3 Le forme di vita nelle «Ricerche filosofiche»
3.3 Le somiglianze di famiglia
La rimozione dell’immagine agostiniana del linguaggio coincide pertanto con l’eliminazione del presupposto metafisico alla base della teoria raffigurativa del significato. L’idea che a ogni nome debba corrispondere un oggetto (sia esso mentale o fisico) e che di ogni proposizione si possa predicare tanto la composizionalità quanto il valore di verità, viene sostituita da una rappresentazione plurale e contingente del significato, per la quale la possibilità d’uso di un’espressione è riconoscibile dal ruolo che ricopre in un possibile gioco del linguaggio. Wittgenstein, come si è detto, attribuisce l’errore della sua prima opera all’ossessiva ricerca dell’essenza che contraddistingue l’indagine filosofica classica, a una sorta di pulsione di generalità che spinge i filosofi a cercare ciò che è comune nell’uso delle parole e dei loro giochi (cfr. P←: §§65- 67). La sua analisi passa così dalla descrizione dei processi che espongono il legame logico tre le proposizioni e i fatti del mondo, alla descrizione dei nessi che consentono di far emergere analogie e somiglianze:
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«Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola, – ma che sono imparentati l’uno con l’altro in molti modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti “linguaggi”» (P←: §65).
La possibilità di inventare e confrontare linguaggi rappresenta senza ombra di dubbio la cifra del metodo wittgensteiniano posteriore a TLP. Essa si impernia sull’individuazione delle connessioni e delle parentele che ancor prima di ricondurre i processi semantici a un modello univoco, quanto vano, di spiegazione delle lingue, esprimono alcune realizzazioni possibili di forme di vita, illustrando maniere alternative di interpretare e collegare schemi d’esperienza alternativi. I modelli per descrivere il rapporto di queste parentele sono vari. A volte, Wittgenstein paragona il legame tra le suddette somiglianze all’intreccio delle fibre che compongono una corda (come le fibre non si trovano legate a un corpo centrale, così i contenuti dei concetti non risiedono in entità univoche che li attraversano in tutta loro estensione semantica; cfr. PU: §67); altre, invece, fa riferimento a esse attraverso l’idea di una visione «sinottica» di possibilità, a uno sguardo d’insieme dei concetti i cui significati, analogamente ai colori di uno caleidoscopio, si trovano allo stesso tempo distinti e riflessi l’uno sull’altro:
«È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni: la nostra ricerca però non si rivolge però a fenomeni, ma si potrebbe dire alle “possibilità” dei fenomeni» (PU: §90).
Il riferimento alla visione trasparente dei fenomeni, al nostro guardare «attraverso» di essi, fa allusione probabilmente a un’immagine celebre della Farbenlehre goethiana, di cui Wittgenstein dà qualche vago accenno in alcune meditazioni antecedenti a PU e che in questo contesto sembrano riprodurre un’immagine esplicativa di ciò che egli intende con il termine «visione perspicua»: l’ottaedro dei colori («La raffigurazione ottaedrica è un esempio di raffigurazione sinottica delle regole grammaticali»; PB: §1g). Con tale figura →ittgenstein si riferisce all’applicazione della schematizzazione geometrica delle percezioni ai moduli interpretativi delle prassi, all’estensione degli studi goethiani sui colori alle procedure che governano gli usi dei concetti37. L’ottaedro è in altri termini
37 Non è questa in realtà l’idea di Goethe. Secondo quest’ultimo, infatti, l’ottaedro non esprime la
disposizione grafica dei legittimi usi dei concetti di colore, ma la natura stessa dei fenomeni cromatici, la loro essenza psicologica («Io credo che Goethe abbia voluto trovare in verità una teoria non fisiologica ma
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quella rappresentazione geometrica dei colori che riproduce in forma topologica le relazioni che sussistono tra le varie tonalità dei fenomeni visivi. Esso esibisce, da una parte, l’insieme delle loro combinazioni consentite, ovvero le modalità del loro legittimo giustapporsi e, dall’altra, il complesso delle analogie che li lega in una comune visione perspicua (vale a dire l’insieme delle linee di continuità che uniscono tra loro tratti e percezioni comuni). Esso è lo strumento che è in grado di definire la scala graduata di tutte le tonalità cromatiche possibili, l’immagine in cui sono riassunte visivamente l’insieme delle loro legittime applicazioni. L’ottaedro non rivela cosa sia il rosso o il verde «puro», ma si limita a tracciare il limite oltre il quale non è legittimo applicarlo; mostra le direzioni lungo cui è possibile incontrare il fenomeno del colore nonché il modo e le variazioni che ne giustificano l’impiego. Wittgenstein riprende questa immagine per elaborare una visione complessiva delle proposizioni grammaticali, per concepire un modello grafico di rappresentazione dei giochi linguistici in grado di esaltare analogie e affinità: come la posizione dei colori nell’ottaedro definisce quindi il complesso dei loro impieghi giustificati, così la posizione dei concetti in una prassi (o più in generale in una forma di vita) consente di rappresentare la totalità delle regole che disciplinano l’applicazione degli enunciati; come l’ottaedro riproduce in superficie i legami fra le diverse tonalità cromatiche, cosi la grammatica restituisce allo studioso lo sguardo perspicuo sulla moltitudine degli impieghi, la «visione» completa dei nessi in termini di «somiglianze», e legami «famigliari»:
«Considera, ad esempio, i processi che chiamiamo “giochi”. Intendo giochi di scacchiera, giochi di carte, giochi di palla, gare sportive, e via dicendo. Che cosa è comune a tutti questi giochi? – Non dire: “Deve esserci qualcosa comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero ‘giochi’” – ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti. – Infatti, se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tuta una serie. Come ho detto: non pensare, ma osserva! – Osserva, ad esempio, i giochi da scacchiera, con le loro
psicologica dei colori»; VB: p. 44). Wittgenstein critica quindi l’approccio dello studio goethiano. Egli rimprovera allo studioso tedesco di confondere un’indagine di tipo grammaticale con un’indagine scientifica, la ricerca della logica con cui è possibile impiegare correttamente determinati concetti con la descrizione dei meccanismi psicofisici alla base delle nostre percezioni sensoriali: «La teoria goethiana della formazione dei colori dello spettro non è una teoria che si sia dimostrata insoddisfacente: per parlar propriamente non è affatto una teoria. Con essa non si può predire nulla. È piuttosto un vago schema concettuale [Denkschema] del genere di quello che si trova nella psicologia di James. Non c’è neanche nessun experimentum crucis che possa farci decidere in favore di questa teoria o contro di essa» (BdF: §70); «Chi sia d’accordo con Goethe, trova che Goethe abbia riconosciuto correttamente la natura dei colori. E qui natura non è ciò che procede dagli esperimenti; bensì risiede nel concetto di colore» (Bdf: §71). La «natura» del colore non si riferisce quindi a «una somma di esperienze riguardanti i colori» (BdF: §125), ma alla logica che governa l’impiego dei suoi concetti, all’insieme delle relazioni di affinità e somiglianza che contribuiscono a dipingere l’immagine grammaticale dei suoi usi legittimi.
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molteplici affinità. Ora passa ai giochi di carte: qui trovi molte corrispondenze con quelli della prima classe, ma molti tratti comuni sono scomparsi, altri ne sono subentrati. Se ora passiamo ai giochi di palla, qualcosa di comune si è conservato, ma molto è andato perduto. Sono tutti “divertenti”? Confronta il gioco degli scacchi con quello della tria. Oppure c’è dappertutto un perdere e un vincere, o una competizione fra i giocatori? Pensa allora ai solitari. Nei giochi con la palla c’è vincere e perdere; ma quando un bambino getta la palla contro il muro e la riacchiappa, questa caratteristica è sparita. Considera quale parte abbiano abilità e fortuna. E quanto sia differente l’abilità negli scacchi da quella del tennis. Pensa ora ai girotondi: qui c’è l’elemento del divertimento, ma quanti degli altri tratti caratteristici sono scomparsi! E così passiamo in rassegna altri gruppi di giochi. Veder somiglianze emergere e sparire.
E il risultato di questo esame suona: Vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo.
Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione “somiglianze di famiglia”; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e si intrecciano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi modo di camminare, temperamento, ecc. ecc. – E dirò: i “giochi” formano una famiglia» (PU: §§66-67; cfr. BlB: p. 27, p. 115; PU: §67; PG: §75)38.
Il ricorso alle «somiglianze di famiglia» e alla visione «sinottica» dei fenomeni si può quindi ricollegare a una riflessione più ampia sul carattere olistico del significato. Tale riflessione è impiegata da Wittgenstein per risaltare ancora una volta il lato anti- universalistico degli Sprachspiele e di conseguenza il carattere sfumato e indefinito dei processi del sesno. Wittgenstein paragona le somiglianze presenti nei vari usi verbali alle affinità riscontrabili nei tratti fisici e psichici dei componenti di una famiglia: «la corporatura, i tratti del volto, il colore degli occhi, il modo di camminare, il temperamento, ecc. ecc» (Ibidem). Come tra i parenti è possibile riscontrare caratteristiche che non sono uguali in tutti i membri, poiché ad esempio si trovano incrociate ad altre o si esprimono in misura diversa nei suoi partecipanti, allo stesso modo nelle applicazioni dei concetti è possibile rilevare una trama estesa di analogie e somiglianze unite tra loro da una rete di usi non sempre riconducibili a un modello ideale. L’anti-essenzialismo di Wittgenstein non
38 La tesi sulle «somiglianze di famiglia», insieme a quella sulla «rappresentazione perspicua», costituisce
uno dei punti più importanti di tutte le Ricerche e per questo riceverà una trattazione a parte nel secondo capitolo. Essa, in particolare, svolge un ruolo fondamentale non solo nella comprensione del significato sociale delle forme di vita, e quindi nella definizione delle modalità attraverso cui i concetti si trovano connessi tra di loro, ma anche nella ricostruzione dei modi attraverso cui è possibile ottenere una determinata «visione del mondo» (PU: §122) nella nostra e nelle civiltà altrui.
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si traduce quindi in una definizione ontologica del significato, quasi che a un oggetto o idea se ne possa sostituire un altro, ma in una trasformazione del metodo di indagine . Esso restituisce un modo differente di guardare al tessuto delle azioni e delle parole che definiscono una cultura, sì da portare lo sguardo sull’orizzontalità dei legami che è possibile inquadrare in una determinata serie di nessi e analogie:
«Uno a delle fonti principale della nostra incomprensione è il fatto che non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole. – La nostra grammatica manca di perspicuità. – La rappresentazione perspicua rende possibile la comprensione, che consiste appunto nel fatto che noi “vediamo connessioni”» (P←: §122).
Il modello della rappresentazione perspicua non consente pertanto di rivedere solo le tesi idealistiche di TLP. Insieme a queste, esso permette anche di riconsiderare quelle che a partire dal ’29 conducono Wittgenstein, dapprima, all’attribuzione di una natura fenomenologica al linguaggio (cfr. SRLF; PB) e, in seguito, con l’abbandono definitivo dell’approccio mentalistico, alla definizione del significato come risultato di un calcolo (cfr. BT). Proprio a partire da quest’ultimo aspetto, come si è detto, il filosofo austriaco va approfondendo l’idea che alla base di ciascun gioco linguistico debba risiedere un aspetto grammaticale diverso da quello logico classico e che quest’ultimo rappresenti invece la risposta a un’«esigenza» umana di chiarezza piuttosto che l’esito di una ricerca oggettiva sulla natura del senso («La purezza cristallina della logica non mi si era affatto data come
un risultato; era un’esigenza»; P←: §107). Wittgenstein inizia a muovere quindi verso una
concezione meno rigida dei processi semantici, che lo conduce dapprima a formulare una prima ipotesi sul carattere «ludico» del linguaggio e in seguito a focalizzare l’attenzione sui modi infondati dell’agire umano. In questi anni comprende, in particolare, che l’ordine richiesto dalla logica è un solo uno tra i tanti possibili («uno dei molti ordini possibili e non
l’ordine»; P←: §132) e che la possibilità di seguire, nella forma richiesta da un determinato Sprachspiel, le regole d’uso di una parola dipende non tanto dalla conoscenza oggettiva delle regole che ne disciplinano l’impiego, quanto dalle prassi che si trovano connesse con le forme di vita a cui appartengono le quali, di volta in volta, possono essere mutate o abbandonate. A partire da questa revisione egli interromperà la ricerca della proposizione generale della logica per introdurre una definizione sempre più sfumata dei giochi del linguaggio dei quali, come in parte si è già visto, non è possibile offrire una forma precisa, ma solo rapporti di «vaga somiglianza (cfr. anche Garver 1994):
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«Come faremo allora a spiegare a qualcuno cos’è un gioco? Io credo che gli descriveremo alcuni
giochi, e poi potremmo aggiungere: “questa, e simili cose, si chiamano ‘giochi’”. E noi stessi, ne
sappiamo di più? Forse soltanto all’altro non siamo in grado di dire esattamente che cos’è un gioco? – Ma questa non è ignoranza. Non conosciamo i confini perché non sono tracciati. Come s’è detto, possiamo – per uno scopo particolare – tracciare un confine. Ma con ciò solo rendiamo il concetto utilizzabile? Niente affatto! Tranne che per questo scopo particolare» (PU: §69).