• Non ci sono risultati.

1. Aspetti storico-giuridici relativi ai provvedimenti di tutela minorile in Italia

1.2 Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta

Durante gli anni delle contestazioni contro i soprusi di un sistema sociale autoritario, si denunciarono apertamente le condizioni di marginalità e reclusione presenti negli istituti16, che Goffman (1968) aveva definito nel 1961 “Istituzioni Totali”. Vennero alla luce le condizioni di vita, tutt’altro che dignitose, in cui versavano i ragazzi che vi passavano la loro infanzia. Nel 1966 lo “scandalo dei celestini” del Rifugio Maria Assunta in Cielo di Prato portò a galla la situazione di bambini maltrattati, che venivano picchiati e subivano punizioni, vivendo “allo stato brado […] malnutriti e privi di assistenza sanitaria” (Nozzoli, in Crainz, 2003:114). Prese il via una serie di inchieste che rilevarono una situazione analoga in diversi altri istituti, ponendo quegli interrogativi sull’assistenza all’infanzia che permisero di riconoscere che quegli ambienti non rispondevano ai bisogni

14 http://www.governo.it/costituzione-italiana/principi-fondamentali/2839

15 Legge 27 Luglio 1967, n.685 Approvazione del programma economico nazionale per il quinquennio 1966-

1970

16 Per un ulteriore approfondimento sugli istituti minorili si veda: “I bambini e gli adolescenti negli istituti

per minori”, Quaderni del centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, 33, 2004

48

di relazione personalizzata necessaria al bambino per crescere. Si avviarono così le prime “sperimentazioni di piccole Comunità per l’accoglienza dei minori che poterono contare sull’intesa tra operatori sociali ed educativi e gli amministratori di Comuni e Province” (Aa.Vv.1999:229).

Negli anni ’70 si assistette alla diffusione delle politiche del welfare che prevedevano il decentramento territoriale dei servizi. Nel 1975 si provvide alla chiusura dell’Onmi, e vennero istituiti con la legge del 29 luglio 1975 n. 405 i consultori familiari, le Regioni si assumevano il compito della programmazione in favore dell’infanzia. La riforma del diritto di famiglia del 1975 (Legge 19 maggio 1975 n. 151) costituì “una tappa assai importante del processo di affermazione di diritti autonomia del minore, […] la podestà non è un diritto sui figli, ma per i figli, l’educazione è vista dinamicamente come sviluppo delle potenzialità del minore” (ibid:229) ed è un diritto dovere che spetta ad entrambi i genitori. La posizione dei figli nati fuori dal matrimonio venne equiparata a quella dei figli legittimi, che fino a quegli anni avevano contribuito al sovrannumero di minori presenti negli istituti. Con gli anni ’80 si affacciò nel panorama assistenziale la compresenza di servizi pubblici e privati, che ancora oggi caratterizza l’operato del terzo settore. La legge del 4 maggio 1983, n.184 titolata "Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori", comparve a ribadire gli articoli 30 e 31 della Costituzione Italiana, dove viene affermato “il dovere e il diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli” e che “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi”, mettendo in primo piano il diritto il minore e non più soltanto quello dei genitori. Questa è la legge a cui, con le successive modifiche, ancora oggi si fa riferimento per gli allontanamenti dei minori dalla famiglia d’origine. Nell’art.1 viene specificato che “il minore ha diritto di essere educato nell’ambito della propria famiglia.”17

Se da un lato si individua nelle relazioni familiari la risorsa fondamentale per lo sviluppo della personalità e dell’autonomia del bambino, dall’altro è proprio in questa legge che per la prima volta vien esplicitata la possibilità di allontanare un bambino dal proprio nucleo familiare qualora questo risulti “inidoneo” alla sua crescita. Per quanto concerne le famiglie con difficoltà economiche, lo Stato si premura attraverso le Regioni e gli Enti Locali di sostenere:

49

“con idonei interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio, al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia” (art.1, comma 3).

Nell’articolo 2, invece si procede ad identificare quelle soluzioni che possono sostenere il diritto del bambino a crescere in un contesto caratterizzato da un clima familiare, diverso da quello della famiglia d’origine, qualora emergano problematicità e situazioni gravi di pregiudizio per il bambino stesso.

Articolo 2:

1.Il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un'altra famiglia, possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una Comunità di tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l'educazione e l'istruzione.

2.Ove non sia possibile un conveniente affidamento familiare, è consentito il ricovero del minore in un istituto di assistenza pubblico o privato, da realizzarsi di preferenza nell'ambito della regione di residenza del minore stesso18

Sebbene in questa legge compaiano sia l’affidamento familiare, che le Comunità a stile familiare, gli istituti sono ancora contemplati come possibile soluzione alle problematicità della famiglia. Nella stessa legge si definisce l’importanza di mantenere il minore lontano dal nucleo originario fintanto che non venga meno la difficoltà temporanea che ha determinato tale provvedimento.

Le Comunità di tipo familiare, vengono nominate quindi per la prima volta in una legge, ma non vengono date indicazioni in merito alla struttura, alle tipologie, al personale. Negli articoli successivi si regola anche l’istituto dell’adozione, specificando che va preso in considerazione per quelle situazioni in cui viene accertato che le condizioni di grave carenza genitoriale sono irreversibili o nel caso in cui i genitori rinuncino volontariamente alla propria responsabilità sul minore. (AaVv 1999:233).

Per quanto riguarda le prime indicazioni in merito all’organizzazione delle Comunità per minori, si trovano dei riferimenti generici nel D. Lgs.n.272/89, relativo ai minorenni sottoposti a provvedimenti penali.

“L’art. 10,c. 2, precisa alcune caratteristiche in merito all’organizzazione e alla gestione delle Comunità che devono rispondere ai seguenti criteri:

- organizzazione di tipo familiare, che preveda anche la presenza di minorenni non sottoposti a procedimento penale, e capienza non superiore alle dieci unità, tale da

50

garantire, anche attraverso progetti personalizzati, una conduzione e un clima significativi;

- utilizzazione di operatori professionali delle diverse discipline;

- collaborazione di tutte le istituzioni interessate e utilizzazione delle risorse del territorio.

Questo è il primo abbozzo di standard di Comunità per minori contenuto in una norma nazionale.” (ibid:234)