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Micro-culture, habitus, abitazione: esperienza di vita delle persone e luogh

In merito alla questione della definizione del concetto di famiglia in un manuale di sociologia della famiglia viene messo in evidenza che:

“Anche in una stessa società ed epoca possono convivere modi di definire la famiglia diversi non solo per motivi di valore, ma per esigenze burocratiche, amministrative, di politiche sociali. Gli individui possono a seconda dei casi identificare diversamente i confini della famiglia anche a livello normativo, la famiglia anagrafica non coincide necessariamente con quella definita dal codice civile e questa con quella definita ai fini fiscali o di politiche sociali.” (Saraceno, Naldini 2007:10)

Questa variabilità delle definizioni della famiglia indica non soltanto le variazioni storico- sociali in cui ‘si fa famiglia’, ma anche la presenza di una “molteplicità di discorsi che definiscono che cosa una famiglia è: discorsi religiosi, morali, legali, delle tradizioni culturali, delle politiche sociali, dei regolamenti amministrativi” (ibid:10). All’interno di una stessa cultura si possono dunque riscontrare differenti prospettive sulla base delle quali identificare e descrivere questo stesso soggetto culturale.

Goodenough (1976:4) afferma che le società (sia semplici che complesse) sono composte al loro interno da una varietà di sotto-culture e micro-culture, tali da permetterci di considerare ‘multiculturale’ ogni cultura. Se, rispetto alla famiglia, abbiamo accennato a cosa significa questa variabilità dal punto di vista teorico e dei ‘discorsi’, da un punto di vista concreto Goodenough ci permette di evidenziare che ci sono aspettative diverse

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legate a ruoli e contesti sociali differenti. I bambini, afferma, imparano che le aspettative dei genitori e degli adulti non hanno lo stesso valore di quelle dei loro compagni. Ciascuna di queste diverse aspettative costituisce una diversa forma di cultura. Queste micro-culture prodotte all’interno della medesima cultura intesa nel senso più ampio come il sistema ordinato di cui esse sono parte, sono quelle che vanno a determinare i diversi modi di comportarsi. Da questa prospettiva si potrebbe leggere l’esperienza dei bambini allontanati dai genitori ed inseriti nelle Comunità come un passaggio da una micro-cultura, la famiglia d’origine, a un’altra, la Comunità educativa. Quest’ultima, sebbene caratterizzata da interazioni quotidiane con persone inizialmente sconosciute ai bambini, viene considerata come più ‘adeguata’ per trasmettere i valori culturali della società di appartenenza, andando a collocarsi come alternativa ad un quotidiano che si suppone sia stato caratterizzato da violenza, mancanza di cura e maltrattamenti.

A questo punto si reputa essenziale introdurre il concetto di habitus e di incorporazione, che caratterizzano le interazioni tra bambini e adulti, sia nella famiglia d’origine che nella Comunità di arrivo.

Per comprendere attraverso quali processi ci si appropria di un dato modo di agire ed interpretare la realtà, acquisendo i significati appartenenti alla propria cultura, Mauss (1991) propone di utilizzare la nozione di habitus per esprimere l’idea di ‘esperienza’ connessa al concetto di ‘tecniche del corpo’, intendendo l’habitus come una serie di ‘abitudini’ che variano con gli individui e le loro imitazioni, ma soprattutto con il variare delle società e delle educazioni. Nel saggio in cui l’antropologo mette in luce l’importanza del corpo come ‘oggetto tecnico’ egli si sofferma anche nel descrivere come le abilità si trasmettano attraverso l’imitazione:

“Il bambino, l’adulto, imitano fatti che hanno avuto esito positivo e che hanno visto compiere con successo da parte di persone in cui hanno confidenza e che esercitano un’autorità su di loro. (Mauss, 1991:390)

L’apprendimento di una cultura, avviene in primo luogo attraverso i corpi. Bourdieu (2005) rielabora in maniera più ampia il concetto di habitus, definendolo come il risultato di condizionamenti connessi con una specifica classe di condizioni di esistenza.

“[Gli habitus sono] sistemi di disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanto principi generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adatte al loro scopo senza presupporre la posizione cosciente di fini” (Bourdieu, 2005:84)

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L’habitus determina l’azione nel presente, senza essere definito da strategie, organizzazione o scopi prestabiliti, è il frutto delle esperienze passate che “depositate in ogni organismo sotto forma di schemi di percezione, di pensiero e di azione, tendono, in modo più sicuro di tutte le regole formali e di tutte le norme esplicite, a garantire la conformità delle pratiche e la loro costanza attraverso il tempo” (Bourdieu, 2005:86). Questo concetto ci permette di evidenziare come nella realtà delle Comunità per minori, che nascono come organizzazioni in cui la co-costruzione della vita quotidiana è regolata anche da norme specifiche stabilite e costruite nel tempo, le azioni che vengono messe in atto dagli educatori con l’obiettivo di ‘fare famiglia’, sono determinate anche sulla base di

habitus incorporati soggettivamente. Queste abitudini incorporate derivano dalle

esperienze passate di ciascuno e sono state determinate sia dal punto di vista professionale che dal punto di vista più intimo legato alle esperienze di acquisizione dei valori culturali attraverso le relazioni con la propria famiglia d’origine.

L’antropologo francese considera il contesto delle relazioni familiari e della sfera domestica, in quanto manifestazioni della divisione del lavoro tra i sessi, universo degli oggetti, modi di consumo, e rapporti con i parenti, come ambiente privilegiato della dialettica dell’incorporazione dell’azione, riconoscendo nell’abitazione stessa il luogo dove inizia questo processo di acquisizione di pratiche.

Vorrei quindi soffermarmi a riflettere sulla casa, come struttura che permette la trasmissione di significati culturali, e come elemento significativo del ‘fare famiglia’, considerando sia l’aspetto organizzativo ad essa legato, che quello fisico, in quanto è anche nell’interazione con ambienti (naturali o artificiali) che si determina l’agire delle persone. La casa, sostiene Mary Douglas (1991), ha inizio con l’azione di mettere dello spazio sotto controllo. Eppure, essa non è soltanto uno spazio, ma anche una struttura nel tempo, è quindi organizzazione di tempo e di spazio (ibid:289-290). In relazione alla struttura legata al tempo, Douglas mette in evidenza come i ritmi della casa siano legati a cicli annuali, e a cicli più brevi, giornalieri, e come la pianificazione si costituisca come capacità di anticipare le necessità, fornendo stabilità. Un altro aspetto che Douglas evidenzia è la necessità della rotazione, come modalità di accesso coordinato alle risorse fisse, generando un sistema dove la solidarietà fra i componenti è vista come elemento essenziale di coordinazione (ibid:299-300). Come osserveremo nell’iter diacronico che dagli istituti per minori arriva alle Comunità di accoglienza (trattato nel prossimo capitolo), la caratteristica

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strutturale di ambienti “simili a civile abitazione” è pensata appositamente per offrire spazi domestici dove le interazioni di reciprocità fra adulti e bambini prendono vita all’interno dei ritmi quotidiani che scandiscono le giornate. Nella sezione etnografica, sarà indispensabile rilevare che la presenza di aspetti routinari e la creazione di ritmi giornalieri, fanno parte di quelle pratiche volte al ‘fare famiglia’ che insieme agli ambienti condivisi della casa, vanno a sostanziare la relazione quotidiana fra adulti e bambini.

La casa può essere vista sia come uno spazio costruito sia come uno spazio da abitare. Come sostiene Tim Ingold (2004:138), il processo del ‘costruire’ è un processo che prosegue per la totalità del tempo in cui un ambiente viene abitato, e l’aspetto finale è soltanto ‘un momento passeggero’ poiché “è nel processo stesso dell’abitare che costruiamo”.

Questi aspetti possono essere ritrovati nella Comunità per minori, dove l’elemento della temporaneità della permanenza dei bambini evidenzia come la loro presenza, il loro ‘abitare’ gli spazi della Comunità, sia allo stesso tempo un ‘costruire’ gli ambienti all’interno dei quali vivono. Con piccoli gesti si appropriano degli spazi, appendere dei disegni, appoggiare degli oggetti significativi vicino al letto, spostare la disposizione dei letti o dipingere una parete (come nel caso di una delle madri ospitate come vedremo nell’etnografia).

“L’atto di abitare” è considerato “come pratica sociale complessa, e consiste nell’assorbire abitudini, formare e condividere costumi, costruire (simbolicamente) una rete di significati culturali nell’ambiente naturale di vita”. (Ligi 2003:124).

“Ogni tipologia di casa, in un preciso momento storico e in un luogo specifico nello spazio geografico ci appare come un ‘compresso di civiltà’ (Bromberger citato in Ligi 2003), un condensato dei principali elementi o tratti culturali di una società.” (ibid:124).

Seguendo questi ragionamenti, si può quindi vedere la casa come portatrice di cultura, non solo come contenitore di processi sociali, ma come processo sociale (ibid:126): capace di connettere tutti gli elementi essenziali di una cultura, la struttura sociale, il sistema di credenze, e le emozioni. Nella Comunità per minori in cui è stata svolta la ricerca, la disposizione degli spazi e la presenza di alcuni ambienti, suggerisce alcune pratiche che possono essere comunemente riconosciute come tipiche del ‘fare famiglia’ nella ‘nostra’ cultura: il salotto come spazio comune dove guardare la tv la sera tutti insieme, o come spazio di gioco per i bambini durante il pomeriggio, il ripostiglio dove riporre detersivi e

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strumenti necessari alla pulizia della casa, la cucina dove i pasti vengono preparati dagli adulti e consumati insieme.