• Non ci sono risultati.

2.3.1 Le molteplici rappresentazioni dell’Italia tra sforzi governativi, stampa estera e vincoli politici internazionali

Nel corso dell’Anno Santo, che coincise con l’inizio di uno dei periodi di maggiore tensione nell’ambito del confronto bipolare, l’immagine che il governo italiano a guida democristiana cercò di veicolare all’estero fu quella di un Paese risolutamente schierato con l’alleanza atlantica e alfiere dell’unità europea, in piena e vivace ricostruzione (per rafforzare questa impressione il governo ampliò la partecipazione alle fiere internazionali, passando da sole due presenze nel 1947 a ben 28 nel 1950), capace e desideroso di tornare ad assumersi responsabilità internazionali. All’interno del partito di maggioranza, com’è noto, non mancavano distinguo polemici rispetto al grado di “atlantizzazione” da interpretare – si pensi all’accusa di “isterismo bellicista” rivolta nel 1951 dall’allora presidente della Camera Gronchi al ministro della difesa Pacciardi – ma nel complesso le tendenze neutraliste che avevano contraddistinto i primi anni del dopoguerra erano ormai sfumate sotto la spinta della nuova contingenza internazionale e le dinamiche politiche interne.

Gli aspetti su cui si insisteva nei discorsi ufficiali e nell’impostare la politica culturale all’estero variavano a seconda del teatro d’azione: nei confronti degli Stati latino- americani, della Francia e della Spagna prevalevano i richiami alla comune radice latina e gli inviti, più retorici che concreti, a formare un “fronte comune” che la tutelasse. Tuttavia, questa difesa della latinità – che faceva tutt’uno con l’identità cattolica - fu più orientata polemicamente contro il materialismo marxista che contro l’influenza culturale anglosassone, in quel momento bersaglio preferito delle forze politiche di sinistra. Negli Stati Uniti si puntò in modo particolare sul contributo dato dagli italiani emigrati oltreoceano allo sviluppo della potenza economica americana, cercando di creare una corrente di simpatia e di rispetto per la laboriosità e l’inventiva di un popolo capace di trovare per le vie del mondo il riscatto alle angustie di una terra natale dal nobile passato, ma avara di risorse e di spazio. Conoscendo l’attitudine pragmatica degli americani, segnalata a più riprese dalle rappresentanze diplomatiche nel definire le possibili linee di un’azione di promozione dell’immagine italiana negli Usa, fu dato spazio ad esposizioni di artigianato che illustrassero la capacità di coniugare stile, pregevole fattura ed utilità pratica (si pensi all’esposizione “L’Italia al lavoro”, che

124 all’inizio degli anni Cinquanta attraversò le principali città statunitensi allo scopo di stimolare l’interesse del pubblico americano per le creazioni italiane). Allo stesso tempo veniva sottolineato il saldo progresso nella ricostruzione industriale e infrastrutturale dell’Italia, anche allo scopo di rassicurare l’opinione pubblica statunitense sull’utilità degli aiuti destinati tramite il Piano Marshall. Molto meno ampie e diffuse fino a questo momento furono invece le iniziative propriamente culturali nell’ambito artistico e letterario, sia per la mancanza di un centro d’irradiazione che le organizzasse e le coordinasse, sia per la persistente chiusura della “Dante Alighieri”, sia per la ristrettezza della cerchia di intellettuali e di accademici americani interessati (il ruolo più attivo era svolto dalla “Casa italiana” della Columbia University, vero centro d’informazioni sull’Italia per studiosi, case editrici, giornali, dotato di una biblioteca di circa 25.000 volumi). Nel Medio Oriente si puntò sul prestigio delle istituzioni scolastiche e ospedaliere italiane, non raramente gestite da enti religiosi, e su un’immagine dell’Italia democratica come ponte fra popoli arabi e popoli occidentali, che sarebbe poi stata ripresa e ampliata durante gli anni del cosiddetto “neoatlantismo”.

Un piano organico di rilancio dell’immagine italiana a livello globale, tuttavia, stentava a prendere forma: le iniziative culturali all’estero appaiono, a cavallo tra i due decenni, non coordinate da un unico disegno centrale ma affidate piuttosto alla variegata iniziativa delle sedi diplomatiche, di enti di diritto pubblico e di società private a vario titolo interessate. Se è vero che all’entrata negli anni ’50 fu ridefinito dal ministero degli esteri lo statuto degli istituti di cultura e fu assegnato ad essi il ruolo di punta nel diffondere l’arte e il pensiero italiano negli altri Paesi, va però rilevato che, al di là della struttura organizzativa e degli scopi generali della loro azione, mancavano indicazioni puntuali sul tipo di manifestazioni da organizzare, sulle forme d’arte cui dare maggiore evidenza, sui periodi dello sviluppo storico-artistico da mettere in rilievo, sugli argomenti e sul taglio da dare all’impostazione complessiva di cicli di conferenze e lezioni. Questo da un lato configurava una maggiore flessibilità e adattabilità ai diversi contesti in cui gli istituti operavano, sulle base delle scelte dei rispettivi direttori; dall’altro rischiava di provocare una dispersione eccessiva, una frantumazione delle iniziative e dei contenuti dell’azione culturale italiana. Ne risultava un’immagine dell’Italia assai variabile da Paese a Paese e anche all’interno dei singoli stati a seconda della fascia sociale e di istruzione.

Dal punto di vista artistico e musicale, l’Italia del passato era riconosciuta sulla stampa europea e americana come indiscutibilmente centrale nella vicenda della civiltà

125 occidentale; i titoli di merito però non si trasferivano in modo automatico all’Italia presente, della quale l’espressione più apprezzata era il cinema neorealista, ma che appariva periferica negli altri campi. Peraltro la produzione cinematografica, come si è già accennato, era oggetto di critiche da parte delle comunità di emigrati perché si privilegiavano “sfondi e soggetti di miseria, delinquenza e immoralità”101

. Il successo del cinema neorealista appariva a molti legato, oltre che alle indubbie qualità tecniche ed artistiche, al fatto che esso dava dell’Italia un’immagine antitetica rispetto a quella muscolare e trionfante che il fascismo aveva cercato di proiettare oltreconfine. Secondo un tipico tic nazionalista, ciò rappresentava una ferita all’”onore” italiano, e incontrava il favore del pubblico straniero proprio per questa possibilità di “compatire” un popolo che aveva recitato per vent’anni e nascosto le condizioni reali del Paese. Nel 1952 l’onorevole Andreotti accusò il film “Umberto D”, diretto da Vittorio De Sica, perché a suo avviso si concentrava sugli aspetti più deteriori della realtà nazionale e rendeva dunque un cattivo servizio all’Italia. In ogni caso, il successo del cinema italiano permetteva di ritagliare un ruolo di primo piano per un campo artistico di vasta diffusione popolare, che poteva rappresentare “potente strumento di propaganda e di italianità all’estero”, e confermare Roma nella sua qualità di “importante centro cinematografico […] realizzando così nell’Urbe un’autentica internazionale della pellicola”102

. Agli inizi degli anni ’50 la presidenza del consiglio decise di consultare tutte le rappresentanze diplomatiche “tenuto conto della vasta diffusione del film italiano nel mondo” e “allo scopo di meglio coordinare ed indirizzare la nostra corrente di esportazione cinematografica”, invitando le ambasciate a fornire una situazione dettagliata e aggiornata della cinematografia nei vari Paesi e inviando un questionario che comprendeva domande sul numero delle sale, sugli stabilimenti di sviluppo e stampa, sul numero e la nazionalità dei film proiettati, e più in particolare sull’accoglienza e le prospettive dei film italiani103

.

In ambito politico, i ricorrenti allarmi per il possibile scivolamento della Penisola nell’orbita sovietica e per i ritorni di fiamma dell’ultranazionalismo fascista tradivano una visione paternalistica specialmente da parte anglosassone: la giovane democrazia italiana era gracile poiché “importata”, le istituzioni liberali, la separazione dei poteri e

101

Gli Italiani all’estero e i nostri film, in “Italiani nel mondo”, a. VII, n.21, 10 novembre 1951

102

S.Introna, Evidenti progressi della cinematografia italiana, in “Italiani nel mondo”, a. VII, n.5, 10 marzo 1951

103

ASMAE, Raccolta delle circolari e istruzioni ministeriali, circolare n.4293, Situazione della

126 la laicità dello stato erano concetti a cui gli italiani non erano ancora avvezzi, in parte per la pesante impronta lasciata dal regime mussoliniano, in parte per le naturali inclinazioni che britannici e americani attribuivano ai popoli mediterranei. Sull’importante periodico statunitense “The Reporter”, nel marzo del 1951, apparve una pesante denuncia delle persistenze fasciste in Italia, che fu segnalata a Roma dall’ambasciata di Washington:

“Il fascismo è quasi tornato di moda in talune città dell’Italia Meridionale come Bari e Salerno, nonché in Lucania e in Calabria, ove ex-gerarchi fascisti di alto rango sono ancora i più in vista nelle pubbliche cerimonie. Aumentano inoltre, sulla stampa periodica, gli articoli di scrittori che servirono fedelmente Mussolini fino al 1943, i quali cercano ora di ingrandire gli errori e le responsabilità degli Alleati e di minimizzare quelle dell’Asse, mentre ricordano i bombardamenti americani, il contegno delle truppe alleate nell’Italia “liberata”, il trattamento dei prigionieri di guerra italiani nei campi di concentramento inglesi e tutte le altre penose memorie di guerra e del dopoguerra […] Un simile processo di distorsione può condurre facilmente dai sentimenti nazionalistici e dai risentimenti, ancora tanto cari a larghe sezioni dell’alta e media classe italiana, ad una vera e propria rivendicazione del fascismo”104

Un anno più tardi i diplomatici italiani nella capitale federale trasmisero con amarezza un editoriale apparso sul New York Times, nel quale la democrazia in Italia veniva definita “un trapianto del tempo di guerra dall’estero”, e il successo del MSI in alcune tornate elettorali veniva attribuito al fatto che la democrazia “non [era] riuscita a dare agli italiani quel fasto e quelle manifestazioni esteriori che il popolo italiano, col suo senso del drammatico, si attende dai suoi governanti”105. Si moltiplicavano episodi allarmanti, come l’aggressione subita dal professor Umberto Calosso, deputato del PSDI, da parte dei neofascisti all’università di Roma nel gennaio del ’52; o l’avventata “operazione Sturzo” condotta nell’intento di scongiurare una vittoria delle sinistre nella capitale del cattolicesimo, con la quale il Pontefice stesso avallava un’alleanza con la destra neofascista. In tale quadro giganteggiava la figura di De Gasperi, quasi unanimemente elogiata sui periodici e negli ambienti diplomatici occidentali per l’equilibrio, la saggezza e la fermezza con cui aveva saputo portare il suo Paese sulla strada dell’atlantismo e dell’europeismo: non casualmente se ne sottolineava anche la

104

ACS, MI, Gab.1950-52, ff. 13142/1-13143/20, MAE t.20/04050/C, Neofascismo italiano. Articolo di Leo J.Wollemberg sulla rivista “The Reporter”, 14 marzo 1951

105

127 formazione mitteleuropea, come a volerne spiegare la atipicità rispetto agli standard italiani.

Dal punto di vista economico e sociale, la diagnosi compiuta dalla stampa estera sulla ricostruzione infrastrutturale e sui progressi dell’industria nei primi anni del dopoguerra era in genere lusinghiera – sebbene non mancassero aspre critiche di alcuni giornalisti statunitensi (di tendenza isolazionista o convinti che l’Italia sarebbe prima o poi scivolata nel comunismo) su come venivano utilizzate le risorse del Piano Marshall – ma l’Italia, all’inizio degli anni ’50, era ben lungi dall’essere considerata una futuribile “potenza economica”; il blocco degli interessi costituiti in ambito agrario e industriale, ostile ad avanzamenti di tipo salariale, a modifiche nella distribuzione del reddito nazionale, a riforme di stampo progressista, faceva inoltre temere un acuirsi delle tensioni sociali con temibili ricadute nel voto politico (ampia eco sulla stampa internazionale ebbero in tal senso i “fatti di Modena” nel gennaio del ’50). Questi giudizi, talvolta spinti fino a descrivere l’Italia come un Paese perennemente sull’orlo del caos e dell’instabilità, stridevano dolorosamente con la volontà del governo centrista di comunicare affidabilità e saldezza all’opinione pubblica estera, anche per agevolare il reinserimento da protagonisti nelle organizzazioni internazionali e legittimare la richiesta di un ruolo di spicco in seno alla NATO e alla nascente Comunità europea. Infine, dal punto di vista del carattere e dell’antropologia degli italiani, l’immagine oscillava tra quella – perseguita dai democristiani - di un pacifico popolo di grandi lavoratori, a larga maggioranza cattolico e contraddistinto da profonda umanità, empatia ed apertura nei confronti degli altri, fondamentalmente inoffensivo, e quella – di derivazione ottocentesca – degli italiani indolenti, passivamente adagiati sui monumenti di un passato civile ed artistico ormai tramontato, inclini ad atteggiamenti di sleale furbizia e faciloneria (compaiono numerose, sui periodici europei e americani, le rimostranze per il trattamento riservato ai turisti stranieri che iniziano ad affollare certe località). In alcuni casi, poi, i nomi italiani erano apertamente associati al crimine organizzato (come nei film statunitensi sulla mafia, che provocavano di continuo le proteste delle comunità di emigrati), cosa che contrastava con l’assenza totale di un dibattito pubblico in Italia sui fenomeni mafiosi, inquadrati e dissimulati come episodi di criminalità comune o “regolamenti di conti”; oppure la stampa dava particolare evidenza ai casi di cronaca nera in cui fossero coinvolte persone di origine italiana, fenomeno per tentare di arginare il quale alcune ambasciate sia in Europa che in

128 America latina intervennero a più riprese, sia sui governi che sui direttori dei periodici interessati.

L’evenienza più sgradita e temuta da parte dei rappresentanti diplomatici italiani e delle direzioni generali del ministero degli esteri, tuttavia, era la lamentata scarsità di notizie sull’Italia e sulla vita politica, economica, culturale del Paese sui mezzi di comunicazione. Era abbastanza frequente che, assieme all’invio dei ritagli stampa che gli uffici delle ambasciate e dei consolati inviavano a Roma per il monitoraggio delle opinioni straniere, giungessero considerazioni preoccupate sulla posizione periferica occupata dalle cose italiane: nel 1953 l’ambasciatore Tarchiani da Washington inviò a De Gasperi un’analisi della situazione, lamentando lo spazio ridotto dedicato all’Italia dalla stampa statunitense. Il diplomatico spiegò che la stampa americana pubblicava notizie e non commenti – di questi ultimi la stampa italiana era invece sovrabbondante – e che le notizie di ogni genere dall’Italia, per potersi ritagliare una visibilità, dovevano essere “abbondanti e tempestive”, dato che “i ritardi, sia pure di poche ore, fa[cevano] perdere ogni valore anche alle notizie più sensazionali”; si dovevano evitare “le dichiarazioni generiche o, peggio ancora, ambigue” e non ci si poteva affidare al “materiale cosiddetto di propaganda” per presentare la realtà italiana, in quanto esso suscitava sospetti e veniva considerato inaffidabile e poco interessante. La cosa più importante per ottenere uno spazio al punto di vista italiano sulla stampa d’oltreoceano era mantenere continui contatti con i corrispondenti dei giornali americani a Roma e fornire loro aggiornamenti precisi106.

Una modalità praticata più volte nel dopoguerra dal governo italiano per orientare l’attenzione della stampa straniera sui progressi del Paese fu l’organizzazione di viaggi collettivi di giornalisti attraverso la Penisola a scopi “di informazione e di documentazione”. Il ministero degli esteri ne promosse uno all’indomani della firma del trattato istitutivo della comunità europea di difesa (maggio 1952), per mostrare lo stato della ricostruzione economica e delle riforme sociali realizzate. L’immagine che traspariva da molti articoli della stampa nei Paesi europei era infatti ancorata a una conoscenza piuttosto superficiale dell’Italia, e confinata agli aspetti turistici o ai clichés. Era convinzione del governo che la notevole velocità con la quale l’Italia si stava rimettendo in piedi dal punto di vista industriale fosse in grado di colpire i giornalisti e di riflesso le opinioni pubbliche all’estero: laboriosità, ingegno e tempra nella

106

129 ricostruzione erano alcuni dei temi a cui l’esecutivo teneva di più nel ristrutturare l’immagine italiana. Tuttavia, l’intento di servire ai giornalisti un tour preconfezionato rischiava di essere inutile o controproducente: alla vigilia del viaggio l’ambasciatore in Francia Quaroni – che si stava occupando di convincere ad aderire all’iniziativa le più prestigiose firme dei quotidiani transalpini - scrisse a Roma che il programma approntato non era un “viaggio di studio”, ma “dieci giorni di lavori forzati”, e che “assomiglia[va] troppo [allo] schema [dei] viaggi giornalistici organizzati da regimi totalitari”. “Se vogliamo fare, almeno per quello che concerne la Francia” – continuava – “cosa veramente utile ai nostri fini sarebbe bene organizzare [un] programma assai più elastico che comprendesse soltanto [lo] spostamento in vari centri importanti, lasciando ai partecipanti anche [una] certa libertà di scelta, metterli in contatto con autorità locali e lasciarli poi vedere quello che vogliono o quello che può maggiormente interessarli secondo [il] pubblico [dei] differenti giornali”107. A quanto risulta dal resoconto del viaggio fornito dal console francese a Napoli dopo poco più di un mese, i suggerimenti di Quaroni non vennero tenuti in gran conto. I giornalisti francesi invitati si lamentarono infatti, durante un incontro con il loro console, di essere stati sottoposti ad un tour de force fra installazioni militari, nuovi complessi industriali e presentazioni ad autorità politiche locali; nulla invece era stato previsto dal punto di vista turistico, mentre era proprio quest’ultimo l’aspetto che avrebbe potuto suscitare più interesse nei lettori dei quotidiani francesi108. Sembrava insomma che gli aspetti politici, militari ed economici che il governo italiano puntava a valorizzare con l’intento di legittimare la richiesta di un maggior peso nell’arena internazionale incontrassero scarsa attenzione presso la stampa e il pubblico, legati piuttosto ad un’immagine dell’Italia come meta di vacanze e di bellezze architettonico-paesaggistiche.

Il monitoraggio della stampa straniera, effettuato da un apposito ufficio del ministero degli esteri, dava luogo anche a tentativi di intervento e a proteste per via diplomatica quando apparivano articoli denigranti o che manifestavano scarsa simpatia e considerazione per l’Italia. In un contesto democratico e di libertà d’espressione si trattava di un’operazione delicata, ma le autorità dei vari Paesi tendevano a considerare lecite, e a chiedersi reciprocamente, pressioni sui giornalisti in nome delle buone relazioni. Il ministero degli esteri italiano, in virtù dell’amicizia con la Francia, aveva ad

107

ASMAE, DGAP 1950-57, Francia, b.152, Viaggio giornalisti francesi, 30 aprile 1952

108

AMAEF, Italie, Presse – Dossier general juillet 1949-octobre 1955, b.192, Mission de journalistes

130 esempio invitato con successo la stampa ad astenersi “dall’assumere posizioni polemiche sulla questione tunisina e su quella del Marocco”, e si attendeva che in cambio il governo francese intervenisse sui giornalisti d’oltralpe per esortarli ad una maggiore attenzione e benevolenza nei confronti dell’Italia, spesso oggetto di frecciate velenose. Gli scarsi risultati ottenuti in questo senso indussero l’ufficio stampa di Palazzo Chigi a protestare, dando mandato all’ambasciata a Parigi di far presente alle autorità francesi che “non […] senza rincrescimento” il governo italiano constatava come la “stampa francese […] più importante ed influente” tendesse ad ignorare il punto di vista italiano sulle questioni internazionali, a disertare le conferenze stampa indette da rappresentanti italiani, a preferire regolarmente la versione jugoslava rispetto a quella italiana per ciò che concerneva gli episodi di cronaca nella zona triestina; scortesie e dimenticanze che il ministero degli esteri considerava il “riflesso di opinioni e stati d’animo generalmente e profondamenti diffusi negli ambienti francesi più seri”109

.

2.3.2 L’accusa di “attività antinazionale” agli esponenti del Pci e agli intellettuali di sinistra

Con l’acuirsi della guerra fredda si fece pressoché completa la chiusura nei confronti degli scambi culturali a livello ufficiale fra l’Italia e i Paesi oltrecortina: dietro ad ogni affermazione culturale si vedeva infatti una possibile strumentalizzazione politica. Al clima generale di sospetto e di isteria anticomunista contribuiva anche la campagna “maccartista” partita dagli Stati Uniti. I Paesi dell’orbita sovietica invitavano intellettuali ed artisti italiani accuratamente selezionati per adeguarsi ai desiderata del regime staliniano, e allo scopo di sentir decantare da persone provenienti dall’occidente le lodi per i traguardi raggiunti dal socialismo in ogni campo, e pubblicarle con grande evidenza sulla stampa. Alle dichiarazioni entusiaste di scrittori, giornalisti, pittori e musicisti per l’elevato livello culturale, sociale ed economico che si pretendeva venisse riconosciuto, si affiancavano confronti polemici con la supposta povertà endemica e disperazione sociale dei Paesi capitalisti. L’Italia, per la presenza oggettiva di ritardi nell’industrializzazione e di ampie fasce di povertà e degrado, specie in alcune aree urbane e nel sud, fu spesso utilizzata dal regime sovietico e dai governi dei Paesi

109

ASMAE, DGAP 1950-57, Francia, b.152, f.3060, Stampa francese nei confronti dell’Italia. Telespresso n.8/3072, Articolo del giornalista Puglionisi sul Generale Juin, 10 giugno 1952

131 satelliti come esempio del fallimentare modello di sviluppo a cui aveva compiuto l’errore di ispirarsi. Ovviamente le descrizioni fornite erano non di rado caricaturali, ma