4 L’alterità antropologica
4.2 La nozione di «immagine del mondo»
Wittgenstein paragona più volte l’impatto del bambino con la lingua a quello di un uomo dinanzi alle usanze e alle parole di una tribù straniera. Nei vari esempi tratti da PU, BlB, BrB e BFGb egli sostituisce ai processi di spiegazione causale del significato l’idea che il linguaggio sia un’attività appresa e che al di là dell’istruzione sugli usi normativi di una prassi, che non si trova, per così dire contenuta in un’essenza o in una sorta di fatto primo regolativo, sia l’addestramento l’unica via per accedere all’eredità culturale dei giochi linguistici nonché il metodo per avviarsi alle norme che sostanziano le attività di una forma di vita («la prassi del giudizio empirico non l’impariamo imparando le regole; ci vengono insegnati giudizi, e la loro connessione con altri giudizi. Ci viene resa plausibile una totalità di giudizi»; UG: §140).
Si è detto, inoltre, che l’accoglimento di tale eredità non solo è scandito dall’esibizione delle regole che disciplinano i vari giochi linguistici, ovvero dai processi che all’atto dell’impiego esemplificano l’uso dei concetti, ma anche da una particolare esperienza formativa che viene vissuta dall’individuo come una specie di trasformazione interiore, quasi una sorta di trasfigurazione spirituale che, a detta di alcuni interpreti, può essere ravvicinata alle esperienze radicali di spaesamento e disorientamento descritte dalle filosofie esistenziali dei primi del ‘900. Per cercare di mettere in risalto questa forma di autoestraniazione, ho provato quindi a mostrare in che termini, secondo Wittgenstein, il riferimento al mondo animale risulti proficuo non solo nella messa in rilievo della parziale comunanza dei tratti biologici dei suoi membri con i membri che appartengono alla specie umana, ma anche per ciò che attiene la misura dell’alterità che separa gli uomini tanto nelle diverse realizzazioni sociali quanto nei rapporti che esprimono una medesima forma di vita. L’introduzione del linguaggio leonino, nella parte finale di PU, ha mostrato che come non siamo in grado, a volte, di essere reciprocamente trasparenti gli uni con gli altri (e non perché non siamo in grado di leggerci nel pensiero, ma per l’incomprensione del ruolo delle nostre e delle parole altrui), così spesso ci troviamo talmente separati tra noi stessi, da poter paragonare la nostra estraneità all’estraneità che potremmo esperire dinanzi a un leone che per assurdo potesse parlarci senza essere compreso, o al cospetto di una cultura le cui usanze ci apparirebbero talmente estranee da risultare intraducibili, o irriducibili alle nostre senza evitare il rischio di commettere errori di interpretazione (o colonizzazione) concettuale. Questo ci ha consentito di concludere in via preliminare che il riferimento di Wittgenstein a forme di vita radicalmente o parzialmente differenti è evocato non solo nella forma di un modo di vivere animale il cui confronto, come si è detto, ci permette di
134
istituire delle linee di continuità tra l’agire infondato dei giochi verbali e l’agire che connota il comportamento istintivo non umano, ma anche in quella modalità specificamente antropologica dell’azione in cui risaltano aspetti propriamente storici e contingenti tipici delle società umane e irriducibili a fatti o concezioni di tipo causale.
Per cercare di chiarire ulteriormente quest’ultimo aspetto, legato alla dimensione temporale delle forme di vita e richiamato più volte da Wittgenstein attraverso i suoi esperimenti mentali, vorrei soffermarmi sul concetto di «immagine nel mondo» esposto nelle note sulla Certezza e provare a mostrare in che termini tale nozione può risultare utile nell’esplicitare alcune problematiche non immediatamente visibili nel testo e legate ai più ampi problemi della traducibilità e della confrontabilità delle culture. Attraverso di esso vorrei in particolare mostrare che 1) come la pluralità delle autorappresentazioni d’esperienza non produce prove a favore della molteplicità empirica delle forme di vita, così non può indurre ad asserire che la cornice delle proposizioni grammaticali del linguaggio sia univocamente determinata da un’ipotetica prassi naturale, unica per tutti gli umani e che 2) i continui riferimenti da parte di Wittgenstein a procedimenti normativi differenti possono essere considerati sia come modi per acquisire maggiore coscienza della peculiarità dei nostri abiti verbali e pre-verbali, sia come strumenti per coglierne la dimensione locale e quindi per consentire, attraverso il riconoscimento del loro carattere precario, l’adozione di una prospettiva anti-etnocentrica del linguaggio (e delle forme di vita). Procederò quindi dapprima all’analisi del concetto di «immagine del mondo» quale si trova impiegato in UG, e poi in seguito illustrerò in che modo esso consenta, sotto un altro punto di vista, di illustrare quei tratti sociali e naturali delle forme di vita che spiccano in tutti quei casi in cui le loro prassi sono confrontate con le procedure e le applicazioni di culture anche molto differenti (o per le quali non si dispone degli strumenti necessari per eseguire traduzioni oggettive di concetti e regole).
Con il termine «Weltbild» («Immagine del mondo») Wittgenstein si riferisce all’insieme di quelle affermazioni, ragionamenti e costruzioni teoriche che definiscono la cornice rappresentazionale del nostro accesso al mondo, ovvero alle norme e alle proposizioni d’esperienza che regolano i rapporti tra gli uomini e i fatti (naturali e sociali) che scandiscono la loro esistenza all’interno di una collettività. ←n’immagine del mondo è cioè il complesso di tutte quelle proposizioni empiriche116 e logiche117 date per certe,
116Dell’immagine del mondo infatti fanno parte oltre che le proposizioni grammaticali anche le proposizioni
135
ovvero non sottoponibili al banco di prova dell’esperienza, che fungono da regole d’uso dei concetti e sulle quali è insensato dire sia che rappresentano delle conoscenze vere e proprie (per essere tali dovrebbe avere senso chiederne la verifica118, ma ciò implicherebbe la verifica dell’intera immagine del modo119 che per Wittgenstein non è «né vera né falsa»; UG: §205), sia manifestare alcuna forma di scetticismo (ponendole in dubbio si
pensieri [con il linguaggio] fanno parte non soltanto le proposizioni della logica, ma anche certe proposizioni empiriche» UG: §401) e questo non solo per l’impossibilità di distinguere con nettezza proposizioni controllanti e proposizioni controllate (conseguenza del fatto che non esistono proposizioni «essenzialmente» grammaticali, ovvero grammaticali in sé stesse), ma anche per l’eventualità realizzabile che le une possano assumere il ruolo delle altre e quindi invertire la propria funzione: «Dico: Ogni proposizione empirica può essere trasformata in un postulato – e allora diventa una norma di rappresentazione. Ma anche di questo diffido. La proposizione è troppo generale. Quasi si vorrebbe dire: “Teoricamente ogni proposizione empirica può essere trasformata…”, ma che cosa vuol dire, qui, “teoricamente”? Sa fin troppo di Tractatus logico-
philosophicus»; UG: §321).
117 Come nota Perissinotto (1991), in UG, Wittgenstein fa riferimento al termine «grammatica» e alle
«proposizioni grammaticali» solo tre volte (UG: §§57-58; §313) preferendo ricorrere, in luogo di esse, a espressioni che chiamano in causa il predicato di «logico»: «proposizione logica», «distinzione logica», «posizione logica», «determinazione logica»,« funzione logica» «concetto logico», «interesse logico», «osservazione logica», «appartenenza logica». (cfr. Perissinotto 1991: p. 168).
118 Proposizioni del tipo «So che questa è una mano» o «So di essere un uomo», in circostanze ordinarie,
quando cioè non sussiste alcuna ragione (accettata da una certa forma di vita) per dubitare del loro uso, risultano inverificabili (cfr. UG: §372). Esse infatti, nella misura non sono sottoponibili al tribunale dell’esperienza, costituiscono la visione del mondo del senso comune, definendo al contempo le condizioni di possibilità di ogni processo conoscitivo. Il loro ruolo è, in altri termini, grammaticale: descrivono ovvero l’uso legittimo dei termini adottato da una comunità di individui, non dicendo nulla sui loro contenuti (per i quali invece la possibilità della smentita risulta priva di senso (cfr. UG: §255). Del resto, se le proposizioni che fanno parte delle immagini del modo fossero davvero verificabili, dovrebbe essere possibile immaginare casi in cui avrebbe senso interrogarsi sull’eventualità che esistano civiltà che non sappiano cosa sia un uomo o in cosa consista il possedere due mani. In tali circostanze, ribadisce Wittgenstein, al di là del verificarsi di alcune evenienze particolari, quando ad esempio si ha a che fare con individui privi di senno, o in cui si riconoscono delle ragioni per porsi tali interrogativi (si pensi alle amnesie, o a situazioni particolarmente drammatiche, come le guerre o gli stati di convalescenza post-traumatici) ci troveremmo non tanto di fronte a qualcuno che non dispone degli adeguati strumenti di verifica per accertarsi di quanto fa e dice, ma dinanzi a uomini che non conoscono il significato di queste espressioni o che dispongono di immagini del mondo radicalmente differenti. «Spesso “Io so” vuol dire: ho buone ragioni per dire quello che dico. Quindi se l’altro conosce il gioco linguistico, l’altro deve essere in grado di immaginare come si possa sapere una cosa del genere» (UG: §18).
119 Affinché un sistema di conoscenze possa essere giudicato vero o falso, è necessario disporre di quegli
strumenti epistemici di verifica in grado di dimostrare, dall’esterno, la verità o falsità delle sue proposizioni. Poiché tuttavia, per →ittgenstein, un’immagine del mondo non può essere giudicata da un’altra immagine del mondo, – se non attraverso la persuasione o l’indicazione di ragioni che esulano dal rispecchiamento oggettivo dei fatti (quali ad esempio l’efficacia predittiva, l’economicità, l’estetica, ecc.) –, risulta che l’unico modo per provare la verità di un sistema è quello di verificare, dal suo interno, ovvero con i suoi metodi di controllo e i suoi concetti, il contenuto di tutte le sue proposizioni. Dato che però è il sistema nella sua interezza a dover venire giudicato e non la sua sola parte empirica (vale a dire quella dei contenuti oggettivi di esperienza), è impossibile evitare la circostanza di dover sottoporre a verifica gli stessi concetti e le stesse regole che rendono possibile il giudizio sulla sua veridicità, con la conseguenza di incorrere in quel circolo vizioso di verifica dei metodi di verifica che finiscono col porre sullo stesso piano proposizioni controllanti e proposizioni controllate. Pertanto, nella misura in cui non è possibile per un’immagine del mondo verificare sé stessa, pena l’auto-contraddittorietà, né l’ipotesi di poter essere verificata da un’altra immagine del mondo, pena l’impossibilità di procedere a una verifica tout court, ciascuna rappresentazione del mondo risulta essere in sé né vera né falsa, né verificabile né inverificabile. Il che non significa che la sua adozione sia irrazionale, ma che il suo impiego deriva da un’intesa anteriore al linguaggio, dai modi infondati di agire che caratterizzano ciascuna forma di vita umana.
136
eliminerebbe la possibilità stessa di disporre delle risorse argomentative per confutarle120; un dubbio infatti è possibile solo all’interno del sistema che ne consente la formulazione; cfr. UG: §105; §115; §149). Tali proposizioni definiscono pertanto le condizioni di possibilità di ciascun gioco del linguaggio rendendo esplicito lo sfondo delle prassi e dei comportamenti ai quali si è consegnati durante l’apprendimento della lingua121: ovvero l’insieme degli usi, delle istituzioni e dei sistemi di interazione che si trovano inglobati nei nostri modi di parlare e agire. La asserzioni di un’immagine del mondo rappresentano non solo le proposizioni che per una ragione o per un’altra sono in grado di resistere maggiormente al tempo – come lo sono ad esempio le proposizioni dell’aritmetica e della logica (più difficilmente rivedibili) – ma anche il complesso di tutte le regole, le pratiche e i metodi di ricerca che una determinata cultura riconosce come propri e per mezzo dei quali è in grado di attivare le relazioni con sé stessa e con le altre realtà umane (cfr. UG: §§63-65; §132). Esse quindi rappresentano le basi conoscitive di ogni forma di vita; sono in altri termini il sistema delle proposizioni e dei giudizi che assunti a casi paradigmatici di esecuzioni normative e concettuali, esprimono il metro di paragone e di confronto che ciascun gruppo di individui stabilisce come suo criterio di riferimento.
120 La possibilità del dubbio è infatti fondata sull’esistenza di un sistema di proposizioni di base
(grammaticali ed empiriche) che consentono l’avvio dell’indagine conoscitiva (e quindi il sollevamento del dubbio stesso). Se non vi fosse un tale sistema non si spiegherebbe con quali parole o strategie sarebbe possibile non solo esercitare l’argomento scettico ma anche esplicitarne le ragioni. («Ci sono casi di specie tale che quando un tizio dà segni di dubbio là dove noi non dubitiamo, non possiamo comprendere con sicurezza i suoi segni come segni di dubbio. In altre parole: affinché comprendiamo come tali i suoi segni di dubbio, quel tizio deve darli soltanto in casi ben determinati, e non in altri»; UG: §154).
Il dubbio esercitato sull’intera immagine del mondo pregiudica quindi non solo la certezza relativa al suo contenuto d’esperienza, ma anche quella che riguarda le proposizioni e i metodi con cui siamo soliti affrontare le questioni epistemiche. Esso mina la legittimità del dubbio e di conseguenza la sensatezza del suo esercizio: «Le questioni che poniamo, e il nostro dubbio, riposano su questo: che certe proposizioni sono esenti da dubbio, come fossero i cardini [die Angeln] sui quali si muovono le altre. In altre parole: fa parte della logica delle nostre ricerche scientifiche che di fatto certe cose non vengano messe in dubbio» (UG: §§341-342). La critica wittgensteiniana allo scettico si dipana, in sintesi, sia secondo la messa in luce della contraddittorietà della strategia di ogni posizione filosofica che si proponga come inizio il dubbio iperbolico («Chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso gioco del dubitate presuppone già la certezza»; UG: §115; cfr. anche UG: §449, §160,) sia per mezzo del riconoscimento della sensatezza del dubbio che separa, inesorabilmente, il dubitare «per ragioni ben precise» (UG: §458) dal dubitare irragionevole («Quello che devo far vedere è che un dubbio non è necessario, neanche quando è possibile. Che la possibilità del gioco linguistico non dipende dal fatto che si metta in dubbio tuto quello che si può mettere in dubbio»; UG: §392; «L’uomo dotato di ragione non ha certi dubbi» ←G: §220). Contrariamente a ciò che pensa lo scettico, infatti, la possibilità del gioco linguistico sembra dipendere più che dalla nostra capacità di spiegare la natura del significato, (o dal nostro potere di arrestare con una giustificazione ultima l’interminabile scorrere l’un sull’altro dei dubbi), dal riconoscimento della natura infondata delle prassi ordinarie e soprattutto del carattere istintivo della sicurezza che, come si è accennato, coincide, in parte, con il modo di agire istintivo tipico degli animali (cfr. UG: §§358-359).
121 Un esempio particolarmente calzante è il seguente: «Insegniamo al bambino: “Questa è la tua mano”, non:
“Forse (o “probabilmente”) questa è la tua mano”. Così il bambino impara gli innumerevoli giochi linguistici che hanno a che fare con la sua mano. Non gli viene affatto in mente d’indagare, o di chiedere, “se questa sia davvero una mano”. D’altra parte non impara che sa che questa è una mano» (UG: §45).
137
I casi addotti da Wittgenstein per illustrare questo tipo particolare di enunciati sono vari e sostanzialmente coincidono con i truismi del senso comune addotti da Moore (1925; 1939) a sostegno delle sue tesi anti-scettiche: il possedere due mani (UG: §1), il sapere di essere un uomo (UG: §2), l’essere a conoscenza che la terra è un pianeta esistente anche prima che noi nascessimo (UG: §84; §233; §236; §238), l’affermare che l’uomo non è mai stato sulla luna (ante 1969), e così via.
Tali formulazioni, come in generale tutte gli enunciati che delimitano le nostre cornici rappresentazionali non esprimono giudizi dotati di validità epistemica, né asserti dei quali ha senso predicare il vero o il falso122. A dispetto infatti della loro forma empirica (cfr. UG: §§401-402), spesso solo apparente (ammesso che sia la loro forma a deciderne il significato, eventualità che è invece esclusa dal concezione pragmatica del linguaggio di PU123), esse non costituiscono – come crede Moore124 – «la base di una metafisica di
122 Quest’ultimo punto tuttavia è piuttosto controverso e non così rapidamente liquidabile. Secondo
Luckhardt (1978) ad esempio, è vero che Wittgenstein ritiene che non sia possibile predicare degli enunciati mooriani la verità o falsità (tesi sostenuta, ad esempio, da McGuinness 1972; Finch 1975; Perissinotto 1991), e che quindi per essi non abbia senso parlare propriamente né di conoscenza (non possono essere conosciuti perché non sono sottoponibili a dubbio) né di verifica (sono enunciati normativi e non descrittivi); tuttavia, a suo avviso, la possibilità di revocare la categoria della verità per questo tipo di affermazioni viene meno quando ci si trova dinanzi a un uso del concetto di «verità» che più che riferirsi all’espressione di un valore logico, indica la condizione di possibilità stessa del vero e del falso. A sostegno della sua tesi, Luckhardt considera i seguenti passi: «Quest’enunciato mi sembrava fondamentale; se è falso, che cos’è ancora “vero” e che cosa “falso”?!; «Se il mio nome non è L. →. come posso fidarmi di ciò che s’ha da intendere con “vero” e falso”?» (←G: §§ 514-515). In questi esempi, Wittgenstein sembra considerare le proposizioni di Moore come «casi paradigmatici» di proposizioni vere, osserva Luckhardt, (Luckhardt 1978, in Andronico, Marconi, Penco 1988: p. 305), come proposizioni cioè che se non fossero dotate dello statuto della verità non consentirebbero di dare significato ai nostri usi quotidiani di «vero» e «falso». Esse svolgono in altri termini la funzione di fondamento per le tutte altre proposizioni del linguaggio, in quanto sono vere al di là di ogni dubbio. Ben diverso è invece il caso in cui le stesse affermazioni sono considerate da Wittgenstein come «paradigmi» (Luckhardt 1978 in Andronico, Marconi, Penco 1988: p. 310), e non come «casi paradigmatici», ovvero come proposizioni che sono accettate da una determinata comunità di individui per effettuare giudizi e paragoni («Qui l’analogia è tra queste proposizioni e il metro campione, che rende possibile dire che altri oggetti sono (o non sono) lunghi un metro senza in sé essere (o non essere) lunghi un metro»; Ibidem). Luckhardt inoltre fa notare che Wittgenstein usa lo stesso esempio del nome per sostenere, appena qualche riga prima, la tesi contraria a quella appena citata, e cioè che le iniziali L.W. non rappresentano una delle «verità indubitabili» di un’immagine del mondo (quella in cui L.W. è Ludwig Wittgenstein), ma solo dei segni su cui non ha senso porre alcun dubbio: «Perché non c’è nessun dubbio che io mi chiami L.→.? Questa non sembra affatto una cosa che si possa stabilire senz’altro, al di là di ogni dubbio. Non si penserebbe che si tratti di una delle verità indubitabili» (UG: §470). Da questa contraddizione, Luckhardt fa infine notare che in UG si trovano entrambe «le visioni contraddittorie dello status delle proposizioni fondazionali» e che pertanto esse non si possono risolvere rimanendo all’interno del testo wittgensteiniano. A nostro avviso, tuttavia, si può dire che se è in parte vero, come Luckhardt fa notare, che in Wittgenstein vi è un uso ambiguo del concetto di verità, lo è dall’altra il fatto che in molte altre riflessioni non vi sono dubbi sull’uso che egli fa di tale termine e quindi dell’intento pragmatico con cui viene impiegato. L’ipotesi luckhardtiana sembra allora essere legittimata da una mancata revisione da parte di Wittgenstein delle sue note o forse, ancora una volta, da un traviamento delle immagini metafisiche contro cui non cessa di lottare.
123 Wittgenstein ribadisce qui la sua critica al primato semantico della forma proposizionale. Egli anzi sembra
disposto a rivedere l’impiego stesso del termine «proposizione», che è a suo avviso «impreciso» (cfr. UG: §320) e ancora legato alla rappresentazione tracatariana del linguaggio. Poiché quindi è l’impiego e non la forma a definire il significato di ogni proferimento linguistico, Wittgenstein fa cadere la possibilità di distinguere, a priori, proposizioni empiriche e proposizioni grammaticali. La precarietà di questa distinzione,
138
stampo realistico» (Perissinotto 1991: p. 165), ovvero il sistema delle proposizioni inconfutabili ed auto-evidenti che sostanzia il sapere del common sense, perché se da una parte l’esibizione della loro indubitabilità non è necessaria o a volte persino comica, dato il carattere banalmente vero di ciò che esprimono e quindi l’effetto straniante che deriverebbe dalla loro negazione (come potrei negare il fatto di essere un uomo, di possedere due mani o di chiamarmi MG, senza destare sorpresa nel mio interlocutore o al più manifestare la mia incomprensione del significato di questi termini?125), dall’altra la