è che la differenza tra il fatto che si possa percepire il dolore come una sensazione che ci pietrifica o che ci spegne fino a lasciarci quasi senza vita (PU: §283) e il fatto che invece caratterizza il soffrire di una mosca «che si dimena convulsamente», ad esempio perché non è in grado di uscire dalla trappola in cui è caduta (P←: §309), è la stessa che passa tra l’idea illusoria che il dolore debba avere un portatore (uno qualunque, come appunto una pietra) e l’idea che lega necessariamente la sua «presa» alla reazione di un essere animato. Detto diversamente, se a volte, per una sorta di proiezione

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azioni sociali regolate dalle prassi di una cultura. Esse, più che descrivere una sorta di filosofia dell’animalità, che potremmo dire «assente» in PU, aiutano a mettere a nudo la diversità di tutte le forme di vita tra di loro e in special modo di quella umana da quella animale, risaltandone analogie e differenze utili a fare luce sul concetto stesso di «forma di vita».

Il passaggio in questione è tuttavia delicato anche per altre ragioni. Wittgenstein infatti non dice che l’uomo a differenza degli animali può vantare una superiorità biologica misurabile dal possesso del suo linguaggio; né afferma che un animale non è in grado di esprimere alcuna delle sue emozioni per il fatto che è incapace di esprimerle nel modo in cui «noi» le esprimiamo (anche se, per un filosofo come Wittgenstein, è difficile a volte riconoscere in un essere vivente la tristezza, la gioia o il dolore senza il possesso dei concetti e dei relativi giochi linguistici che ne descrivono l’uso; il che non vuol dire affatto che se non esistessero tali concetti non si potrebbero provare emozioni o sensazioni86, ma

empatica, radicata in un uso non corretto della grammatica delle sensazioni, siamo tentati di immaginare che anche una pietra (una bambola o un cadavere) sia in grado di soffrire, è perché riteniamo che il dolore possa venire rappresentato come un oggetto il cui essere è distinto dalla sua espressione. Wittgenstein vuole cioè dirci che il dolore altro non sarebbe che una maniera di agire, un modo efficace per richiamare l’attenzione e invocare aiuto o, come si legge in un celebre passo di PU, per sostituire con una parola la forza primitiva di un grido inarticolato («“Tu dunque dici che la parola ‘dolore’ significa propriamente gridare?” – Al contrario; l’espressione verbale del dolore sostituisce, non descrive il grido»; P←: §244). L’espressione di dolore non denota, quindi, un criterio per cercare qualcosa di «più profondo» al di là del corpo, qualcosa che si troverebbe nascosto dentro di noi e che a volte ci rende inaccessibili l’uno all’altro, ma indicherebbe piuttosto un richiamo etico, un invito a un’assunzione di responsabilità che può scaturire da un gesto, dall’espressione di un volto o a anche da un semplice sguardo («Quando uno sente dolore alla mano, non è la mano che lo dice, a meno che non lo scriva; e non si rivolgono parole di conforto alla mano, ma al sofferente; a lui si guarda negli occhi»; PU: §286). Proprio per la sua immediatezza (ovvero per il suo non essere mediato da ragionamenti, calcoli e induzioni), l’espressione di dolore rientra a pieno titolo tra l’insieme di quelle azioni primitive che →ittgenstein attribuisce al dato e che ancora, nel linguaggio, conservano la loro intrinseca naturalità.

86 È questa, ad esempio, la tesi avanzata da McDowell (1994). McDowell sostiene che negli animali la

capacità di sentire si trova «al servizio di una vita strutturata esclusivamente dagli imperativi biologici immediati» (McDowell 1994: p. 124), ovvero dall’insieme di quelle reazioni non concettuali che determinano il tratto caratteristico del loro comportamento nell’ambiente (Umwelt). Si tratta di «imperativi» che risultano dal «prodotto immediato di forze biologiche» (McDowell 1994: p. 125) e che sebbene non limitino l’agire animale all’esclusiva lotta per la sopravvivenza o allo sforzo per la riproduzione (basti pensare «all’istinto del gioco che si trova in molti animali »; Ibidem) non da ultimo lo escludono dalla possibilità di soppesare le ragioni per decidere il da farsi, ovvero da quella dimensione normativa del linguaggio che Sellars chiama lo «spazio logico delle ragioni» (lì «dove si giustifica e si è in grado di giustificare quel che si dice; Sellars 2004: p. 54). McDowell suggerisce, in tal senso, di riprendere la distinzione gadameriana tra «ambiente» e «mondo» (Gadamer 1960: pp. 507-508), sì da rendere più sostenibile la possibilità di fare dell’esperienza un vincolo razionale ai nostri procedimenti giustificativi. Mentre il primo termine definisce la forma di vita degli animali, legata, come si è detto, alla reazione e all’istinto, e dunque alla suscettibilità empirica all’ambiente, il secondo circoscrive lo spazio «abitato» dagli esseri umani, quello ovvero che consente di elevarsi, attraverso la possibilità di esibire ragioni ai nostri enunciati, al di sopra delle pressioni che il mondo biologico esercita su noi stessi, e pertanto di realizzare il nostro «orientamento libero e distaccato» (Gadamer 1960: p. 509). Come, in parte si è già detto a proposito del linguaggio agostiniano e dei processi di apprendimento che introducono i bambini nel cosiddetto «mondo degli adulti», anche in questo caso, si rivela centrale l’idea che l’avviamento all’uso dei concetti rappresenti un processo educativo paragonabile, per forma, all’acquisizione di una sorta di «seconda natura» umana (McDowell 1994: p. 86), che McDowell chiama «Bildung» (McDowell 1994: p. 91), in forza della quale

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solo che non si avvertirebbe la loro assenza come una mancanza: un animale infatti è in grado di provare dolore anche se non ha le parole per esprimerlo). Egli ci vuole invece dire che la maniera con cui un animale sente e reagisce è profondamente diversa da quella con cui «noi»87 sentiamo e reagiamo e che in alcuni casi, come spesso testimoniano le nostre esperienze, è difficile trovare dei metodi di paragone (o degli anelli intermedi) per

l’individuo avrebbe la facoltà di sviluppare la propria formazione soggettiva. La natura umana diventa, quindi, qualcosa che comprende al suo interno oltre che l’insieme di tutti quei tratti biologici condivisi con gli animali (percezione e memoria) a un livello concettuale (non si dà, per l’uomo, esperienza che non sia già normativamente strutturata), anche l’occasione per realizzare le potenzialità dell’uomo (purché nei limiti di ciò che una determinata tradizione ha depositato nel linguaggio): «la caratteristica davvero importante del linguaggio è questa: che un linguaggio naturale, il tipo di linguaggio cui gli esseri umani sono dapprima iniziati, serve come ricettacolo della tradizione, un magazzino della saggezza accumulatasi nel corso della storia su cosa è una ragione per cosa. La tradizione è soggetta alla modifica ragionata di ogni generazione che la eredita […]. Ma perché un singolo essere umano realizzi la sua potenzialità di occupare un posto in tale successione – cosa che equivale ad acquisire una mente, la capacità di pensare e agire – ciò che per prima cosa deve avvenire è che sia iniziato a una tradizione quale essa è» (McDowell 1994: p. 137). Senza entrare, per il momento, nello specifico dell’uso del termine «tradizione», anch’esso mutuato da Gadamer, mi limito a osservare che sebbene la posizione di McDowell, dal punto di vista del ruolo educativo dei processi di apprendimento, consenta di pensare la natura anche in termini normativi, evitando quindi di confinare il suo significato all’indagine scientifica o all’uso di concetti meramente naturalistici, dall’altro tuttavia non riesce a rendere conto del problematico dualismo che reintroduce attraverso la postulazione della differenza incolmabile tra natura animale e natura umana Una volta infatti che percezione e sensazione vengono relegate all’esclusivo spazio delle ragioni, precluso a priori al mondo degli animali e prerogativa univoca degli uomini, non si riesce a comprendere in che modo i primi siano in grado di percepire e sentire qualcosa – data la loro incapacità di impiegare concetti – e soprattutto in che termini i tratti specifici della natura biologica possano essere pensati, in quanto tali, ovvero nella loro dimensione extra-concettuale, all’interno della natura razionale dell’uomo (cfr. Wright 1981: p. 234; Cfr. Tripodi 2009: p. 422). L’idea del «concettuale senza confini» (McDowell 1994: p. 25) pertanto, sebbene abbia il merito di riuscire a pensare la razionalità in termini naturali e dunque a evitare la fallacia fondativa del cosiddetto «Mito del Dato», finisce col rendere misteriosa la natura dell’uomo e soprattutto col rendere inspiegabile il modo attraverso cui la sua dimensione esperenziale può essere condivisa con il regno degli animali. In Wittgenstein, invece, come proverò a dimostrare, non è esclusa a priori la possibilità per gli animali di esprimere un linguaggio tout

court, bensì quella di parlare una lingua e pertanto di fare un uso particolarmente sofisticato dei concetti e delle regole che ne definiscono la grammatica dell’impiego. Inoltre, a differenza di McDowell, in →ittgenstein è prevalente l’idea che la natura umana non sia qualcosa di circoscritto e immutabile, ma abbia una sua propria storia (la storia naturale degli uomini) e quindi sia soggetta, esattamente come le culture, a trasformazioni e cambiamenti. Vedremo come questo tema sarà problematizzato con efficacia e pertinenza dall’analisi cavelliana delle regole (cfr. Cap. 3: §4).

87La questione del «noi» nell’opera di Wittgenstein risulta controversa. A volte, si ha l’impressione che egli

voglia riferirsi, quasi hegelianamente, al «noi» filosofico espresso dalla voce della correttezza, a coloro i quali cioè già conoscono il sentiero lungo quale il lettore sarà condotto nelle osservazioni di PU, e dunque a chi già sa come il linguaggio è (e dovrà essere) usato. Altre volte, invece, il «noi» sembra denotare l’insieme