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3 Le forme di vita nelle «Ricerche filosofiche»

3.7 La prospettiva fondazionalista di Conway

L’interpretazione di Hunter è certamente interessante e sotto vari profili condivisibile. Essa, come si è detto, consente di guardare alla filosofia wittgensteiniana da un punto di vista inedito e per certi versi proficuo. L’idea che il linguaggio sia paragonabile a una sorta di organismo vivente le cui forme si esprimono nei modi singolari e naturali di reagire individuali è sotto vari profili affascinante, sebbene al contempo profondamente errata o tale da non riflettere a pieno le intenzioni di Wittgenstein 66. Se una parte infatti, essa

65 L’analisi dettagliata di questi concetti verrà affrontata nel capitolo che segue.

66 A dispetto del fascino della lettura di Hunter, manca nel suo articolo, oltre che una chiarificazione

approfondita delle citazioni riportate, anche una giustificazione dei modi in cui il loro raggruppamento è in grado di costituire una prova a favore di una caratterizzazione biologica delle forme di vita. Un altro limite del saggio riguarda infine l’uso di citazioni e affermazioni prese esclusivamente da PU e non da altri testi, come ad esempio, DC, BPP o BGM dove invece le idee di Wittgenstein appaiono molto più contrastanti rispetto a quelle linearmente delineate dall’autore americano. Come infatti, proverò a dimostrare è difficile, se non insensato, cercare di trovare un’interpretazione puramente naturale o esclusivamente culturale delle

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consente di riconoscere il portato istintivo dei nostri usi verbali, sì da renderci consapevoli del carattere naturale delle pratiche apprese, dall’altra ci impedisce di cogliere il legame più ampio della dimensione biologica con la cornice istituzionale dei comportamenti, lasciando elusa l’esigenza di spiegare i nessi che sussistono tra prassi istintive e prassi normate. Quest’ultimo aspetto è invece analizzato con attenzione da Conway in un testo degli anni ’80. In esso, l’autrice attacca duramente l’articolo di Hunter proponendo, in luogo della sua lettura, una interpretazione delle forme di vita che tiene al contempo conto dei suoi errori e delle sue profonde intuizioni. Conway rimprovera a Hunter di non aver colto la dimensione collettiva delle forme di vita e di aver frainteso il senso della natura sociale dei giochi del linguaggio, identificando erroneamente il richiamo di Wittgenstein alle inclinazioni istintive dell’individuo alle descrizioni dei tratti biologici più ampi degli esseri umani (intesi come specie).

Per cercare di correggere l’impostazione di Hunter, Conway propone quindi una doppia caratterizzazione delle forme di vita introducendo una distinzione tra forma di vita di tipo «estensivo» (broad) e forma di vita di tipo «intensivo» (narrow). Secondo la prima, le forme di vita si riferirebbero a quel un sistema innato di condotte, tipiche dell’uomo, condivise dagli individui al fondo della loro «dotazione biologica» (Conway 1989: p.59). Alla base di ciascuna forma di vita sociale, vi sarebbe in altri termini una costellazione di atteggiamenti «relativamente fissati», in grado di restituire «il modo umano di vivere» (Conway 1989: p.60): il possedere una visione binoculare e stereoscopica, il percepire gli oggetti con i sensi, il possedere due mani. (Casi che definiscono al contempo il nostro punto di vista sul mondo e il suo limite; cfr. Conway 1989: p. 60) L’autrice invita inoltre a guardare a un altro senso della naturalità che pertiene a un ulteriore gruppo di atteggiamenti non da subito inscrivibili in un orizzonte biologico e che qualifica come «umane» la matrice di quei modi di agire e reagire di dominio esclusivo dell’uomo (il giocare, il desiderare, lo sperare, il lavorare, ecc.). Al di là del primo sostrato istintivo, vi sarebbe in altri termini – questa la tesi dell’autrice – un ulteriore momento dell’azione umana situato tra un’animalità tout court e un prima elaborazione condivisa degli atteggiamenti, tra una modalità innata di eseguire determinati compiti (mangiare, bere, dormire, ecc.) e un modo parzialmente sociale di svolgerli (il mangiare, il bere e il dormire possono ricoprire ruoli differenti nelle società in cui vengono appresi):

forme di vita. Inoltre, come osserva Garver (1994), Hunter non si preoccupa di analizzare la dimensione storica delle forme di vita richiamata da Wittgenstein, proprio in uno di quei paragrafi centrali di PU, in cui esplicitamente si sottolinea la continuità tra il mondo di vita umano e il mondo di vita animale. (Cfr. Garver 1994: p. 241).

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«possiamo parlare di convenzioni specifiche che non sono naturali, che non caratterizzano uniformemente tutti gli esseri umani. Tali convenzioni possono essere considerate come i particolari arrangiamenti che una specifica cultura o tribù ha trovato convenienti, data la sua situazione storica o geografica. Tali patterns della vita umana, matrici di significato, servono a differenziare i gruppi umani tra loro» (Conway 1989: p. 79, in Andronico 1998: pp. 83-84).

Conway, inoltre, attribuisce un carattere «convenzionale» ai tratti istintivi del comportamento, precisando che il concetto di «natura», come secondo lei è inteso da Wittgenstein, possiede degli aspetti differenti se non addirittura opposti a quelli classici della stabilità e della necessità. Quando l’autrice scrive che le condotte umane sono «relativamente fissate», ella sta concependo la possibilità di attribuire anche al concetto di «natura» ciò che in generale è ascrivibile alle prassi più propriamente sociali, ovvero il carattere storico e contingente che Wittgenstein mette in luce nell’accostare le condotte degli individui a quelle degli animali (tutte quelle condotte ovvero che come il camminare, il bere, il mangiare e il giocare fanno della «nostra storia naturale»; PU: §25). Se è vero quindi, da una parte, che è possibile trovare al di sotto di ciascun gioco del linguaggio un riferimento esplicito ai fatti della «storia naturale» (o se si vuole al «dato» pragmatico delle forme di vita), lo è altrettanto la circostanza che questi fatti non sono dati una volta per tutte e che anzi avrebbero potuto darsi in modo affatto diverso e estraneo a quello in atto nel presente. (Qui Wittgenstein non parla di un futuro della natura umana, ma solo della sua storia, ovvero dell’insieme delle circostanze che per una casualità o per un’altra hanno determinato i nostri attuali modi di vivere). Conway, pertanto, fornisce una lettura storico- trascendentale delle forme di vita rilevando, nel pensiero di Wittgenstein, la presenza di un’indagine sulle condizioni di possibilità del significato analoga a quella kantiana sulle forme a priori dell’intelletto, con la grossa differenza che, mentre per quest’ultima, lo scopo è di trovare nel pensiero le categorie universali ed eternamente valide per conoscere i fatti del mondo esterno, l’intento della seconda consiste nel restituire «il nucleo comune di concetti [umani] condivisi» (Conway 1989: p. 59) alla storia delle sue contingenze e delle sue accidentalità.

«Come Kant, Wittgenstein sostiene che certe asserzioni sono dette necessariamente vere perché noi, in quanto umani, non abbiamo altra scelta che quella di concettualizzare il nostro mondo in quel modo. Ma, diversamente da Kant, Wittgenstein ritiene che i limiti e le necessità del pensiero e

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del linguaggio siano radicati nei fatti psicologici, fisici e sociali concernenti le persone e il loro mondo» (Ibidem, in Andronico 1998: p. 86).

Per tale ragione, l’autrice americana sostituisce al classico termine kantiano «a priori» l’espressione «a priori concreto» (concrete a priori)67 segnalando con essa sia il debito e quindi la continuità dell’elaborazione wittgensteina con la filosofia di Kant, sia la necessità di convogliare il nostro sguardo sulla dimensione concreta e tangibile delle forme di vita («Questo a priori concreto […] anziché definire una coscienza trascendentale […] definisce una forma di vita concreta in un mondo particolare. Bisogna considerare l’a priori come sorgente dell’esperienza, piuttosto che come sovraimposto all’esperienza»; Conway 1989: p. 141, in Andronico 1998: p. 88).

La caratterizzazione «ristretta» delle forme di vita si riferisce invece ai modi con cui le culture sono in grado di organizzare e plasmare il dato biologico. Essa cioè denota quell'insieme di «convenzioni specifiche non naturali» (Conway 1989: p.79) che risultano dall’arrangiamento che una comunità trova conveniente per sopravvivere a una data situazione storica e geografica. Le forme di vita di questo tipo sono, in altri termini, le espressioni dei differenti sistemi sociali dell’agire che risultano dalla modellizzazione delle azioni e quindi più propriamente dalla trasformazione di tutti quei comportamenti che giacciono sullo sfondo pre-verbale umano che precede e (determina) la nascita del linguaggio:

«La forma di vita umana comporta certe attività caratteristiche come pensare, parlare, sperare, credere, domandare, ecc.. Comprendere altri esseri è commensurato alla condivisione o alla somiglianza delle rispettive forme di vita, dei clusters di attività condivise. Tutti gli esseri di una forma di vita particolare sono partecipi di questi tipi fondamentali di comportamento, ma il contenuto particolare, o l’espressione concreta e dettagliata di queste attività può variare. Tutti gli esseri umani credono e hanno fede, e la credenza e la fede sono sempre grammaticalmente correlate a un qualche oggetto. Tuttavia si può credere in Dio, negli dei, negli oracoli, negli indovini, nella magia o nei dettati della scienza […] Le nostre attività, in senso ampio, possono essere estese e assumere differenti forme specifiche, particolari aspetti variabili» (Conway 1989: p. 77, in Andronico 1998: p. 84).

67 «Rather than being denied, the concept of a priori is placed firmly on its feet in the later works. This concrete a priori no longer centers about a Kantian transcendental subjectivity. Here it defines a concrete form of life in a particular world rather than a transcendental consciousness. One must envision the a priori as arising in experience rather than being imposed upon experience» (Conway 1989: p. 141).

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Se è vero allora che ogni agire umano può essere interpretato in modi diversi, e che ogni comportamento pre-linguistico può essere trasformato a seconda degli interessi di una determinata cultura, lo è anche il fatto che, poiché vi è un limite alla variazione del dato biologico primordiale, non è possibile ammettere un numero indefinito di civiltà o forme sociali del vivere. Per Conway, riconoscere alternative non vuol dire solo ammettere la possibilità di modificare i comportamenti di base degli individui, i fatti della loro storia naturale, ma anche fare i conti con quegli eventi originari della vita che costituiscono un vincolo nonché una condizione stessa del nostro fare e dire; significa rendersi conto cioè che la variabilità delle costruzioni sociali è consentita solo a certe condizioni e che tali condizioni sono quelle che permettono agli uomini di condurre le loro vite in differenti modi:

«tutti gli esseri umani condividono una forma di vita fondamentale. All’interno di questa struttura fondamentale di orientamenti e di attività, esistono una diversità e una variabilità limitate di forme di vita entro cui sono giocati particolari giochi linguistici. Così la molteplicità si dà nei limiti di una unità fondamentale» (Conway 1989: p. 93, in Andronico 1998: p. 85).

L’introduzione di questa «unità» è ciò che consente a Conway di sottrarre →ittgenstein dall’accusa di relativismo68. Tale accusa può venire respinta grazie alla

68 La questione del relativismo in Wittgenstein è piuttosto complessa e non riassumibile in poche righe.

Quello che si può dire è che molti studiosi, relativisti e antirelativisti (Rorty 1979; Boghossian 2009; Phillips 1977; Lukes 1982; Hintikka e Hintikka (1986), Haller (1995) sono d’accordo nel ritenere →ittgenstein un relativista «epistemico». Alla base di questa tesi vi è l’idea che sia possibile incontrare diversi sistemi di sapere non intrinsecamente corretti, i quali, sebbene non veri in senso assoluto, da un punto di vista metafisico risultano equivalenti, ovvero non confrontabili sulla base di principi razionali neutri e oggettivamente validi. Le conoscenze espresse all’interno di tali sistemi, vale a dire l’insieme delle credenze vere e giustificate, sono gnoseologicamente situate, e come tali, non possiedono una validità assoluta ma quella che risulta dall’insieme dei criteri di giustificazione che definiscono la loro intelaiatura epistemica. Come osserva Coliva (2010), l’idea che in →ittgenstein sia presente tale forma di relativismo è suggerita dalle affermazioni contenute in UG, secondo le quali, alla base dei nostri giochi del linguaggio, in particolare di quelli epistemici, vi sarebbero tanto proposizioni «prive di fondamento» («né vere né false, né fondate né infondate, né razionali né irrazionali [UG: §§93-99; §110; §130; §166; §§196-206; §222; §307; §449; §559]; Coliva 2010: p.1), quanto «modi di agire», «teorie» e «metodi di giustificazione» (UG: § 7; §110; §144; §148; §196; §204; §232; §331; §§358-9; §395; §402; §411; §414; §431; §475; §499; §559; Cfr. Coliva 2010: p. 1), in grado di contribuire alla formazione di una determinata «immagine del mondo» (Weltbilder: UG: §§93-7; §162; §167; §233; §262). Sempre secondo l’autrice, a sostegno di questa lettura si troverebbero tutta una serie di passi in cui Wittgenstein allude alla possibilità di passare da un sistema epistemico a un altro attraverso la persuasione (UG: §262; §612) o tramite il ricorso a un serie di considerazioni di natura «estetica» quali, ad esempio, la «semplicità» e la «simmetria» (UG: §92; cfr. Coliva 2010: p. 4).

Coliva tuttavia dissente da una interpretazione di questo genere perché, a suo avviso, è possibile attenersi tanto una lettura anti-fondazionalista quanto a una lettura non relativista del pensiero di Wittgenstein. Infatti, sebbene sia possibile concepire in senso metafisico civiltà diverse dalla nostra, di esse non siamo in grado di dare né una forma definita, né di restituire una rappresentazione che non sia esente da revisioni, aggiustamenti o scopi: «se queste immagini si dessero non potremmo riconoscerle come tali, poiché, incontrandole, metteremmo in atto tutti gli aggiustamenti e strumenti concettuali, che abbiamo passato in

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possibilità di considerare il primo senso delle forme di vita, quello «ampio», come struttura basilare di orientamenti e azioni all’interno della quale esclusivamente si dà l’apparire delle culture. Al di fuori di questa struttura, non è possibile, per Conway, immaginare alcuna società concretamente realizzabile, né concepire una forma di vita che non sia permeata dagli invarianti naturali umani. Per tal ragione, ella ritiene di aver individuato nell’indagine di →ittgenstein sul linguaggio un interesse vivo per la ricerca del fondamento e, pertanto, per la scoperta di quelli che sono i criteri normativi alla base delle prassi verbali:

«Il problema non è più quello dell’ancoraggio di pensiero e linguaggio a una qualche realtà indipendente o soggettività trascendentale, ma è quello della collocazione delle parole in un contesto di linguaggio e attività umana. Argomentare contro l’idea che il linguaggio rispecchi la realtà non è negare che il linguaggio sia in relazione con qualcosa che è al di là del soggetto umano. […] →ittgenstein non sostiene che gli enunciati hanno significato solo in virtù del posto che occupano all’interno di un sistema linguistico coerente. Se così fosse gli unici requisiti sarebbero la non contraddittorietà e la coerenza. Ma per il discorso dotato di significato si richiede di più. Gli enunciati non devono soltanto essere coerenti con altri enunciati, essi devono anche essere compatibili con azioni e comportamenti conformi a certi modelli, in un mondo di un certo tipo. Le cose si devono fare, dobbiamo poter funzionare in un certo particolar modo. – Wittgenstein parla del linguaggio e del pensiero come dotati di fondamento ultimo [ultimately grounded]. Le nostre asserzioni e giudizi sul mondo si basano su ragioni [grounds]. In ultima istanza, per Wittgenstein, queste consistono in certi modi di agire infondati. Nel prendere in considerazione i giochi linguistici in cui pensiamo e parliamo del mondo, troviamo che certe proposizioni strutturano ogni altra cosa noi diciamo del mondo» (Conway 1989: p. 141, in Andronico 1998: p. 88).

Conway invita a guardare oltre che alla coerenza delle asserzioni all’interno dei giochi del linguaggio, anche al nesso che sussiste tra questi e le altrettanto contingenti forme di vita sulle quali si erigono. Dire che ciascun enunciato deve essere compatibile con il sistema naturale dei modi di vivere umani significa a suo avviso recuperare non solo la prospettiva fondazionalista, ma anche la possibilità di porre in comunicazione culture che non condividono le medesime realizzazioni sociali; fare in modo ovvero che prassi

rassegna, il cui risultato consisterebbe nell’assimilarle alla nostra. Così, la nostra immagine del mondo e il nostro schema concettuale sarebbero metafisicamente contingenti, e tuttavia per noi ineludibili e, perciò, universali, anche se solo dal nostro punto di vista» (Coliva 2010: p. 21). Il costante ricorso di Wittgenstein a tali civiltà va pertanto interpretato, secondo l’autrice, come un esercizio per renderci maggiormente consapevoli sia del ruolo dei nostri concetti, sia della contingenza delle nostra immagine del mondo la quale, a dispetto della sua possibile modificabilità, nondimeno resta univoca (Coliva 2010: p. 22).

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intraducibili possano essere rese accessibili anche a uomini che vivono secondo usi e costui completamente diversi (è l’appartenenza a un comune terreno di pratiche a fare in modo che le culture possano comunicare tra loro; il fatto ovvero che le loro realizzazioni sociali siano traducibili sulla base di un medesimo e condiviso sfondo dell’agire). In tal modo, il suo saggio è in grado di far luce su uno dei compiti più propri di ogni indagine filosofica il quale a sua volta coincide con gli scopi tipici di un’antropologia descrittiva: «lo scoprire e l’esplorare il genere di essere che una persona umana è»(Conway 1989: p. 164).

«Questo studio assomiglierebbe a un’antropologia filosofica descrittiva, o a un naturalismo antropologico, che descrive i modi naturali, le tendenze e la storia della forma di vita degli uomini» (Ibidem, in Andronico 1998: p. 90).

Se pertanto il merito indiscusso di Conway è di aver messo in evidenza l’aspetto ingiustificato delle forme di vita naturali e dunque nell'aver sottolineato la possibilità per la specie umana di comunicare secondo prospettive (o immagini del mondo) differenti, lo è di meno il fatto che di tali forme non venga descritta la crisi nei casi in cui si trovino soggette a cambiamenti, o in cui la comunicazione tra i loro membri fallisca (o si trasformi in conflitto). Dire che all’interno della ricerca wittgensteiniana esiste un duplice senso delle forme di vita, certamente permette di eliminare alcuni equivoci nella interpretazione delle

Lebensformen (ad esempio, quelli che le identificano tout court con il linguaggio69 e che, per questo, tendono a fare di esse un concetto contraddittorio, là dove invece occorre guardare ai suoi usi terminologici differenti), ma esclude la possibilità di far luce in modo altrettanto chiaro sui nessi che intrecciano natura e cultura nei giochi del linguaggio, e quindi sul senso problematico che deriva dalla loro compresenza nel medesimo concetto.

Inoltre, probabilmente a causa dello scarso «interesse manifestato da Wittgenstein nei confronti di un’indagine naturalistica sulle forme di vita, anzi, della forma di vita umana» (Andronico 1998: p. 90), la prospettiva di Conway non riesce a dar conto, oltre che della precarietà fondazionale delle Lebensformen (gli a priori concreti del senso) – ovvero del modo in cui le forme di vita, pur non essendo immutabili, costituiscono il fondamento logico delle nostre interazioni sociali – anche del movente di tutta l’analisi wittgensteiniana

69 Sono queste, ad esempio, le posizioni di Whittaker (1978), Winch (1958; 1964; 1969), Stroud (1966) e

Hilmy (1987), i quali suggeriscono di identificare i concetti di «forme di vita» e di «giochi del linguaggio» sulla base anche degli esempi sui linguaggi primitivi riportati da Wittgenstein nei primi paragrafi di PU e in buona parte delle riflessioni contenute in BGM (cfr. Cap. II).

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sui criteri, la quale non coincide con la ricerca di qualcosa come una «natura essenziale» dell’uomo o del linguaggio, ma con l’invenzione di sempre nuovi modi di pensare la relazione tra concetti e fatti naturali del vivere e che, a volte, proprio per l’interminabilità di tale compito, inducono l’immaginazione a spingersi al di là dei limiti che ciascuna cultura gli impone70. Proprio per questo, sul finire del suo testo, l’autrice si trova costretta ad ammettere la difficoltà di spiegare le parole del pensatore austriaco nell’affermare che «il filosofo non è cittadino nessuna comunità di idee» (Z: p. 455), e quindi nel ribadire la possibilità di una contemporanea appartenenza ed estraneità del singolo a un medesimo sfondo di pratiche. Conway non si rende conto che l’accordo dato dagli uomini alle loro convenzioni non riposa esclusivamente sulla concordanza naturale dei giudizi, ma anche sulla possibilità di dissentire sul loro contenuto e quindi nel potersi ritirare dai giochi che identificano le possibilità di agire e parlare (cfr. Cavell 1979; Cap. 3). Detto diversamente: se è vero che ogni possibile forma di vita ha la possibilità di concretizzarsi solo all’interno di un determinato, seppure variabile, range di comportamenti naturali standardizzati, e che ciascuna prospettiva si dà esclusivamente dentro un tale orizzonte universale, non lo è il fatto che essa possa essere caratterizzata nei termini esclusivi del consenso e che quindi si possa dare spazio anche per quelle circostanze in cui alcune regole o applicazioni possono venire ripudiate o sostituite; casi in cui il rifiuto di certi modi di agire non squalifica la nostra appartenenza alla natura umana ma al contrario ne restituisce la più intima espressione o, se si vuole, il suo lato più profondamente convenzionale (lo vedremo nel