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4 L’alterità antropologica

4.3 Immagini del mondo a confronto

Il problema del rapporto tra proposizioni empiriche e proposizioni logiche diventa invece maggiormente complesso nel caso in cui si prendano in considerazione, oltre che le assunzioni mooriane del senso comune, anche le proposizioni delle scienze matematiche (in particolare dell’aritmetica) – o più in generale le affermazioni che concernono gli atteggiamenti antropologici di base (il parlare, il raccontare, il calcolare, il giudicare, il misurare il fare ipotesi, ecc.) – che fanno da sfondo a tutte le possibili immagini del mondo a prescindere dalle particolari realizzazioni delle forme di vita. Tali proposizioni sono quelle che, come si è in parte visto a proposito delle analisi empirico-trascendentali alla Conway, sembrano descrivere un nucleo immutabile di comportamenti tipici dalla specie umana e solo in parte sono socialmente rivedibili. Gli esempi del saper contare o del saper eseguire una successione numerica (con i criteri che una determinata comunità matematica riconosce come validi), più volte invocati da Wittgenstein per mettere in rilievo i limiti naturali della trasformabilità delle nostre immagini del mondo e dunque i vincoli a cui devono sottostare le variazioni sociali delle nostre prassi, mostrano non solo quanto sia problematico tenere in piedi la pluralità delle forme di vita con l’esigenza di trovare un terreno universale di confronto tra le varie culture (in assenza del quale, del resto, nessuno confronto sarebbe in assoluto possibile), ma anche fino a che punto si renda necessario garantire l’esistenza di uno sfondo ultimo dell’azione senza il quale verrebbe meno la traducibilità stessa delle prassi131. Wittgenstein sembra in tal senso trovare nei

131 È stato Marconi (1997) ad aver affrontato con particolare acume il problema della «parziale» traducibilità

dei giochi linguistici. Attraverso una lettura incrociata della ricerca di Wittgenstein con la teoria di Davidson (1973) sugli schemi concettuali, egli ha sostanzialmente messo in rilievo due aspetti che non sempre si trovano esplicitati nella letteratura secondaria sul tema, ovvero: 1) l’irriducibilità delle formazioni alternative concettuali descritte da Wittgenstein agli schemi concettuali davidsoniani di cui tuttavia, a differenza delle prime, è possibile predicare la verità e l’intraducibilità (a meno di non adottare la definizione tarskiana della verità che caratterizza la prima nei termini della seconda; cfr. Marconi 1999: p. 134); 2) la parziale traducibilità di una teoria epistemica in un’altra (ammesso che sia legittimo parlare dei giochi del linguaggio come di possibili teorie sull’uso dei concetti, come ad esempio fa Quine, quando ritiene che un’asserzione come «questa pila di legname costa più di quella» dia luogo a una rappresentazione teorica dell’uso di un termine; cfr. Marconi 1999: p. 138). L’intento di Marconi è di evidenziare che l’obiettivo di →ittgenstein, e in generale dei sostenitori degli schemi concettuali alternativi non consiste nel sostenere la contemporanea alternatività e «assoluta indescrivibilità dei criteri di costituzione e di funzionamento della formazione alternativa» (Marconi 1999: p. 139), come fa a suo avviso Davidson quando dice che non esistono assetti concettuali altri che siano al contempo traducibili, ma di esibire una difficoltà di traduzione che è legata al riscontro di un diverso uso dei concetti. Quando i primi affermano che niente nella nostra fisica corrisponde a determinati concetti della fisica aristotelica, «non sostengono necessariamente che non siamo in grado di descrivere nel nostro linguaggio le condizioni a cui una proposizione è accettabile per la fisica di Aristotele» (Marconi 1007: p. 137), ma che si è dinanzi a una divergenza che non esclude la possibilità di riscrivere quelle asserzioni in un linguaggio più comprensibile (come ad esempio avviene nel paragone fra le regole che descrivono le mosse del gioco degli scacchi e le regole che illustrano il funzionamento della dama, o ancora fra il gioco dello scopone e del bridge: «sia una presa a bridge sia una presa a scopone sono, in un certo senso, insiemi di carte da gioco, e possono addirittura essere costituite dalle stesse carte; tuttavia non c’è una presa di scopone che “corrisponde” ad una presa a bridge. Ciò che sfugge a Davidson è che la parola

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procedimenti matematici il punto di arresto delle nostre ricerche sui dati invarianti delle edificazioni sociali del linguaggio e, a volte, segnalare nella costituzione fisica umana (cfr. BGM: V, §2; §15) il punto di convergenza di schemi interpretativi anche radicalmente diversi. Egli individua così un nesso strettissimo tra i «fatti naturali» che identificano le operazioni dell’aritmetica (il calcolare, il dedurre, il proseguire una serie, ; cfr. ) e gli atteggiamenti antropologici di base che consentono di riconoscere le nostre modalità primitive di agire, quali, ad esempio, il saper distinguere il dito dall’oggetto indicato (cfr. PU: §185)132, o il saper vedere nella memoria uno strumento affidabile per eseguire correttamente le nostre operazioni numeriche133:

«Intendere così l’indicare col dito risiede nella natura umana» (PG: p. 94).

“organizzare” [che egli usa in riferimento all’esperienza] maschera molti modi, profondamente diversi, di operare con oggetti e di costituirne insiemi»; Marconi 1999: p. 137). Connesso a quest’ultimo aspetto, infine, Marconi critica quello che è noto come il «terzo dogma» dell’empirismo e che a suo avviso è sostenuto da Davidson quando afferma che è possibile riscontrare fatti (o principi) in grado di dirci se la divergenza tra schemi epistemici alternativi può essere ricondotta a una divergenza nei concetti o nelle opinioni: «Secondo Davidson (che in questo sembra seguire Quine) saremo indotti a parlare di divergenze concettuali quando sono in gioco proposizioni che sono cruciali nel nostro sistema di credenze; altrimenti, parleremo di divergenze di opinioni» (Marconi 1999: p. 135). In risposta a Davidson, Marconi obietta che un tale fatto propriamente non esiste perché, come del resto era noto allo stesso Wittgenstein, anche qualora il linguaggio esibisca sotto le apparenti spoglie di un fatto linguistico l’uso di un determinato concetto in una prassi, nulla ci consentirebbe di considerare quello stesso fatto come la descrizione di una regola: nulla ovvero sarebbe in grado di valere come elemento di discrimine per discernere la descrizione di quell’evento come fatto dalla sua descrizione come regola, la sua enunciazione come proposizione empirica dalla sua formulazione come proposizione grammaticale.

132 Gli esempi in cui Wittgenstein sembra porre sullo stesso piano gli atteggiamenti naturali degli uomini con

i loro modi di procedere matematici sono vari e non tutti riassumibili in questa sede. Ad esempio, solo per citarne alcuni di particolare interesse, in BGM, egli riporta i casi di individui che effettuano divisioni «per espressioni della forma (n-n)» (BGM: V, §8), o che stilano liste ed elenchi registrando più volte uno stesso nome (cfr. Ibidem). Sempre nello stesso testo invita a immaginare tribù i cui membri ritengono che non valga la pena raccogliere le monete che cadono per terra (Ibidem), o che decidono di vendere la legna sempre allo stesso prezzo, prescindendo dalla sua quantità (cfr. BGM: I, §147).

133 È questa ad esempio la tesi sostenuta da McGinn (1984), secondo il quale, in Wittgenstein sarebbe

presente una forma particolare di naturalismo fondazionalista deducibile dai suoi richiami agli accordi pre- verbali nelle forme di vita. Secondo McGinn, la possibilità di attribuire senso ai segni del linguaggio risiederebbe non tanto dalle decisioni che gli uomini intraprendono «a giochi già fatti», quando cioè le basi per l’apprendimento, la crescita e lo sviluppo delle pratiche linguistiche si trovano compiute, ma nel legame essenziale che sussiste tra le «nostre propensioni naturali» (McGinn 1984: p. 42) e la nostra facoltà di attribuire senso e valore a determinati fatti antropologici. Per McGinn, la correttezza dei nostri impieghi è fondata sul dato naturale della forma di vita, sul fatto a suo avviso incontrovertibile che vi è una realtà extralinguistica capace di giustificare i nostri usi e istituzioni: «bisogna riconoscere che a un certo livello il significato è fissato dalla nostra natura: significare non è qualcosa cui perviene una mente trascendente separata dalla nostra “forma di vita”. La base del normativo è naturale» (McGinn 1984: p. 86). In forma leggermente diversa, anche Haller (1979) è dell’idea che le indicazioni di →ittgenstein sul modo di comportarsi comune degli uomini siano da intendersi in senso fondazionale. Come McGinn (ma anche come Conway 1989), Haller è persuaso che l’anti-essenzialismo wittgensteiniano sia solo di facciata e, per così dire, traslato su di un piano che non concerne le reali intenzioni del pensatore austriaco, ma gli aspetti non direttamente ricollegati alle forme di vita umane. Wittgenstein avrebbe infatti individuato non nella ragione ma nei fatti non fondabili della costituzione antropologica, i fattori capaci di rendere conto dei nostri giochi del linguaggio: quegli stessi fattori «a cui ci appelliamo quando vogliamo farci capire» (Haller 1981: p. 65). Cfr. anche Andronico 1998: pp.242-249).

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«Dunque il calcolo è assunto da noi arbitrariamente? Tanto poco quanto la paura del fuoco, o di un uomo infuriato che si avvicina» (PG: p. 110).

«la nostra memoria è buona abbastanza da farci prendere due numeri per volta o farcene tralasciare qualcuno quando contiamo fino a 12» (BGM: V, §2).

«”Se dev’essere pratico, il calcolo deve portare alla luce dei fatti. E solo l’esperimento può farlo”. […] “È vero, tuttavia rimane pur sempre un fatto empirico che gli uomini calcolano così!” – Sì, ma non per questo le proposizioni del loro calcolo diventano proposizioni empiriche» (BGM: V, §15).

«è innaturale per noi […] contare così: “uno, due, tre, quattro, cinque, molti”. Noi non andiamo avanti a contare in quel modo»(LFM: p. 253).

Sebbene quindi la riflessione wittgensteiniana sembri dare spazio all’idea che le proposizioni elementari della matematica costituiscano una base non convenzionale per i confronti tra culture, per lo meno stando ad alcune delle citazioni elencate, non si può affatto dire che esse rendano legittima l’ipotesi che poiché alcuni uomini misurano gli oggetti attraverso i «piedi» e i «pollici» vi sia un qualche rapporto di fondazione134 tra le proposizioni dell’aritmetica e la natura umana (o tra le argomentazioni logiche e il patrimonio genetico)135.

Infatti, se anche in molte circostanze si riscontra l’evidenza che induce a descrivere determinati fatti come «fatti naturali», ovvero come fatti che risultano dall’esecuzione di calcoli o deduzioni dotate di oggettività incontrovertibile e immuni quindi da argomenti di tipo sociologico (non è possibile stabilire convenzionalmente che 2+2 possa fare 5, o che la misura degli angoli interni di un triangolo sia diversa da 180 gradi, non più per lo meno «di quanto si possa decidere di essere uomini o alberi»; cfr. LFM: p. 193; Stroud 1965: p. 511), dall’altra è ugualmente evidente che una tale incontrovertibilità può essere riscontrata solo all’interno di ciò che la matematica, in quanto «fenomeno antropologico», (BGM: V, §26;

134Sebbene a volte egli sembra individuare proprio nell’applicazione delle regole matematiche il paradigma

naturale di certezza con cui è possibile descrivere l’apprendimento del linguaggio e di conseguenza l’impiego corretto dei concetti (lì dove per «corretto» si intende non la correttezza tout court, ma quella che di volta in volta viene riconosciuta da una determinata forma di vita).

135→ittgenstein, al contrario, sembra descrivere l’atteggiamento di chi identifica gli oggetti matematici con

realtà indipendenti dai concetti con cui ne parliamo e operiamo, come un atteggiamento che necessita di essere curato: «Ciò che “siamo tentati di dire” in un caso del genere non è, naturalmente, filosofia, ma il suo materiale grezzo. Dunque, per esempio, ciò che un matematica è propenso a dire sull’oggettività e la realtà dei fatti matematici non è una filosofia della matematica, ma qualcosa che la filosofia dovrebbe curare» (PU: §254).

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cfr. anche BGM: II, §26; BGM: V, §2), stabilisce come criterio di correttezza per le sue operazioni, solo ovvero in ciò che i suoi concetti sanciscono che possa essere fatto valere come un fatto o un errore136. Detto altrimenti: se anche la matematica può indurre a pensare attraverso l’oggettività dei suoi risultati che nei nostri calcoli vi sia qualcosa di antropologicamente «dato» (il «modo di procedere che la gente trova più naturale»; LFM: p. 112), allo stesso modo in cui a volte riconosciamo la datità di fatti biologici elementari o l’indubitabilità di asserzioni grammaticali di base137, nulla consente di concludere che essa rappresenti per Wittgenstein un vincolo umano alle possibilità di ritradurre in un linguaggio terzo ciò che culture altre sono disposte a chiamare asserzioni fattuali e asserzioni normative. Essa infatti definisce le condizioni di oggettività dei propri enunciati solo nel perimetro del gioco linguistico delimitato dalle decisioni dei suoi membri, il quale a sua volta dipende, senza esserne fondato, sia dai tratti invarianti delle forme di vita degli uomini, sia da ciò che una certa immagine del mondo riconosce valere, in un determinato periodo storico, come ipotesi e strategia di verifica:

«”E se fosse soltanto la matematica a determinare il carattere di quello che tu chiami ‘fatto’?!” “È interessante sapere quante vibrazioni ha questa nota”. Ma è stata la matematica a insegnarti questa domanda. Essa ti ha insegnato a vedere questo genere di fatti.

136E d’altronde nulla esclude che la matematica possa non essere riconosciuta come «oggettiva» in alcune

ipotetiche immagini del mondo nelle quali, ad esempio, sia possibile credere che durante i calcoli le cifre numeriche cambino inavvertitamente o che la memoria possa ingannarci sui risultati ottenuti. Anche il procedere matematico, infatti, come qualsiasi attività che si dà come prassi all’interno di un determinato corpo sociale, riceve le sue condizioni di possibilità dall’insieme di tutte quelle asserzioni del senso comune che escludono l’evenienza dei fenomeni citati e, pertanto, la possibilità che l’inchiostro possa ad esempio dileguarsi d’improvviso o che la memoria possa fallire. Se pertanto la sicurezza del matematico riposa sull’evidenza di fatti indubitabilmente certi, quali, per attenersi agli esempi citati, l’attendibilità della nostra costituzione fisica o la relativa stabilità degli eventi del mondo esterno, lo si deve non a una sorta di proprietà intrinseca dei suoi elementi, ma allo sfondo delle asserzioni empiriche e grammaticali che sono accettate da tutte quelle comunità di vita che riconoscono come valide le caratteristiche dei suoi procedimenti.

137 Negli esempi wittgensteiniani sulla matematica non di rado appaiono collegamenti tra i modelli che

descrivono le nostre procedure aritmetiche (ad esempio, lo svolgimento di una serie numerica o il saper contare i numeri in un certo modo, che è poi identificabile con il «nostro»: «Nel contare non esprimiamo alcuna opinione: che 25 segua a 24 non è una faccenda di opinione né di intuizione»; LFM: p. 193), e i modelli che sono alla base dell’uso dei procedimenti linguistici. L’affinità tra queste due maniere di procedere viene in particolare riscontrata nelle circostanze in cui riusciamo a seguire, senza ulteriore indicazione o spiegazione, una regola in un certo gioco del linguaggio (o nel modo attraverso cui siamo in grado di reiterare correttamente un’identica procedura in un contesto d’applicazione diverso). L’impressione che si riceve, come del resto sembra essere suggerito da Wittgenstein in più luoghi testuali (ad esempio in BGM: I, §164), è che la matematica possa costituire un modello di certezza estendibile a tutte le prassi verbali e in generale a tutte le pratiche che sostanziano una forma di vita. Questo non tanto per l’oggettività con cui i suoi risultati balzano agli occhi, i quali, come di è detto, dipendono da ciò che essa decide di considerare come criterio di oggettività e correttezza, quanto per la messa in rilievo di quel modo di agire certo e istintivo che è ascrivibile anche a prassi descrivibili in termini non esclusivamente naturali (come ad esempio il dare ordini o il seguire una regola).

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La matematica – voglio dire – non si limita a insegnarti la risposta a una domanda, ma ti insegna un intero gioco linguistico, con domande e risposte» (BGM: V, §15).

Il «fatto» quindi che vi siano uomini appartenenti a gruppi sociali che non eseguono i calcoli nel modo in cui noi «normalmente» li eseguiamo, o che esistano civiltà che rifiutano di applicare per i loro ragionamenti gli schemi logici a cui noi siamo abituati, non legittima l’ipotesi che i primi siano incapaci di pervenire, con strumenti e metodologie diverse, ai risultati cui noi perveniamo per mezzo delle nostre operazioni, ma che al contrario fra noi e loro vi è una distanza che può essere colmata solo attraverso un confronto adeguato delle credenze e dei concetti, per mezzo ovvero dell’individuazione di quegli «anelli intermedi» di congiunzione (BFGB: p. 29) che fanno sì che delle usanze alternative non appaiono come «sbagliate» ma semplicemente «differenti». Che alcuni uomini ritengano che i pianeti dell’universo siano della divinità mitologiche o che la danza della pioggia possa causare il verificarsi di future precipitazioni (cfr. BFGB: p. 33) non significa che fra le nostre e le rappresentazioni di altre culture corra una separazione che può essere eleminata con i criteri dell’evoluzione e del progresso (cfr. BFGB: pp. 37-38) – come ad esempio sostiene Frazer nelle sue disamine dei rituali religiosi antichi – ma che di esse occorre restituire un quadro organico più ampio, capace di risaltarne le analogie e le differenze, i punti di parziale coincidenza e le diversità semantiche.

«↑oglio dire: un’educazione completamente diversa dalla nostra potrebbe anche essere il fondamento di concetti completamente diversi».

«Infatti, qui la vita scorrerebbe in modo diverso – Quello che interessa a noi, non interesserebbe a

loro. Concetti diversi qui non sarebbero più inimmaginabili. Sì, soltanto così è possibile immaginare concetti sostanzialmente diversi» (Z: §§387-388).

Allo stesso modo, quando dinanzi all’applicazione di una formula matematica che prescrive di aggiungere «+2» a ciascun numero di una serie, il discente, – che può essere tanto uno scolaro quanto un membro di una tribù con schemi d’esecuzione alternativi, – inizia a sommare «+4» in luogo di proseguire la serie come ha sempre fatto fino a quel momento, non occorre necessariamente ritenere che si è di fronte a un uso errato o contraddittorio dell’addizione la quale, ad esempio, possa farci sospettare del corretto apprendimento della regola da parte dello scolaro o del suo grado di attenzione, ma a un’applicazione che può essere resa compatibile con altre interpretazioni altrettanto

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possibili. L’improvviso divergere dello scolaro mette cioè in luce che vi sono circostanze in cui la comprensione del carattere arbitrario delle regole si trova subordinato alla capacità di proiettare i nostri concetti sui concetti impiegati da civiltà diverse (siano essere immaginarie che reali) e che, quindi, a volte, in luogo di cercare il tratto invariante e comune alle società che sommano i numeri in un determinato modo, o che giocano i giochi linguistici alla «nostra» maniera, appare più opportuno sforzarsi di cercare il groviglio delle connessioni che intercorrono tra usi e tradizioni anche molto distanti.

Per cercare di mettere in rilievo il carattere relazionale delle forme di vita, Wittgenstein ci invita a svolgere vari esperimenti. Essi vanno dal citato esempio dello scolaro (su cui ci soffermeremo con più attenzione nel capitolo che segue a proposito dell’analisi di Kripke), ai più inusuali usi e costumi di culture «immaginarie» affette da particolari deficit sensitivi – quali, per citarne alcuni, la sordità (Z: §371), l’acromatopsia (BdF: I, §13), l’incapacità di sognare (Z: §530) – che misurano i loro oggetti con dei «regoli elastici» (BGM: I, §5) o che stabiliscono il prezzo della legna sulla base della larghezza delle pile (BGM: I, §§142-149).

Tralasciando i primi esempi e concentrandoci sugli ultimi due, Wittgenstein scrive che nel primo di questi casi, anche nella circostanza in cui la misura di un oggetto dovesse risultare identica alla misura effettuata con un regolo rigido, e quindi non vi fosse alcuna differenza tra i risultati ottenuti con i nostri strumenti di misurazione e i risultati conseguiti con dispositivi differenti, non potremmo trovarci di fronte a un comportamento che potrebbe essere definito propriamente «il misurare», ma dinanzi a un uso «affine» di tale concetto che, in determinati contesti, quando cioè i nostri risultati collimano, potrebbe coincidere con ciò che saremmo disposti a chiamare «misura» e in altri, quando ovvero divergono, potrebbe riprodurre comportamenti completamente diversi da quelli a cui siamo abituati nei nostri usali processi di misurazione.

«Come entreremmo in conflitto con la verità se i nostri regoli fossero fatti di una gomma molto elastica, anziché di legno o acciaio? – “Bene, non riusciremmo mai a conoscere la vera misura del tavolo”. – Intendi dire che non otterremmo, o non saremmo sicuri di ottenere, la misura che otteniamo con i nostri regoli rigidi. Dalla parte del torto sarebbe certamente chi, dopo aver misurato un tavolo col regolo elastico, asserisse che il tavolo è lungo m 1,80 secondo il nostro sistema di misura solito; ma avrebbe ragione se dicesse che il tavolo è lungo m 1,80 secondo il sistema di misura da lui impiegato. – “Ma questo non è affatto misurare!” – È simile al nostro misurare e, in certe circostanze, può servire a ‘scopi pratici’. (In questo modo un negoziante potrebbe trattare