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Se tuttavia questa strategia di confronto possa aiutare a riscontrare oggettive somiglianze o parziali sovrapposizioni di tratti e aspetti di una medesima cultura è questione che in Wittgenstein resta irrisolta. Certo è che invece egli sembra avere piena consapevolezza della difficoltà di usare legittimamente i termini «nostro» e «diverso» nelle espressioni incontrate («formazioni concettuali diverse», «concetti diversi»), specie se tali concetti sono impiegati per alludere a palesi contraddizioni derivanti o dall’ammissione della contemporanea alterità e traducibilità di forme di vita in via di principio irrappresentabili, o dal riconoscimento dell’esistenza di un un’unica forma di vita che accomuna, al di sotto dei giochi linguistici, tutti i modi di agire linguistici e pre-verbali

ramificazioni di un medesimo organismo o forma biologica. L’Urpflanze è, secondo il filosofo tedesco, il fenomeno primo di tutte le possibili piante presenti in natura, l’archetipo originario di ogni forma naturale concepibile ed esistente. Essa non definisce il modello ideale a cui le forme devono ricondursi (sulla scia di quanto avviene ad esempio nella filosofia eidetica platonica), né rappresenta una sorta di principio ontologico esistente in natura e in grado di attivare in maniera autonoma le variazioni menzionate, ma è al contrario un principio ordinatore concreto, uno strumento di classificazione pratico e locale, capace di fornire sia i criteri per ordinare in sequenza le diverse variazioni fenomeniche del modello primo delle forme, sia uno sguardo per studiare la natura da un punto di vista più ampio e comprensivo. Se si tiene conto di quest’ultimo aspetto non è difficile riscontrare le affinità che sussistono tra la metodologia goethiana di confronto dei fenomeni naturali e gli studi sulle somiglianze linguistiche condotti di Wittgenstein. In entrambi i casi, infatti, come a ragione sottolinea Andronico (1998), ci troviamo di fronte a un’analisi comparata degli elementi (siano essi linguistici o naturali), in cui «la dicotomia profondità/superficie» (Andronico 1998: p. 178) è abolita e in cui pertanto la ricerca dell’essenza del significato è sostituita dalla descrizione dei fenomeni verbali esposti alla vista. «Come all’occhio del morfologo i contorni che identificano una forma stanno solo per se stessi, così per il logico le regole dei giochi; esse non portano a espressione qualcosa di nascosto che andrebbe scoperto, ma giacciono in superficie, sono lì sotto i nostri occhi» (Andronico 1998, p. 179). Ma il riferimento più diretto al metodo goethiano (e spengleriano) si trova in un passo di PU in cui, nuovamente, Wittgenstein invita il lettore a considerare il linguaggio come qualcosa che deve essere giocato e agito, e non spiegato (o fondato): «Il nostro errore consiste nel cercare una spiegazione dove invece dovremmo vedere questo fatto come un “fenomeno originario” (Urphänomen). Cioè, dove invece dovremmo dire: si gioca questo gioco

linguistico» (PU: §654). In questo passaggio, Wittgenstein sottolinea il lato gratuito del linguaggio, il suo essere svincolato da ragioni prettamente pratiche o utilitaristiche. («non è uno strumento della comunicazione nel senso in cui lo sono, per esempio, il telefono […] o la bocca che rende possibile la fonazione»; Andronico 1998: p. 187). Egli quindi oltre a evidenziare la funzione prettamente metodologica dell’Urphänomen, ribadisce la centralità anche di un altro aspetto analizzato in precedenza e riguardante proprio quel dato primo del linguaggio che a suo avviso è ravvisabile nell’incipit faustiano («in principio era l’azione»). Quella di →ittgenstein è dunque una visione duplice dell’Urphänomen goehtiano-spengleriano: da una parte, come si è detto, esso esprime un modello di ordine e classificazione dinamica delle forme naturali: è cioè uno strumento euristico nelle mani dello studioso degli organismi viventi; dall’altra, rappresenta lo sfondo primo di ogni gioco linguistico realizzabile, quel dato pragmatico indeducibile che non può essere descritto o giustificato non tanto per un’assenza di risorse cognitive o concettuali (o per il rispetto di una prescrizione etica), quanto per il suo essere tutt’uno con il nostro agire, per la gratuità con cui prima di ogni pensiero o deduzione logica consente di fare la prima mossa nell’orizzonte indicibile delle forme di vita umane.

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degli individui. Infatti, come si legge in alcune delle riflessioni più lucide sui concetti di colore che possono essere estese anche per i casi qui analizzati:

«Se costoro hanno davvero un concetto diverso dal mio si deve vedere in questo: che non riesco a raccapezzarmi del tutto nell’uso che fanno delle parole» (BdF: III, §123; corsivo mio).

Applicando questa riflessione ai venditori di legna, si potrebbe dire quindi che se «costoro» possedessero un concetto di quantità o di vendibilità radicalmente diverso dal nostro non riusciremmo in alcun modo a comprendere che tipo di attività starebbero svolgendo quando nel misurare la superficie occupata della legna essi farebbero seguire tutta una serie di operazioni come il consegnare i tronchi, lo scambiare denaro, lo stringere accordi, il consegnare il legname ecc., che generalmente definiamo «il vendere la legna». Ci troveremmo piuttosto di fronte alla difficoltà di non riuscire a far collimare i nostri modi di vivere con i modi attraverso cui altre culture vivono e organizzano le proprie esperienze, a qualcosa come un sentimento di estraniazione e disorientamento che potrebbe indurci a desistere dalla nostra impresa di traduzione o, in alcuni casi, a riconoscere l’insensatezza dell’operazione stessa del tradurre. Non sapremmo infatti in che modo interpretare quegli atteggiamenti se non come illogici o artificiali, involuti o primitivi (cfr. BFGB), restando del tutto spaesati circa i modi attraverso cui essi riproducono prassi che in un primo momento ritenevamo a noi più vicine.

Ma d’altro canto Wittgenstein, quasi contraddicendosi nuovamente, sembra concedere qualcosa in più alle nostre facoltà interpretative quando limitando il portato di diversità dei nostri concetti ai soli casi in cui possono venire rappresentati come tali, alle circostanze ovvero in cui possono venire etichettati come «diversi», invita il lettore a verificare se essi non rappresentino che modi alternativi di nominare un medesimo oggetto con parole differenti, strategie ugualmente valide per riferirsi a medesime categorizzazioni con linguaggi solo in apparenza inconfrontabili:

«”Queste persone chiamano questa cosa (poniamo un marrone) verde che dà sul rosso?” Allora non sarebbe appunto soltanto una parola diversa per qualcosa, per cui ho una parola anch’io?» (Ibidem).

Pertanto, anche se è possibile immaginare forme di vita che adottano convenzioni terminologiche sui colori, sui sistemi di misura e sulle pratiche economiche difformi dalle nostre, per le quali, come si è detto, non si dà alcun criterio per stabilire quale sia

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l’atteggiamento che un interprete sarebbe tenuto a rispettare (non saprebbe infatti se considerare suddetta divergenza come un errore nei sistemi di misura o come una rappresentazione concettuale diversa da quella implicita nelle nostre procedure ordinarie), non appare del tutto insensato postulare, di contro a quanto affermato da Wittgenstein in altre sue osservazioni sull’alterità (cfr. PU: §32; PU: II, p. 292), l’esistenza di un terreno di confronto a partire dal quale misurare la differenza e il grado di somiglianza tra le prassi; non sarebbe cioè del tutto fuorviante ritenere che tra le esigenze dei processi di significazione sia implicita anche la loro traducibilità in un linguaggio che è capace di tenere insieme, attraverso una serie di nessi e legami, il complesso delle parole su cui si è riscontrato un uso divergente.

Il richiamo al metodo morfologico goethiano per la costruzione di una successione di termini imparentati da somiglianze di famiglia sembra in tal senso rappresentare un’ottima soluzione. Esso infatti ci consente di spiegare per quale ragione, dinanzi all’uso (anche molto) divergente di medesimi concetti, siamo ancora in grado non solo di riconoscerli in quanto tali, vale a dire nella loro diversità, ma anche di identificare gli eventuali elementi di somiglianza e familiarità che li rendono comprensibili ai nostri stessi occhi di interpreti:

«”Non ci si potrebbe immaginare che certi uomini avessero una geometria dei colori diversa dalla nostra?” – Cioè, naturalmente: non si possono immaginare uomini che abbiano concetti di colori diversi dai nostri? E questo vuol dire, a sua volta: non ci si può immaginare che certi uomini non abbiano i nostri concetti di colore e abbiano invece concetti imparentati con i nostri concetti di colore in maniera tale che vorremmo ancora chiamarli “concetti di colore”?» (BdF: §154).

Del resto se le circostanze in cui fossimo in grado di effettuare suddetti confronti venissero meno, se cioè non si desse occasione di trovare degli elementi intermedi tra gli usi divergenti di un medesimo termine, non potremmo propriamente disporre di alcun concetto o accordo su ciò che saremmo disposti a chiamare «colore», con la conseguenza che il medesimo concetto di «colore» si troverebbe a venir revocato dal linguaggio:

«Se in generale gli uomini non concordassero sui colori delle cose, se i casi indeterminati non fossero eccezioni, il nostro concetto di colore non potrebbe esistere. No: – il nostro concetto di colore non esisterebbe» (Z: §351)

La possibilità di concepire concetti «altri» di colore sembra dunque risiedere nella postulazione logica del carattere confrontabile delle differenze, nell’ascrizione di tratti di

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parziale traducibilità alle pratiche che qualificano le forme di vita. Wittgenstein ritiene che la comprensione del significato di un’usanza giaccia esclusivamente nella facoltà di produrre rappresentazioni perspicue, nel saper cioè tracciare una linea di continuità tra le parti che connettono in una serie analogico-differenziale le fisionomie delle prassi e le parti che identificano gli usi e i costumi di culture che intrattengono con le nostre rapporti di somiglianza. Il suo è in altri termini lo sforzo di tenere insieme la possibilità di rapportarsi a civiltà dagli impieghi concettuali differenti con l’esigenza di non trasformare le nostre traduzioni in schemi di colonizzazione antropologica; di avere accesso alle regole che disciplinano le condotte di culture straniere senza modificare o rendere opache le norme su cui si erigono le immagini e le forme di vita di categorizzazioni esperienziale alternative143.

143 D’altro canto se non si accettasse il rischio di perdere una «parte» del significato di una parola nel

processo di traduzione, si finirebbe col rinunciare a qualsiasi tentativo di confronto e comunicazione tra culture. Infatti, se è vero che l’abbandono di molti (se non di tutti i) nostri concetti e giudizi è condizione necessaria per la comprensione di formazioni concettuali alternative, lo è altrettanto il fatto che il loro completo rifiuto finirebbe con il rendere impossibile lo stesso procedimento di confronto. «Quanto più riusciamo a proiettarci in tale mondo, tanto meno ci rimane dei termini in cui potremmo trovarlo comprensibile» (Stroud 1965 in Andronico, Marconi, Penco 1988: p. 159). Per queste ragioni, alcuni interpreti (ad esempio Stroud 1965, Coliva 2010, Morawetz 1978) hanno insistito nel ribadire che gli esempi chiamati in causa da Wittgenstein non servono tanto a evidenziare il nostro potere di immaginare, nel dettaglio, concetti realmente alternativi ai nostri, ma a porre in evidenza la loro casualità, il fatto ovvero che se fosse possibile, in linea di principio, immaginarne di diversi, saremmo in grado di comprenderli (sebbene limitatamente; cfr. PU: II, p. 299). Stroud (1965) inoltre osserva che la chiarezza degli esempi wittgensteiniani svanisce laddove si tenta di studiare che tipo di relazione essi possono intrattenere con tutta un’altra serie di pratiche e di usi linguistici a noi incomparabilmente distanti. Egli osserva che la concepibilità delle forme di vita immaginate da Wittgenstein regge solo nella misura in cui sono considerate isolatamente e non anche nel complesso delle azioni che a esse sono legate e che possono venire immaginate per mezzo della nostra capacità di proiettarci in esse: «Pensiamo di poterli capire e accettare [gli esempi wittgensteiniani] come rappresentazioni di vere alternative perché le conseguenze non immediate del contare, calcolare, ect. in […] modi devianti non sono messe esplicitamente in luce. Quando cerchiamo di determinare le implicazioni a largo raggio di comportamenti così coerenti e generalizzati, la nostra comprensione di queste pretese possibilità svanisce» (Stroud 1965 in Andronico, Marconi, Penco 1988: p. 158). È difficile capire esattamente cosa intende Stroud, in questo passaggio. Egli infatti sembra alludere a una nostra (sua?) incapacità di immaginare l’insieme delle conseguenze che deriverebbe dall’ammettere la plausibilità di forme di vita wittgensteiniane alternative (farebbe in altri termini riferimento a un limite delle nostre facoltà immaginative); ma letta in un altro modo, la stessa affermazione sembra riferirsi a una sorta di confine semantico implicito nel linguaggio che impedirebbe, per sua essenza, o meglio per il legame che intrattiene con ciò che gli individui riconoscono come naturale, la possibilità di immaginare l’applicazione di regole e concetti in modo difforme dall’ordinario (cfr. anche Phillips 1977; Gier 1981). «L’unico senso che è stato dato all’affermazione che “qualcuno potrebbe rispondere come un essere razionale e tuttavia non giocare il nostro gioco” [BGM: I, §115] è che avrebbero potuto esistere esseri diversi da noi, che gli abitanti della Terra avrebbero potuto giungere a pensare e a comportarsi in modi diversi da quelli attuali. Ma questo non implica che quando ci sono date le istruzioni “Aggiungi 2”, siamo liberi di mettere dopo “1000” qualunque cosa ci vada di mettere o che è la nostra decisione di mettere “1002” a farne il passo corretto» (Stroud 1965 in Andronico, Marconi, Penco 1988: p. 159; cfr. anche Cap. 3: § 1.2). Pertanto, Stroud ribadisce che, al netto dei nostri tentativi di spersonalizzazione culturale, l’intento di →ittgenstein è solo quello di mostrare la possibilità logica di questa alternativa e non anche il suo specifico contenuto empirico: il fatto che in linea di principio, per via della contingenza della nostra storia naturale e non di decisioni arbitrarie, è possibile immaginare rappresentazioni del mondo (e quindi forme di vita) alternative alla nostra (anche se quest’ultima rimane, a suo avviso, l’unica realmente esistente). «Ma noi possiamo comprendere e riconoscere la contingenza di questo fatto, e quindi la possibilità di modi diversi di calcolare, etc., senza per questo comprendere quali avrebbero potuto essere questi modi diversi. Se è così, allora non ne consegue che quelle regole mediante le quali si sarebbe potuto calcolare, ect. costituiscono un insieme di vere alternative tra le

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La possibilità di produrre una tale serie di analogie è pertanto qualcosa che non può essere ricondotta al frutto di una ricerca sull’essenza del significato, né a un dato oggettivo che lasci pensare, ad esempio, all’esistenza di uno sfondo pragmatico condiviso, o a un nucleo parzialmente immutabile di rituali antropologici. A differenza che per le indagini goethiane, volte all’individuazione del prototipo ideale originario delle forme naturali, Wittgenstein non ritiene che per la comprensione delle prassi occorra individuare una forma archetipa di confronto; né che per ritradurre la diversità delle procedure sia necessario fare riferimento a unico modello di paragone. Nelle sue riflessioni sulle forme di vita più volte emerge un’oscillazione tra la natura empirica delle sue ricerche, talvolta accostate a indagini di tipo antropologico (come ad esempio testimonia il seguente passo:

«I selvaggi hanno giochi [o almeno, li chiamano così] per i quali non possiedono regole scritte, né liste di regole. Ora, immaginiamo l’attività di un esploratore che attraversa le terre di questi popoli redigendo liste di regole dei loro giochi. Ciò è del tutto analogo a ciò che fa il filosofo» BT: XII, §17)

e il tratto prettamente possibilista della ricerca grammaticale:

“Filosofia” potrebbe anche chiamarsi tutto ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta o invenzione» (PU: §127).

È come se in un certo senso, nella sua rappresentazione dell’alterità si sovrapponessero due esigenze contrastanti: da una parte il dovere di attenersi a quanto la realtà delle condotte umane si limita a mettere dinanzi agli occhi: il fatto ovvero che «noi», in quanto esseri umani, «agiamo così» e non possiamo che agire «così»; dall’altra l’esigenza di rinunciare a intravedere in questo fatto una spiegazione o un modello di correttezza universale applicabile a tutte le forme di vita umane. Come si è infatti detto in precedenza, a proposito della possibilità di distinguere due possibili declinazioni del termine «natura», nell’interpretazione wittgensteiniana non vi sono solo modelli di esecuzione normativa strettamente imparentati con i fatti antropologici di base (le regole matematiche, le

quali potremmo ancora scegliere, o tra le quali avremmo potuto scegliere. […] comprendere la regola nel modo in cui noi la comprendiamo dipende da cose quali trovare naturale continuare con “1002” subito dopo “1000” [la successione dei numeri “n+2”]. Il fatto che qui compiamo tale passo è un fatto contingente, ma non è il risultato di una decisione; non è una convenzione alla quale esistano alternative che potremmo scegliere. E lo stesso fatto che noi condividiamo tali “giudizi” (quali che possano essere) è anch’esso un fatto contingente, ma senza questo accordo la comprensione di regole sarebbe impossibile» (Stroud 1965 in Andronico, Marconi, Penco 1988: pp. 159, 161; corsivi miei).

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ostensioni, le deduzioni logiche, ecc.), ma anche schemi di esecuzione che si riproducono in maniera altrettanto istintiva nelle prassi di una determinata comunità, modelli di riproduzione delle norme che sono legati alle contingenze delle interpretazioni e delle trasformazioni di istituti e modi di agire collettivi. «Naturali» sono in altri termini non solo quei comportamenti che si manifestano in uno stadio primitivo dell’umanità, prima ovvero di qualsiasi processo di civilizzazione e simbolizzazione normativa, ma anche tutte quelle condotte che si riproducono in maniera immediata nelle pratiche di comunità sociali, in tutti quei modi di agire che si manifestano con logiche differenti in gesti specificatamente umani, quali l’eseguire una successione, il misurare la legna, o il vendere oggetti. È per questa ragione che la posizione di Wittgenstein non consente di trarre conclusioni assiologiche sulle diversità delle forme di vita né di parlare, in un senso che non sia comparativo, di procedure corrette e procedure non corrette. La difficoltà di ritradurre in un linguaggio terzo gli standard di applicazione di un concetto che sembra possedere una molteplicità di somiglianze e affinità con i nostri, consiste nel non sapere esattamente come intendere il contenuto degli esperimenti mentali proposti, nel non saper cioè disambiguare il ruolo che l’immaginazione ricopre in suddette procedure inventive: se il suo scopo è di porci dinanzi a una strategia che vuole mostrare quanto sia precaria e infondata la nostra unica immagine del mondo, quella di noi esseri umani (cfr. Coliva 2010: pp. 22-23; Stroud 1988), o se invece il suo intento è di effettuare un confronto tra le configurazioni delle nostre plurali forme di vita e le prassi istituzionalizzate di culture concretamente esistenti e diverse dalle nostre. Qualora dovessimo ritenere che il primo caso fosse quello maggiormente vicino agli scopi degli esperimenti wittgensteiniani, e che quindi l’uso dell’immaginazione fosse esclusivamente metodologico144, si dovrebbe dire che il ricorso a suddette immagini sarebbe esclusivamente volto a renderci maggiormente consapevoli di ciò che noi siamo, e che quindi l’obiettivo della ricerca di →ittgenstein consisterebbe nel riportarci sul terreno duro e scabro delle nostre esistenze precarie (si immaginano forme di vita diverse per indirizzare lo sguardo su tutti quegli eventi che ci sono da sempre «sotto gli occhi» [cfr. PU: §129], fatti così straordinariamente ordinari da non essere presi in seria considerazione per via della loro eccessiva banalità, come ad esempio lo sono tutte le asserzioni, le prassi e le procedure che sostanziano le immagini del mondo); qualora, al contrario, l’impiego degli esperimenti fosse esclusivamente di confrontare, su di un piano empirico, la nostra singolare forma di vita con culture reali o delle quali si ignora l’esistenza, occorrerà riconoscere che il ruolo dell’immaginazione non consiste tanto ed

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esclusivamente nel mettere a nudo la struttura grammaticale dei nostri giochi linguistici, ma nel trovare sentieri o immagini ideal-tipiche capaci di creare ponti e connessioni, nessi e collegamenti tra procedure e schemi pragmatici spesso difficilmente comparabili. Se quindi nel primo caso l’effetto è di renderci maggiormente consapevoli dei limiti contingenti delle nostre procedure linguistiche attraverso l’invenzione di forme di vita che ospitano al loro interno usi «fittizi» degli stessi concetti che sono in uso nelle nostre («Nulla è più importante della formazione di concetti fittizi che ci insegnano a capire quelli che già abbiamo; ↑B: p. 137), nel secondo l’attenzione sembra essere rivolta a illustrare le difficoltà che derivano dal confrontare prassi che se da un lato esibiscono il panorama molteplice delle loro diverse forme linguistico-culturali, dall’altro mettono a dura prova il modo in cui la rappresentazione delle analogie e delle somiglianze può essere realizzata