2.2.1 “Il periodo critico è stato superato”
Il 1950 rappresentò per più motivi un anno di svolta per la presenza internazionale dell’Italia: in primo luogo, la celebrazione del giubileo richiamò l’attenzione della stampa e del turismo non solo su Roma, ma sul Paese intero, che si rendeva conto dell’importanza dell’evento come “vetrina” per presentare all’opinione pubblica straniera la ricostruzione postbellica; in secondo luogo, l’Italia ottenne di ospitare a Firenze, tra maggio e giugno, la conferenza generale dell’Unesco, riuscendo a dar prova di organizzazione nel radunare artisti, intellettuali e diplomatici di 56 stati partecipanti: la proposta era stata avanzata dalla delegazione italiana nella conferenza di Beirut del 1948 ed accolta all’unanimità nella conferenza dell’anno seguente a Parigi; in terzo luogo, giunsero a risultati più concreti ed estesi gli sforzi compiuti nei primi anni della Repubblica dal ministero degli esteri, e in particolare dalla Dgrc, con la fondazione o la riapertura di numerosi istituti di cultura e la definizione più precisa e aggiornata dei loro compiti e delle loro funzioni. Infine, da un punto di vista politico-diplomatico ma non privo di risvolti simbolici, si deve ricordare l’affidamento in amministrazione fiduciaria all’Italia dell’ex colonia somala, che sanciva in un certo senso il primo riconoscimento internazionale di una ritrovata maturità e affidabilità, e che proprio in questo modo venne presentata dal governo agli italiani e agli stranieri: l’Italia era nuovamente in grado di esercitare una “missione di civiltà”, e avrebbe inteso il suo compito in Somalia come “banco di prova” di fronte agli occhi del mondo.
Ad evidenziare che lo stato di salute della rete culturale italiana fosse in via di miglioramento, per lo meno se confrontato al periodo successivo all’uscita dal conflitto, fu il professor Alfonso Pellegrinetti che aveva emesso due anni prima, come si è visto, una diagnosi molto preoccupata e pessimista sul futuro di quest’area di attività:
“possiamo oggi affermare che il periodo critico è stato superato e che, a malgrado di difficoltà tuttora notevoli, il momento della ripresa della cultura italiana nel mondo straniero non dovrebbe ormai essere lontano. L'azione svolta dal Ministero degli Affari Esteri nel periodo che va dal 1944 al 1950 può essere distinta in tre momenti: 1) smobilitazione dell'apparato culturale e scolastico che aveva assunto, negli ultimi tempi, un carattere inflazionistico a causa della politica e della guerra; 2) riorganizzazione degli
96 Uffici centrali preposti alla irradiazione della civiltà italiana nel mondo; 3) ripresa dell'attività culturale e scolastica su nuove linee e con nuovi programmi”49.
Passando in rassegna le diverse fasi che aveva individuato, Pellegrinetti affermò che solo “il buon senso del Capo del Governo”, cioè di De Gasperi, e “la tenace difesa dei diritti della cultura” di uno degli ultimi direttori generali della direzione degli italiani all’estero, l’ambasciatore Bombieri, avevano reso possibile “il salvataggio delle posizioni-base sulle quali avrebbe potuto fondarsi più tardi una parziale ripresa”. Quelle scelte effettuate fra il ’45 e il ’47 iniziavano a mostrare la loro giustezza, ora che iniziava una “rivalutazione lenta, ma sensibile” delle scuole e degli istituti di cultura e che il mondo straniero riprendeva a sollecitare “incontri e scambi con la nostra civiltà”. Il bilancio dell’attività della Dgrc stava migliorando, in particolare per l’accresciuta presenza di docenti italiani in istituti superiori e università straniere (120 in totale, di cui 35 professori universitari), per la diffusione di mostre del libro e dell’arte italiana, per l’incoraggiamento dato ovunque nel mondo alle associazioni interessate alla lingua e alla cultura italiana, per l’intensificarsi dei rapporti con l’Unesco. La Dgrc conobbe agli inizi dell’anno un avvicendamento al vertice: il direttore Talamo cedette il posto al ministro plenipotenziario Mameli, che era già stato lungamente in servizio anche prima della guerra al ministero degli esteri, con esperienze di capo-delegazione in Lettonia, Portogallo e Bulgaria. L’ambasciatore francese a Roma, nel segnalare questo cambiamento al suo governo, affermò che si trattava solo dell’ultima manifestazione della “crise administrative” di cui la Dgrc soffriva fin dalla nascita. Talamo si era più volte lamentato di “travailler dans le vide” a causa della indeterminatezza delle sue attribuzioni e della presenza di altri enti con fini analoghi:
“On doit noter, en effet, que ce service ne comporte guère que des attributions théoriques. Il ne s’occupe ni des conférences à l’étranger (qui resortissent à l’Association Dante Alighieri), ni des congrès (qui regardent le Ministre de l’Instruction Publique), ni de la musique, du théatre et du cinéma (qui entrent dans les attributions de la Présidence du Conseil), ni des expositions d’art graphique (pour lesquelles est compétente la Direction Générale des Beaux-Arts au Ministère de l’Instruction Publique. D’autre part, en ce qui concerne les rapports internationaux de caractère scolaire, la Ministère de l’Instruction Publique entend les conduire et, à cet effet, a été créée une Direction Générale des échanges universitaires […]. Si l’on ajoute qu’à leur tour les Universités ont une conscience
49
A.Pellegrinetti, Ripresa dell’attività culturale e scolastica all’estero, in “Italiani nel mondo”, a.VI, n.13, 10 luglio 1950
97 extremement chatouilleuse de leur autonomie, on voit que la Direction Générale des Relations Culturelles du Ministère des Affaires Etrangères se borne bien souvent à n’etre qu’un organisme de liaison”50.
Secondo la ricostruzione di Fucques-Duparc, il predecessore di Talamo, Francesco Flora, aveva lasciato l’incarico per l’incapacità di adeguarsi all’ambiente di Palazzo Chigi, sebbene stimato per le sue qualità intellettuali; Talamo invece aveva avuto difficoltà di relazione con il ministero dell’istruzione pubblica e con gli ambienti universitari, e benché non fosse stato attaccato personalmente, aveva visto comparire su organi a stampa anche filogovernativi attacchi per la scarsa efficacia della sua direzione generale.
Per quanto riguardava i rapporti con l’Unesco, con il decreto interministeriale dell’11 febbraio 1950 fu insediata in via definitiva la Commissione nazionale per l’educazione, la scienza e la cultura, con sede a Palazzo Massimo, un organo consultivo presieduto dal senatore Alfonso Casati e avente come segretario generale il professor Vittorio Branca. Il direttore generale dell’Unesco, il messicano Torres Bodet, intervenne ad inaugurarne i lavori con una conferenza a Roma, durante la quale lodò l’importanza del contributo italiano alla civiltà mondiale e i “grandi titoli della cultura italiana”, cui ogni Paese tornava a guardare con interesse e dei quali l’organizzazione da lui guidata intendeva avvalersi per i propri fini51. La Commissione fu ripartita in cinque comitati (educazione, scienze naturali, scienze umane e sociali, cultura, comunicazione e informazione) e da essa furono esclusi intellettuali dell’area politica di sinistra, per la volontà del governo di far combaciare gli indirizzi della politica culturale con quelli più generali derivanti dall’alleanza atlantica. Della commissione avrebbero fatto parte senatori come Ciasca e Sapori, entrambi storici; alcuni deputati fra i quali Aldo Moro; rappresentanti della presidenza del consiglio, del ministero degli esteri e della pubblica istruzione; intellettuali, medici giuristi ed artisti provenienti dalle più alte istituzioni culturali del Paese, come l’Accademia dei Lincei (il critico d’arte Lionello Venturi), il Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Accademia di Santa Cecilia, la Giunta centrale per gli Studi Storici (il professor Luigi Salvatorelli), la Biennale di Venezia, il Centro Sperimentale
50
AMAEF, R.C. 1948-1955, Série II, Echanges Culturelles, II.13.Italie, Départ de M.Talamo de la
Direction Générale des Relations Culturelles, Roma, 3 marzo 1950
51
98 di Cinematografia (con Vittorio de Sica), e ancora lo scrittore Giuseppe Ungaretti e il pedagogista Giovanni Calò52.
2.2.2 La conferenza generale dell’Unesco a Firenze
Il primo compito della Commissione fu ovviamente quello di assicurare il successo della quinta conferenza generale a Firenze, preparando l’accoglienza delle delegazioni straniere nella sale di Palazzo Pitti: si trattava del più importante appuntamento internazionale ospitato dall’Italia dalla fine della guerra. Esso coronava il percorso compiuto fin dall’ingresso nell’Unesco, che era stato agevole e spedito: già nel 1948 Stefano Jacini, capo della delegazione italiana alla conferenza di Beirut, era stato eletto membro del consiglio esecutivo, su proposta di Francia e Stati Uniti. Un fatto di “grande importanza morale” per l’Italia, benché – come alcuni osservavano con rammarico – l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica in patria nei riguardi dell’Unesco fosse scarsa. Nella conferenza di Parigi del 1949 il professor Giuseppe Vedovato aveva tenuto uno degli interventi più apprezzati sul tema dei “doveri degli Stati per la comprensione fra i popoli” attraverso le relazioni culturali. La conferenza generale di Firenze si presentava come un’occasione per legare ancor più strettamente il nome dell’Italia all’Unesco, e indirettamente bussare alla porta dell’Onu, oltre che per esercitare un’influenza ideologica e culturale sui suoi orientamenti: lo stesso segretario della Commissione italiana, Branca, espresse in una lettera a Vittorino Veronese, presidente dell’azione cattolica e membro delle delegazioni italiane nelle conferenze dell’Unesco fin dal 1948, l’intenzione di usare la coincidenza fra l’Anno Santo e l’appuntamento fiorentino per imprimere all’organizzazione internazionale un carattere di umanesimo cristiano, in antagonismo con lo scientismo laico dei Paesi anglosassoni53. Il proposito fu ripreso durante la conferenza a Palazzo Pitti anche dal ministro dell’istruzione Gonella, che in qualità di capo designato della delegazione italiana rivendicò di fronte agli oltre 800 rappresentanti dei 56 stati membri la specificità di ogni cultura contro le ipotesi di omologazione e contro le derive “meccaniciste”, per poi ricordare – a nome degli italiani – “la grande opera di pacificazione e di incivilimento che ha compiuto e compie la Chiesa Cattolica, in tutti i
52
cfr. ASCNIU, Miscellanea, b.378, Decreto ministeriale 15 marzo 1951 – Composizione della
Commissione nazionale per l’educazione, la scienza e la cultura
53
99 tempi e in tutti i continenti”. Essa non poteva essere “ignorata” da un’organizzazione come l’Unesco, i cui scopi educativi erano raggiungibili solo con una “rinascita della vita morale dell’uomo” dopo gli orrori della guerra e le distruzioni causate dall’avanzamento della “mera tecnica scientifica”. In questo era indispensabile, secondo Gonella, la spiritualità cristiana, e l’Italia con l’organizzare la quinta conferenza generale sperava che l’Unesco ne tenesse sempre più conto54
.
La conferenza durò dal 22 maggio al 18 giugno e conobbe momenti di forte tensione, dovuti al clima di guerra fredda che si andava aggravando, e culminati nelle dimissioni, prima offerte e poi ritirate, da parte del direttore generale, il messicano Torres Bodet. L’incidente si era verificato sia a causa dei contrasti sorti tra le delegazioni (specialmente a proposito del riconoscimento della Cina comunista, che non fu invitata in quanto non riconosciuta dall’Onu, il che provocò l’abbandono di Cecoslovacchia e Ungheria) sia per le dure critiche che egli aveva ricevuto (in particolare accuse di “burocratismo”). Il poeta e giornalista Eugenio Montale redasse la cronaca di quelle settimane per il “Corriere della Sera”, fin dalla giornata inaugurale con l’intervento del presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, il quale accolse appropriatamente i delegati con un discorso ricco di riferimenti a Dante Alighieri e alle sue esortazioni alla virtù e alla conoscenza dell’uomo, sottolineando l’importanza simbolica che l’evento ricopriva per l’Italia55
. Torres Bodet si rivolse agli organizzatori affermando: “[l’Italia] è una delle nazioni sul cui contributo il mondo maggiormente conta. Grazie al talento dei suoi specialisti e al valore dei suoi tecnici, l’Italia possiede in abbondanza proprio quelle ricchezze umane che noi cerchiamo. In questa mobilitazione dell’intelligenza al servizio del progresso universale l’Italia potrà abbracciare una missione in armonia con le più nobili tradizioni della sua gente”56
. Al termine della conferenza Montale scrisse che nella giornata conclusiva era stato elevato da molti rappresentanti “un inno […] a Firenze, la città dove l’Unesco [aveva] rischiato di far naufragio e dove invece essa [era] risorta […] non meno forte e agguerrita”57. Durante i venticinque giorni di lavori, ai delegati erano stati proposti molti svaghi turistici a carattere artistico e culturale, con gite a Pisa, Assisi, Siena, Ravenna, e appuntamenti teatrali e musicali nel capoluogo toscano, nell’intento di far conoscere a intellettuali e diplomatici di tutto il mondo la
54
I compiti fondamentali dell’Unesco nell’ampio discorso di Gonella a Firenze, ne “Il Popolo”, 24 maggio 1950
55
Einaudi inaugura a Firenze il parlamento della cultura mondiale, in “Corriere della Sera”, 23 maggio 1950
56
cfr. AP, Camera dei deputati, Discussioni, 23 maggio 1950
57
100 ricchezza del patrimonio storico e la vivacità della rinascita postbellica in Italia. La Commissione italiana ottenne il plauso generale e la soddisfazione di veder eletto il senatore Jacini alla carica di presidente del consiglio esecutivo, che avrebbe ricoperto fino al 1951: “E’ il primo italiano che assuma una carica di grande responsabilità in un’organizzazione delle Nazioni Unite”, notò il periodico “Relazioni Internazionali”, e questo rappresentava una “dimostrazione di fiducia verso l’Italia”58
. Inoltre, l’Italia avanzò 27 proposte all’assemblea dell’Unesco, di cui ben 25 furono accolte: fra queste, una risoluzione per la presentazione alla commissione delle Nazioni Unite di un codice di diritto internazionale per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto. L’Italia aveva subito durante la guerra gravi ferite anche al patrimonio artistico e monumentale, e intendeva portare l’attenzione su questo tema rendendosi protagonista di una convenzione di tutela. Il progetto del codice era stato redatto nei mesi precedenti la conferenza, di concerto fra il ministero dell’istruzione e la Commissione nazionale per l’Unesco.
2.2.3 Il nuovo Statuto degli istituti di cultura e i dibattiti parlamentari sugli enti culturali italiani
Pochi giorni dopo la fine della Conferenza fiorentina, il 24 giugno, fu approvato un decreto interministeriale (“Decreto di fondazione degli istituti italiani di cultura all’estero”) sul funzionamento degli istituti di cultura, che definiva il loro “Statuto”: essi avrebbero svolto il ruolo di “organismi di informazione, consulenza e documentazione culturale, di centri di diffusione della lingua e della cultura italiana nelle sue varie espressioni, di rappresentanze culturali italiane all’estero”59
. In questo modo l’ente veniva “rilanciato definitivamente”60
come architrave della politica culturale all’estero: si riconoscevano e legittimavano gli istituti che erano nati o sopravvissuti negli anni precedenti in una situazione giuridica mal definita, e si programmava l’apertura o la riapertura di nuove sedi, stabilendo che una quota delle spese degli istituti - il 70% - sarebbe stata sostenuta dal bilancio dello Stato, mentre il restante sarebbe venuto da contributi di privati, da quote sociali e da quote di iscrizioni ai corsi di lingua e cultura. Il personale sarebbe stato scelto dal ministero degli affari esteri “nella più larga rosa
58
I lavori dell’Unesco a Firenze, in “Relazioni Internazionali”, 24 giugno 1950
59
M.Baistrocchi, Elementi di politica culturale estera, Armando Editore 1985, p.61
60
101 possibile di aspiranti, e cioè docenti universitari e medi, funzionari di tutte le Amministrazioni dello Stato ed estranei all’Amministrazione”61
. Nel corso del 1950 nacquero a Zurigo il “Centro di studi italiani in Svizzera”, il 18 febbraio, come centro di coordinamento e di stimolo di tutte le iniziative culturali nel Paese elvetico, diretto dal professor Arnaldo Bascone, e a Londra l’istituto italiano in Belgrave Square, inaugurato il 18 maggio alla presenza dell’ambasciatore Gallarati Scotti, di Stefano Jacini e di Carlo Sforza, del direttore generale del British Council, Ronald Adam (il quale si augurò che potesse presto sorgere in Gran Bretagna un altro istituto, a Edimburgo, e affermò che il suo Paese aveva un debito verso la civiltà italiana), nonché dello scrittore Thomas Stearns Eliot. In tale occasione il ministro degli esteri italiano combinò ai riferimenti culturali obbligati a Dante e a Shakespeare un discorso diretto contro lo Jugoslavia e la negazione dell’italianità della “zona B” dell’Istria, accusando i “giovani crociati di una religione senza Dio” di voler cancellare l’impronta di una civiltà da Buie, Umago e Capodistria62. L’ambasciatore, in un’orazione marcatamente politica, affermò che le forze della cultura costituivano “il nerbo, il nocciolo della grande civiltà occidentale cristiana, il vincolo sacro che ci lega al disopra di tutte le differenze, la ragione stessa della nostra ansietà nel difenderci, perché un’ora di follia non abbia da spezzare questa cosa immensa e sublime che è la tradizione del pensiero, delle arti, della moralità delle nostre nazioni [europee]”. La cultura era dunque “uno dei punti di reale incontro” fra l’Italia e l’Inghilterra, entrambe facenti parte del “mondo dei liberi”. Poche settimane dopo l’istituto inaugurò le sue attività con una mostra del libro d’arte italiano e un ciclo di concerti – con la partecipazione di compositori contemporanei, come Luigi Dallapiccola - e proiezioni di film. Nel corso dell’anno fu anche aperta una mostra di cimeli verdiani, in corrispondenza con una visita del complesso della Scala al Covent Garden. In Spagna fu inaugurato l’istituto di Barcellona, diretto da Renato Freschi, in Finlandia quello di Helsinki (nella capitale finlandese un centro culturale italiano era stato in realtà già attivo dal 1941, fondato e diretto dal professor Roberto Wis) e in Turchia di Istanbul (un accordo culturale italo-turco sarebbe stato stipulato il 17 luglio del 1951, in virtù dell’interessamento del presidente anatolico che, in una conversazione con l’ambasciatore italiano nell’ottobre del 1950, insistette sulla “opportunità di rinsaldare e rafforzare i vincoli di amicizia […] anche e sopra tutto nel campo
61
Gli Istituti italiani di Cultura all’estero, in “Documenti di Vita italiana”, novembre 1958, p.110
62
102 commerciale e culturale”)63
; in nord Africa fu aperto un istituto al Cairo; in America latina nacque l’istituto italiano di Montevideo e furono adattati al nuovo Statuto quelli di Lima (che era stato già riaperto nel 1945 come “Istituto culturale peruviano-italiano”) e di San Paolo del Brasile (che da due anni era attivo come “Instituto Cultural Italo- Brasileiro”).
Questa accelerazione non acquietava però le polemiche parlamentari sugli scarsi stanziamenti per le relazioni culturali: anzi, proprio il fatto che gli accordi culturali e gli istituti crescessero rendeva ancor più problematica la carenza di risorse. Esisteva il rischio di confinare alle cerimonie d’inaugurazione e alle foto d’occasione la vita degli istituti, se non si cambiava radicalmente il modo d’intendere le uscite statali per la diffusione della cultura. Il deputato Franceschini, intervenendo alla Camera il 28 giugno del ’50, ricordò che nell’ottobre del ’49 l’assemblea aveva votato un ordine del giorno che invitava a reperire, per il successivo esercizio finanziario del ministero degli esteri, fondi molto più consistenti rispetto a quelli stanziati fino ad allora, in modo da poter varare un piano “consono al decoro e alle crescenti esigenze di un’alta consapevole politica culturale”. Il ministero degli esteri aveva in seguito presentato un programma minimo, che in quest’ambito prevedeva una spesa di 2 miliardi di lire, “poco di fronte alla somma di oltre 5 miliardi stanziati dalla Francia, poco di fronte agli stanziamenti inglesi e, in proporzione, anche agli stanziamenti belgi; poco soprattutto in relazione all’immenso patrimonio culturale e artistico, che fa dell’Italia in questo campo la prima fra le nazioni”. Eppure, anche questa volta il ministero del tesoro aveva accordato solo un aumento di 106 milioni per il bilancio del 1950-51: ovvero, considerando il mutato tasso di cambio fra lira e dollaro statunitense, non aveva apportato “nessun beneficio reale”. Con meno di un miliardo nel complesso, rimaneva impossibile operare con larghezza di mezzi per “l’impegno grave, urgente, non solo strettamente specifico, ma proprio di politica estera generale, ed anche economica oltre che sociale, di propagare, di diffondere il nostro prestigio fra gli Stati”, cosa che l’Italia poteva fare “usando quel veicolo di essenziale importanza, e per noi di estrema facilità, che è appunto il complesso dei nostri rapporti culturali”. Franceschini passò poi ad elencare i punti più critici del bilancio della Dgrc: per il capitolo che riguardava esposizioni, mostre internazionali e manifestazioni artistiche e culturali, a fronte di 132 milioni richiesti ne erano stati concessi 35; gli istituti di cultura, per i quali era stata formulata una richiesta
63
103 minima di 182 milioni, dovevano sopravvivere ed operare (inclusi quelli da poco