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3 Le forme di vita nelle «Ricerche filosofiche»

3.4 L’interpretazione biologica

Per venire invece al tema delle «forme di vita» occorre guardare più attentamente al testo in cui è possibile incontrarne il maggior numero di ricorrenze, ovvero a PU. Qui il termine si trova impiegato solo 5 volte: tre nella prima parte (quella composta presumibilmente negli anni che vanno dal ’41 al ’46) e due, nella seconda (la sezione completata tra il ’47 e il ’49 in Irlanda). Tale uso avviene in un modo che difficilmente può essere definito univoco. Da una parte, infatti, Wittgenstein sembra fare riferimento a un contesto culturale d’uso (dei giochi) del linguaggio, ovvero a una modalità di impiego dei concetti basata sull’insieme mutevole della attività riconosciute (e immaginate) come fondanti da una comunità linguistica (PU: §19; §23; §241):

«È facile immaginare un linguaggio che consista soltanto di informazioni e di ordini dati in combattimento. – O un linguaggio che consista soltanto di domande e di un’espressione per dire sì e no. E innumerevoli altri. --- E immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita» (PU: § 19);

«Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? – Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differente d’impiego di tutto ciò che chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (←n’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica). Qui la parola “gioco linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita» (PU: § 23);

«“Così, dunque, tu dici che è la che è la concordanza fra gli uomini a decidere che cosa è vero e che cosa è falso!”. – Vero e falso è ciò che gli uomini dicono; e nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni, ma delle forma di vita» (PU: §241);

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Dall’altra parte, invece, egli sembra fare riferimento all’aspetto fattuale delle

Lebensformen: all’idea cioè che al di sotto dei giochi linguistici via sia un dato non

articolabile, né descrivibile, urtando contro il quale il filosofo è in grado di comprendere il limite e il senso del suo agire:

«Il cane crede che il padrone sia alla porta. Ma può anche credere che il padrone arriverà dopodomani? E che cosa non può fare? – Come lo faccio io? – Che cosa devo rispondere a questa domanda? Può sperare solo colui che può parlare? Solo colui che è padrone dell’impiego di un linguaggio. Cioè, i fenomeni dello sperare sono modificazioni di questa complicata forma di vita. (Un concetto che si riferisca a un carattere della scrittura umana, non può essere applicato a esseri che non posseggono la scrittura)» (PU: II, p. 229);

«Ciò che si deve accettare, il dato, sono – potremmo dire – forme di vita» (PU: II, p. 295)39.

Limitandoci, per il momento, a uno sguardo di insieme sulle citazioni elencate non si può non notare la possibilità che anche nei primi tre riferimenti si possa leggere oltre a un significato «culturale» delle forme di vita, anche un rimando a una sfera d’azione che può essere definita in un senso lato «biologica». Nei paragrafi §19 e §23, Wittgenstein fa due affermazioni che a dispetto della loro apparente identità sono interpretabili in modi diversi. Nella prima (PU: §19), appare chiaro il legame che sussiste tra i concetti di «forme di vita» e «immaginazione» e dunque la coincidenza tra una certa configurazione grammaticale delle pratiche e quella di una cultura che con esse si identifica. Il concetto di «immaginazione» è qui posto a diretto contatto con il lato contingente delle Lebensformen, nonché con la possibilità di trasformarle o abbandonarle. Immaginare, per Wittgenstein, sembra esprimere cioè sia la capacità di collegare le nostre parole con quelle che una determinata cultura esprime con (e per) noi (cfr. Cavell 1998: p. 65) sia il potere di estendere la nostra capacità immaginativa al di là di quella a cui una certa visione delle cose ci vincola attraverso la normalizzazione delle prassi linguistiche. (cfr. Cap. 2: §5).

39 Se questa suddivisione è corretta, o per lo meno plausibile, lo è in modo tale che non può essere

considerata né in maniera rigida, né in maniera per così dire «evolutiva» (come se cioè vi fosse una evoluzione e una maturazione di certe riflessioni sul concetto di «forma di vita»). Non si deve pensare, in altre parole, che →ittgenstein abbia in mente di dedicare una prima parte della sua opera all’analisi del significato culturale delle Lebensformen e un’altra, alla descrizione dei suoi tratti più propriamente naturali. Lo scopo di questa divisione è piuttosto di far risaltare il suo interesse per la dimensione antropologica degli usi linguistici che, a mio avviso, spicca con maggiore evidenza solo negli ultimi anni della sua vita e, in particolare nelle riflessioni sulla psicologia e la matematica. Non si vuole suggerire quindi che le forme di vita ricevano una formulazione più compiuta a partire dalla seconda parte di PU, ma che occorre considerare queste accezioni come testimonianze di un cambio di prospettiva da parte di Wittgenstein.

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Nella seconda, invece (PU: §23), tale identità sembra variare in funzione del riconoscimento di una maggiore estensione delle «forme di vita» rispetto alle prassi verbali. Wittgenstein non scrive che linguaggio e forme di vita coincidono, bensì che «il parlare il linguaggio fa parte di un’attività» – o appunto «di una forma di vita»; (Ibidem) – e che quindi l’attività linguistica si delinea su uno sfondo di azione più ampio del linguaggio, della quale quest’ultimo costituisce solo una parte. Egli cala, in altri termini, gli Sprachspiele in un contesto pragmatico maggiormente esteso di quello composto dalla sola componente linguistica, e in cui quindi l’esplicitazione degli atti è legata alle nostre attività di esseri umani (comandare, descrivere, costruire, riferire, fare congetture, elaborare un’ipotesi, rappresentare i risultati di un esperimento, inventare e leggere una storia, recitare, cantare, sciogliere indovinelli, raccontare risolvere un problema, tradurre, chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare; Cfr. PU: §23). Tali tipi di condotta difficilmente si possono ricollegare a un ipotetico intento da parte di Wittgenstein di dividere i comportamenti più propriamente istintivi, ovvero non bisognosi di addestramento in quanto per così dire «innati» nell’individuo, dalle prassi che invece esprimono gli abiti e le forme di ciò che chiamiamo «cultura». Si può anzi credere che egli non fosse minimamente interessato a identificare tra loro azioni classificabili in tal senso e che anzi, proprio per la insensatezza (e forse anche la difficoltà) di isolare le componenti sociali e naturali di ogni agire, ritenesse tale operazione del tutto priva di interesse40 se non addirittura futile. Tale sovrapposizione, tuttavia, sembra essere suggerita qualche riga successiva, a proposito di una possibile analogia che Wittgenstein riscontra tra i modi di agire prettamente umani e i comportamenti pre-linguistici istintivi degli animali. Dopo aver asserito che in questi ultimi non si incontrano «facoltà spirituali», nella misura i cui è

40 Come sarebbe possibile infatti descrivere alcune azioni come il comandare il pregare, il raccontare, il

cantare, ecc., in un’accezione esclusivamente sociale o biologica ? Come si potrebbe in altri termini tracciare lo spartiacque tra un’azione (ritenuta) ascrivibile al patrimonio genetico-biologico dell’uomo, ovvero innata e presente nel bagaglio delle sue reazioni istintive, e un’azione che invece sorge come l’esclusivo risultato di una possibile configurazione sociale della vita? La tendenza a dare degli ordini è un certamente, in alcuni ambiti, un modo istintivo del comportamento umano. In molti casi, anzi, è persino necessario che vi sia qualcuno o un’entità in grado di esercitare il suo potere per governare o gestire la condotta degli uomini. Tuttavia, la naturalità che riconosciamo a questo tipo di condotta è diversa da quella che siamo disposti ad attribuire ad altri comportamenti altrettanto naturali, come il correre, il mangiare o il dormire. Mentre infatti questi ultimi possono essere svolti anche in completa solitudine, senza cioè l’apprendimento delle regole del loro impiego, i comportamenti elencati da Wittgenstein (comandare, obbedire, raccontare, calcolare, misurare, giudicare, ecc.) non possono essere fatti rientrare in uno dei poli della dicotomia natura/cultura e anzi, sembrano collocabili su una soglia difficilmente identificabile. Come infatti, vedremo più avanti, è possibile leggere il significato dell’uso del termine «naturale» anche in un’accezione sociale più ampia, che abbraccia al suo interno oltre che le reazioni istintive di base condivise con il regno animale anche quei comportamenti tipici dell’uomo che possono essere definiti naturali in senso più ampio e che non escludono la possibilità di agire in modo altrettanto istintivo anche in quei casi in cui si è dinanzi ad applicazioni normative di concetti e prassi.

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preclusa loro la parola e quindi, in senso lato, il pensiero («”non pensano e pertanto non parlano”»; PU :§25), Wittgenstein sembra ammettere per essi la possibilità di condividere con gli uomini alcune forme «primitive» di linguaggio e pertanto certi usi elementari della comunicazione pre-linguistica. Nel paragrafo §25 egli fa riferimento, inoltre, ad alcune attività tipiche umane come «il comandare, l’interrogare, il raccontare, il chiacchierare» (Ibidem), già apparse qualche pagina prima a proposito dei possibili usi non rappresentativi del linguaggio e che in tale contesto sono citate per essere poste sullo stesso piano di altre azioni condivise con gli animali («il camminare, il mangiare, il bere e il giocare») le quali a loro volta si trovano «a far parte» di ciò che PU chiama la «nostra storia naturale»41:

«Talvolta si dice: gli animali non parlano perché mancano loro le facoltà spirituali. E questo vuol dire: “non pensano, e pertanto non parlano”. Ma appunto: non parlano. O meglio: non impiegano il linguaggio – se si eccettuano le forme linguistiche più primitive. – Il comandare, l’interrogare, il raccontare, il chiacchierare, fanno parte della nostra storia naturale come il camminare, il mangiar, il bere, il giocare» (PU: §25; corsivo mio).

Il fatto inoltre che in PU ricorra di nuovo l’espressione «fare parte di» per indicare l’appartenenza dei giochi primitivi del linguaggio alle forme di vita, suggerisce che Wittgenstein non abbia in mente l’idea di una perfetta coincidenza tra di esse, e che anzi sia proteso verso la nozione di una loro contemporanea separazione e connessione, come del resto sembra venire ribadito, in modo esplicito, anche all’inizio della seconda parte di PU per i fenomeni dell’attesa e della speranza, (da lui definiti «modificazioni» della forma di vita, ovvero trasformazioni culturali di quegli atteggiamenti innati e condivisi con gli animali (e forse con altri esseri viventi), a cui noi ci riferiamo nell’usare il termine «sperare», o quando più propriamente «speriamo»42; PU: II, p. 229). Tale divisione,

41 Wittgenstein non sempre appare coerente a riguardo. Egli afferma, ad esempio, in BPP, che i «fatti della

storia naturale» sono quelli che indicano «più o meno la differenza dell’uomo dalle altre specie animali» (BPP: II, §18) ad esempio, il pensare, il provare sentimenti, ecc., o altri tipi di attività come «il seguire una regola» «il dare una definizione», il «misurare» e i suoi relativi concetti (PU: I, §1109), ovvero l’insieme di tutti quei fatti che se in PU lasciano aperta la possibilità di considerare la condivisione del medesimo dato biologico da parte di uomini e animali, in BPP specificano la distanza dei primi dalle forme di vita dei secondi. Un ulteriore riferimento alla «storia naturale degli uomini» si trova inoltre nel paragrafo §415 di PU in cui Wittgenstein identifica, di nuovo, il compito del filosofo con la descrizione imparziale dei fatti che comunemente gli si trovano «sott’occhio»: «Ciò che noi forniamo sono, propriamente, osservazioni sulla storia naturale degli uomini; non però curiosità, ma costatazioni di cui mai nessuno ha dubitato e che sfuggono all’attenzione perché ci stanno continuamente sott’occhio» (P←: §415); ma anche in BT: «Di certo si potrebbero considerare le regole del gioco degli scacchi come proposizioni della storia naturale degli uomini. (Così come i giochi degli animali vengono descritti nei libri di storia naturale)» (BT: XII, §87).

42 La speranza, infatti, come in generale tutti i fenomeni intenzionali (quali il «significare», il «desiderare»,

l’«aspettare», il «congetturare», l’«ipotizzare», ecc), è possibile solo all’interno del linguaggio, lì dove cioè «aspettazione e adempimento si toccano» (PU: §445). Essa è resa possibile dalla relazione interna stabilita

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pertanto, proprio per la difficoltà di discernere con nettezza azioni naturali e azioni sociali risulta impura lasciando supporre, con buona pace degli interpreti monisti, che le forme di vita a cui Wittgenstein si riferisce siano da ascriversi più che a un ambito esclusivamente linguistico, o se si vuole trascendentale (in cui cioè linguaggio e forme di vita coincidono) a uno che abbraccia al suo interno la possibilità di concepire comportamenti e reazioni che non sono di dominio esclusivo degli uomini ma che possono essere condivisi, a un livello biologico elementare, anche da altri esseri viventi (o da un’ulteriore forma di vita non identificata). Detto in altre parole: se la lettura monista tende a individuare, in ciascuna espressione delle forme di vita, le condizioni di senso di ogni asserto linguistico, e dunque a ricondurre a un’unica immagine del mondo la complessità variabile delle diverse rappresentazioni dei fatti sociali e naturali degli eventi, quella «empirico-plurale» si occupa di porre in risalto la molteplicità delle Lebensformen anche su di un piano propriamente biologico che abbraccia, al di là delle pratiche ordinarie cristallizzate nelle varie culture, il complesso di tutti quegli atteggiamenti e reazioni che legano uomini e animali in una comune «storia». Quest’ultima quindi non si limita a definire la pluralità delle forme di vita attraverso il mero riconoscimento della dipendenza delle prassi linguistiche dai modi sociali di impiego delle norme che disciplinano l’uso delle parole (e delle azioni) di una determinata collettività, ma ne mette in risalto il carattere molteplice per mezzo dell’ammissione, non sempre esplicitata, della possibilità di ricomprendere al loro interno tutti quei modi di agire e reagire che definiscono l’intreccio della dimensione umana con quella animale. La molteplicità in altri termini, non riguarda solo il piano delle differenti rappresentazioni culturali ma anche quella che è possibile riscontrare, su un piano istintivo naturale, nelle forme di vita propriamente non umane.

dalla grammatica del linguaggio la quale è l’unica in grado di prescrivere cosa rappresenta una soddisfazione delle nostre aspettative e cosa invece una delusione. Questa definizione concettuale degli atti intenzionali, del resto, non giunge come una riflessione inedita nell’opera del ’53. Essa ha infatti ha alcune enunciazioni molto simili in due passi di pochi anni distanti tra di loro: «Io vedo che l’azalea è rossa. In questo senso vedo anche non è blu. Non è che la mia conclusione si allacci a ciò che è visto: – no, io l’apprendo immediatamente in ciò che vedo. L’evento che subentra all’aspettativa le dà una risposta; vale a dire che nel subentrarle consiste il darle una risposta. Non può quindi sussistere il problema se si tratti realmente della risposta» (WWK: p. 87); «L’aspettativa di p e il verificarsi di p corrispondono pressappoco alla forma vuota di un corpo e alla sua forma piena. Qui p corrisponde alla forma del volume, e i modi differenti nei quali questa forma è data corrispondono alla distinzione tra l’aspettativa e il suo verificarsi» (PB: §34; cfr. anche §56). Come osserva inoltre Gargani (2008), nella descrizione del carattere concettuale degli atti intenzionali si intravede, oltre che la volontà da parte di Wittgenstein di descrivere in termini esclusivamente linguistici i nostri rapporti con il desiderio e il suo soddisfacimento, anche la critica alla concezione russelliana (Russell 1921) del soggetto, secondo la quale il soddisfacimento dell’aspettativa, tanto di un desiderio quanto di una congettura, risiede in una relazione a tre, esterna, tra «il pensiero o la proposizione» (the thought or proposition) presente nella mente dell’individuo, il «fatto» (the fact) e un terzo evento (a third event) che rappresenta il «soddisfacimento dell’aspettativa» (the fulfilment of the expectation). (cfr. Russell 1921: pp. 75-76 e Gargani 2008: p. XX-XXV).

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