3 Le forme di vita nelle «Ricerche filosofiche»
3.6 L’approccio organicista: l’interpretazione di Hunter
Come si è detto, sono due le vie attraverso cui è possibile definire in termini plurali il rapporto tra giochi del linguaggio e forme di vita: o ammettendo la contemporanea esistenza di un unico sistema biologico di attività umane e di una varietà di culture che trova in essa lo sfondo delle proprie prassi; o riconoscendo il paradigma della molteplicità anche su un lato più strutturale delle Lebensformen che contempla, al di là dei comportamenti basilari degli esseri umani, anche le reazioni di altri esseri viventi che condividono con i primi una comune storia naturale. In altre parole, o a essere plurali sono solo i modelli sociali in base ai quali gli individui organizzano le loro vite, oppure a esserlo sono anche quelle forme del vivere associato che non specificano solo i caratteri invarianti degli umani (soggetti tuttavia, a loro volta, a una storia), ma anche quelli di tutti gli esseri che condividono con i primi lo stesso ambiente (gli animali) o le cui qualità sono ancora in attesa di essere definite o scoperte (forme di vita aliene, e forme di vita post-umane).
L’idea che le forme di vita possiedano un carattere plurale non solo sul piano delle manifestazioni culturali, ma anche sul versante biologico è stata sostenuta da Hunter in un
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suo celebre saggio (Hunter 1968)54. In esso, Hunter definisce in termini naturalistici il significato delle forme di vita riferendo a esse le caratteristiche «tipiche» di un essere vivente («something typical of a living being»; Hunter 1968: p. 235) come la crescita, la nutrizione, i movimenti, le reazioni all’ambiente, ecc., senza premurarsi di distinguere le forme di vita propriamente umane da quelle animali (o vegetali), e anzi inscrivendo le prime in una linea di continuità biologica con le seconde. Hunter definisce tale insieme di comportamenti con il termine «organic accounts», specificando con esso tre caratteristiche rilevanti del linguaggio: 1) il tratto formativo del processo di apprendimento delle parole («the “molding and shaping” process»; Ibidem), simile più all’addestramento di un
organismo vivente («training of organism»; Ibidem) che alla programmazione di un computer55, sulla scorta di quanto avviene, ad esempio, nell’apprendimento della danza56; 2) la capacità di rispondere in maniera «immediata» a una situazione, ovvero senza deduzione o ragionamento logico57 (una sorta di reazione istintiva che Hunter paragona al nostro togliere la mano al contatto con il fuoco o con un oggetto rovente58); 3) l’«auto- sufficienza»59 linguistica (Hunter 1969: p. 236), vale a dire, la capacità verbale di esprimere stati psicologici d’esperienza indipendentemente da qualsiasi ricorso o rimando
54 Hunter dà 4 possibili interpretazioni delle forme di vita. Egli le definisce in particolare come 1) un gioco
linguistico («a form of life is the same thing as a language-game» Hunter 1968: p. 233); 2) un «pacchetto» di tendenze (correlate) a comportarsi in vari modi («a package of mutually related tendencies to behave in
various ways: to have certain facial expression and make certain gestures, to do certain things count apples or help people, and to say certain things»; Hunter 1968: p. 234), là dove con «correlate» si deve intendere «il senso attraverso cui si dispiegano certi gesti o si eseguono determinate azioni» come accade, ad esempio, quando nel dare la colpa a qualcuno ci riferiamo al «set dei comportamenti che definiscono il dare la colpa a qualcuno» (ibidem); 3) uno stile di vita («a way of life»; Hunter 1968: Ibidem; cfr. anche Winch 1958: p. 103); 4) qualcosa di tipico di un essere vivente.
55 Hunter cita diverse osservazioni wittgensteiniane a sostengo della sua tesi, in particolare: PU: §29, §87,
§69, §75, §189, §208, §210, §362, §495, §630.
56 «[…] which is a matter of conditioning the organism to respond in complex and artful ways, rather than of being provided with the key to, or the system governing, these complex ways of behaving» (Hunter 1968: p. 236).
57 Qui Hunter non ci vuole suggerire che ogni azione sia sprovvista di ragione o intento, quasi fossimo degli
esseri a cui manca la capacità di giustificare i propri comportamenti, ma che il modo in cui apprendiamo a giudicare e a reagire, spesso, non deriva da un processo di deduzione logica, ma da un fare che si svolge con la stessa immediatezza con la quale ad esempio togliamo la mano dal fuoco o scappiamo di fronte a situazioni di pericolo: «It is like the way we withdraw our hand from a hot object: we do not think “Heat only hurts when it is close, therefore keep away”,and hence withdraw, but do so immediately and without thought» (Hunter 1968: p. 236). Secondo Hunter, in altre parole, i nostri comportamenti linguistici (e non linguistici) non possono trovare spiegazione nell’esistenza di specifiche strutture ideali in quanto essi sono stati appresi mediante l’esempio e la ripetizione attraverso ovvero l’attuazione di schemi biologici innati. Ecco perché a suo avviso, è solo con il riconoscimento della natura istintiva dei comportamenti e delle prassi verbali che è possibile imparare a eseguire correttamente i giudizi: «He [Wittgenstein] seems rather to be
saying that one just learns correct judgments: learns to perform correctly» (Ibidem).
58 Hunter si riferisce al paragrafo §244 di PU, in cui viene descritto il modo attraverso cui il bambino impara
a esprimere le sue sensazioni di dolore. Egli cita tutta una serie di osservazioni sul grido, sul gemito, sull’intenzione e sul riconoscimento del colore, per mostrare che lo scopo di Wittgenstein è di pensare la prassi nella sua immediatezza, sì da fare a meno dei tratti logicamente mediati della deduzione razionale (Cfr. PU: §271, §290, §§377-381, §659; II; p. 195).
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a strutture cognitive interne («le parole sono di per sé sufficienti»; Ibidem)60. Hunter osserva che una delle cause per cui tendiamo a descrivere il linguaggio come un qualcosa di «non naturale» deriva dal fatto che consideriamo le nostre facoltà locutorie come il «prodotto ultimo dell’evoluzione della specie umana» e che per questo avvertiamo la capacità di articolare suoni come un qualcosa di estraneo o artificiale, quasi si trattasse di un appendice delle pratiche pre-linguistiche primitive umane (ragion per cui, spesso, si è teso a vedere nelle forme di vita il dato biologico originario dei giochi del linguaggio). Se invece riuscissimo a descrivere il linguaggio in termini biologici, come facciamo con tutti i comportamenti dei quali non si ha difficoltà a predicare il carattere naturale, la sua «auto- sufficienza – prosegue Hunter – potrebbe essere vista per la prima volta come ovvia e rispondente alle nostre aspettative» sulle facoltà istintive degli uomini (Hunter 1969: p. 237).
Bisogna tuttavia stare attenti a evitare di riferire l’aggettivo «organico» a una parte o a un’area specifica del cervello che si ritiene sia deputata al linguaggio (come ad esempio fa Chomsky con la sua teoria della grammatica universale 61). Quando Hunter dice che l’uso
60 «We don’t need to imagine a room to understand the description of a room; we do not need a sample of pain or yellowness to understand what “pain” or “yellow” means; we do not need to translate an expression into another expression, and we do not need to guess, or interpret, or apply rules: we understand language just as it stands» (Hunter 1968: p. 236).
61 Per Chomsky, come è noto, il linguaggio è parte della dotazione biologica dell’uomo, ovvero del suo
patrimonio genetico. Esso coincide con «lo stato di un certo componente della mente che chiamiamo “facoltà del linguaggio”» (Chomsky 2005a: p. 2), o se si vuole con una funzione innata, paragonabile per complessità «ai sistemi visivi dei mammiferi o ai sistemi di navigazione degli insetti» (Ibidem), e il cui processo di sviluppo è dettato dalle tappe programmate dal genoma umano. Chomsky paragona, in più sedi, la maturazione del linguaggio al modo con cui un organo, attraverso un apporto limitato dall’ambiente esterno, ridotto spesso al solo input nutritivo, è in grado di crescere e formarsi. Egli è convinto che nello sviluppo dell’organismo umano, l’ambiente (la società o il mondo naturale) ricopra un ruolo marginale poiché si limita esclusivamente a offrire gli stimoli «affinché i processi geneticamente determinati si sviluppino nel modo in cui sono stati programmati per svilupparsi» (Chomsky 1991), e non anche a determinare in modo significativo l’esito dei processi biologici di maturazione. Questi processi definiscono la natura «essenziale» dell’uomo e, in quanto innati, consentono di portare a compimento in maniera indipendente le tappe di formazione biologica programmate nel genoma. In tal senso, a differenza di Wittgenstein, Chomsky ridimensiona fortemente l’importanza dei processi sociali di apprendimento delle lingue, attribuendo lo sviluppo delle capacità linguistiche umane alla sola natura biologica: «ho enfatizzato i fatti biologici e non ho detto niente sui fatti sociali e storici. Non dirò niente riguardo a questi elementi nell’acquisizione del linguaggio. La ragione è che penso che siano relativamente poco importanti. Per quanto ne sappia, lo sviluppo delle capacità mentali umane è ampiamente determinato dalla nostra natura biologica interiore. Nel caso delle capacità naturali come il linguaggio, questa capacità si realizza semplicemente così come si impara a camminare. In altri termini, il linguaggio non è qualcosa che realmente si impari. L’acquisizione del linguaggio è qualcosa che succede, non qualcosa che si compie. L’apprendimento della lingua è simile al processo della pubertà. Non si impara a farlo; non lo si fa perché si vedono altre persone farlo. Si è solamente progettati a farlo in un certo periodo» (Chomsky 1991: p. 157).
La teoria linguistica di Chomsky, per ciò che pertiene i fattori genetici oggetto della «grammatica universale», data la sua complessità, non può essere riassunta in così poco spazio. La stessa idea che il processo di apprendimento sociale non giochi alcun ruolo nella maturazione della capacità linguistiche sembra soggetta a diverse tensioni. Tra i fattori che a suo avviso concorrono a introdurre «variazioni» (cfr. Chomsky 2005a) nei principi universali che presiedono all’apprendimento delle lingue rientrano senz’altro quelli storici e sociali, i quali a dispetto del ruolo marginale attribuitogli inizialmente, vanno acquisendo
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del linguaggio è «organico» non sta pensando a qualcosa di interno al corpo umano, che funzionerebbe in modo analogo a una delle sue componenti e che quindi sarebbe in grado di svilupparsi senza l’apporto del mondo esterno (come avviene per la formazione del cuore), ma alla possibilità di lavorare e di eseguire compiti «in maniera semplice»62, all’esecuzione di azioni materiali spesso svincolate da uno scopo preciso o volte, in alcuni casi, alla realizzazione di compiti ben precisi.
Egli in tal senso cita un passo di TLP, spesso trascurato dalla critica wittgensteiniana, che sembra andare per certi versi a sostegno della sua tesi, sebbene in una direzione che non sembra tenere sufficientemente conto della trasformazione della filosofia del cosiddetto «secondo Wittgenstein»:
«L’uomo possiede la capacita di costruire linguaggi, con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi. – Cosi come si parla senza sapere come i singoli suoni siano prodotti.
Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano, e non meno complicato di questo» (TLP: § 4.002).
Senza entrare nel merito della pertinenza del passo, il quale oltre a essere poco argomentato si riferisce a una visione del senso ampiamente superata in PU63, si può dire
sempre più importanza nella fase finale del suo pensiero (cfr. Hauser, Chomsky, Fitch 2002; Cimatti 2011). Chomsky, infatti, sembra non riuscire a tenere insieme il portato universale della sua grammatica, ridotta a un numero sempre più piccolo di principi biologici generali (secondo la direzione del programma minimalista degli ultimi scritti; cfr. Chomsky 2005b), con la dimensione singolare delle lingue parlate: «il problema di conciliare unità e diversità si pone in modo costante nella biologia e nella linguistica» (Cfr. Postal 2009). Del resto, se la possibilità di parlare dipendesse solo dall’attivazione (contingente) dei principi della grammatica universale, non si riuscirebbe in alcun modo a dare conto della contemporanea necessità comprovata dei processi di apprendimento delle lingue. Non esiste infatti alcun uomo che sia in grado di parlare in modo innato «Il Linguaggio»: non solo perché non è possibile in generale parlare senza imparare le parole e la grammatica di una determinata lingua, ma anche perché qualcosa come «Il Linguaggio», se esiste, non può essere propriamente appreso. Per un approfondimento del tema si rimanda a: Cimatti 2011, Chomsky 2005b, Graffi 2008, Postal 2009.
62 «Language-use may be said to be an organic process, but the interesting thing to us about organic process is that they work, and hence to us they are simple» (Hunter 1968: p. 238).
63 Qualche riga dopo aver paragonato il linguaggio a un organo, Wittgenstein attribuisce alle parole la
capacità di «travestire» il pensiero, sì da impedire il riconoscimento immediato della forma logica che soggiace al di sotto della sua manifestazione fenomenica. Così come un abito impedisce di cogliere la fisionomia del corpo – «dalla forma esteriore dell’abito non si può inferire la forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata a ben altri fini che al fine di far riconoscere la forma del corpo» (TLP: § 4.002) – allo stesso modo il linguaggio ricopre il pensiero non consentendo di coglierne l’essenza: «È umanamente impossibile desumere immediatamente la logica del linguaggio» (Ibidem). La non pertinenza di questa citazione riguarda tuttavia il contesto argomentativo all’interno della quale si trova formulata. In TLP, infatti, il significato di un’espressione è dato dalla coincidenza della forma logica del pensiero con la forma logica dei fatti e non dunque dal suo uso possibile in un gioco linguistico. Pertanto, a mio avviso, non è legittimo avvalorare la tesi dell’organicità del linguaggio facendo riferimento alle asserzioni contenute in TLP, a meno di non individuare (e pertanto giustificare) gli elementi che consentono di porre in continuità la filosofia del primo Wittgenstein con quella del secondo.
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che l’obiettivo di Hunter sia di identificare il linguaggio con il risultato dello sviluppo di una capacità istintiva espressa nei contesti di interazione tra uomini e animali (o in generale, con esseri viventi non umani). L’organicità del linguaggio consisterebbe, a suo avviso, nel rapporto immediato e diretto con le parole e le azioni di una determinata forma di vita fondata sul comune riconoscimento del valore di determinate attività. Così, quando ad esempio, nel gioco primitivo degli operai udiamo il grido «lastra», – osserva Hunter – non è necessario tradurre questa parola nella corrispondente espressione «portami una lastra», né tanto meno domandarsi a cosa essa si riferisca. Tale grido, proprio in virtù dell’autosufficienza del linguaggio, è in già in grado, da solo, di riferire l’ordine impartito, senza bisogno di ulteriori spiegazioni o interpretazioni di sorta (Hunter 1969: p. 138). E se si prova a domandare in quale modo si è in grado si saperlo, Hunter risponde che lo si è appreso mediante incoraggiamenti ed esercizi, pratiche ed esempi, analogamente al modo in cui si è imparato a mangiare, camminare o nuotare.
Un altro aspetto molto interessante del saggio riguarda, inoltre, l’analisi dell’espressione «fa parte di un’attività» all’interno del paragrafo §25 di PU. Oltre alla «interpretazione più ovvia» (Ibidem), che individua in questa affermazione il rapporto di coappartenenza tra linguaggio e comportamento, Hunter trova un secondo modo di spiegare questo legame focalizzandosi sul concetto di «attività». Egli distingue un senso classico di attività, intesa come modo di agire «comune e organizzato», quali lo sono «il basket, la falegnameria, ecc.» (Ibidem), e un altro dove a essere prevalente non è la forma che dà il nome a queste azioni ma l’azione stessa, ovvero «il giocare» (playing) o «il lavorare» (working), inteso in senso lato. Così quando Wittgenstein, ad esempio, dice che la matematica può essere intesa sia come «una teoria» sia come «un agire» (PU: II, p. 297), ovvero come un’attività che identifica il fare tipico dell’uomo (cfr. BGM: ↑, §3), egli ha in mente, nel primo caso, il nome dell’attività organizzata dal punto di vista delle sue regole formali e, nel secondo, l’agire inteso come «qualcosa che gli uomini fanno» senza premesse o deduzioni (Hunter 1969: p. 239), vale a dire in modo immediato. Analogamente, quando Wittgenstein definisce il linguaggio «parte di un’attività o di una forma di vita» egli sta pensando, più che all’insieme delle attività condivise da un gruppo di individui (disciplinato da un certo numero di norme), all’attività locutoria (speaking) presa nel suo farsi e concepita come «parte di una generale competenza» del singolo nei riguardi di ciò a cui si impegna nel parlare (oltre al giocarlo, del basket fa parte anche il parlare di esso e quindi l’impegnarsi in tutto ciò che riguarda il suo svolgimento e le sue regole).
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Proprio per questo, Hunter arriva a riferire a ciascuna forma di vita un carattere di tipo individuale. Diversamente da quanto sembra essere suggerito dal paragrafo §241 di PU64, egli trova che il riferimento wittgensteiniano sul concordare intersoggettivo si riferisca non tanto un dominio standardizzato di azioni, a partire dal quale sarebbe possibile fondare il gioco linguistico come «una forma di vita», ma a un previo e contingente accordarsi degli individui sul loro modo di pensare e agire («agreeing in the way the speak»; Hunter 1968: 240). Il fatto, quindi, che gli uomini possano andare d’accordo (o divergere) sull’impiego di un determinato concetto è dovuto, secondo Hunter, non solo alla conoscenza di ciò che in una prassi viene riconosciuto come un’evidenza a favore di un uso piuttosto che un altro (circostanza che non si verificherebbe solo nel caso in cui «il linguaggio fosse tutt’uno con le forme di vita»; Ibidem), ma anche all’evento del tutto casuale che alcuni di essi possono trovarsi d’accordo (o in disaccordo) nello svolgere un compito o nell’applicare una certa regola. È inconcepibile infatti, secondo Hunter, che una convenzione sociale stabilisca – a priori – il modo corretto di proseguire una serie numerica decidendo, per esempio, che si deve aggiungere «+4» in luogo di «+2», a partire dal numero 1000 (1000,1004, 1008, ec.) o che la corretta misura di una superficie debba essere effettuata con regoli rigidi piuttosto che con regoli elastici (cfr. BGM: I, §5). Così come, prosegue l’autore americano, non è riscontrabile nelle riflessioni wittgensteiniane alcun criterio extra-linguistico che ci possa permettere di capire cosa siano i «fenomeni dello sperare» (PU: II, p. 229), o in generale tutti le manifestazioni intenzionali che non sono riconducibili a prassi locutorie. «Noi» – scrive Hunter – «non diciamo che speriamo sulla base di un’evidenza» (Hunter 1968: p. 241), ma speriamo perché reagiamo «in questo modo» (Ibidem) a determinati eventi, perché i nostri modi di sperare fanno parte di quello «stock di risposte» con cui siamo soliti esprimere la speranza (e la disillusione) e, pertanto nel caso in cui venissero a mancare le parole per poter sperare in qualcosa o per mettere in segni i nostri stati interiori, non diremo che ciò accade perché al nostro linguaggio manca di una fondazione, quasi che il nostro parlare fosse qualcosa di «derivato» («Saying that this use of language is a form of
life is saying that it is not derivative»; Ibidem), ma perché il nostro adattamento organico («organic adaptation») è stato inefficiente nell’averci permesso di farlo precludendoci l’accesso a tutto ciò che attiene al fenomeno della «speranza».
64 «From this it might appear that it is the language which is the form of life, and that would lend support to the kind of interpretation according to which a form of life is something shared and standardized» (Hunter 1969: pp. 239-240).
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«Dal mio punto di vista è il complicato processo di adattamento organico che ci mette nella condizione di usare una parola come “speranza”, la quale è una forma di vita; e pertanto possiamo, sebbene non di frequente, usare la parola “speranza” senza che occorra nulla del fenomeno dello sperare, e possiamo trovare, confrontando varie indagini, che c’erano differenze marcate tra persona e persona. […] Ma da un altro punto di vista, la forma di vita è l’insieme (package) dei fenomeni e dell’uso della parola, e presumibilmente i costituenti di questo insieme non possono variare molto (greatly) da persona a persona, né tanto meno è possibile usare correttamente la parola in assenza di tutti i fenomeni» (Ibidem; traduzione mia).
Hunter conclude il saggio con la conseguenza diretta di questo ragionamento. Commentando i paragrafi §211, §217 e §219 di PU, in cui Wittgenstein, come vedremo, fa riferimento alla «datità» delle forme di vita, scrive che nelle prassi che definiscono l’apparizione fenomenica del loro elemento fattuale, è assente un rimando o un’allusione a uno sfondo condiviso dell’agire. A suo avviso, infatti, le forme di vita fanno riferimento a un tratto spiccatamente individuale delle condotte, le quali solo per ragioni fortuite si trovano a convergere con le regole che identificano e disciplinano i comportamenti sociali degli individui, e non per l’esistenza di un nucleo antropologico di reazioni istintive assegnate. Secondo Hunter, in altre parole, il «dato» wittgensteiniano serve a esibire non la maniera con cui una comunità agisce («the way we do it») nel seguire certe prassi (o applicare certi concetti), ma la via attraverso cui «io» agisco («the way I do it»; Hunter