Nel complesso, si può affermare che le relazioni culturali per l’Italia appena uscita dalla guerra furono avvertite, da una parte consistente del mondo politico-diplomatico e intellettuale, come strumento utile e necessario a presentare all’estero l’immagine di un Paese riscattato, pacifista, antifascista e desideroso di riallacciare rapporti di amicizia e scambio intellettuale. Gli errori commessi dal regime mussoliniano nel travisare la funzione degli istituti culturali, utilizzandoli spesso come grimaldello per un’opera di fascistizzazione degli emigrati e di propaganda politica nei confronti degli stranieri, furono compresi dalla maggior parte dei responsabili dell’azione culturale dell’Italia, anche se non mancarono voci dissonanti e tentativi di conservazione da parte di irriducibili sostenitori del regime; molti però si illusero che fosse possibile cancellare in tempi brevi i rancori delle opinioni pubbliche nei Paesi vincitori e la perplessità di quelle dei Paesi neutrali. I rappresentanti italiani si resero conto invece, dopo la fine delle ostilità, che il ricordo del fascismo e della cobelligeranza a fianco della Germania era vivo e presente, e si sforzarono di promuovere grazie a film, interventi sulla stampa, conferenze e pubblicazioni in più lingue l’immagine di un’Italia umanista, “naturalmente” estranea alla degenerazione che le era stata imposta. In quest’ottica, la valorizzazione di un patrimonio storico-artistico come linguaggio universale apparve una strada percorribile: come notò De Gasperi, “uno degli strumenti più efficaci” che l’Italia avesse a disposizione per “far sentire di nuovo la propria voce”92
. Il leader democristiano, inaugurando il congresso dei laureati e degli studenti universitari dell’azione cattolica nel gennaio del ’46, esortò a legare strettamente civiltà italiana e cristianesimo come mezzo di reinserimento nella comunità internazionale:
“Non giudicate un popolo per un quarto d’ora di follia, ma per i secoli della sua feconda e gloriosa storia. L’Italia non è semplicemente un’organizzazione politica; l’Italia è una civiltà, anzi una corrente di civiltà che si è fusa con il Cristianesimo e ha dilagato sul mondo. Londra non si capisce se non si entra nell’ombra maestosa dell’Abbazia di Westminster: non si può capire l’Italia senza leggere nei monumenti e nelle opere dei suoi genii tutto lo sforzo che essa ha offerto all’umanità”93.
92
cit. in L.Medici, Dalla propaganda alla cooperazione, op.cit., p.84
93
I congressi dei laureati e degli studenti universitari di azione cattolica inaugurati dalla fervida parola
64 Questa lettura attribuiva al cristianesimo il motivo preminente dell’universalismo italiano e collegava la ricchezza artistica e intellettuale del Paese all’influenza plurisecolare della religione cattolica, che si era espressa nella letteratura, nell’arte, nell’architettura, nella filosofia, nel diritto, nelle forme della socialità, nel folklore italiani, e che formava il vero nucleo dell’identità del Paese. In modo più evidente ed esplicito a partire dalla esclusione delle sinistre dal governo nel maggio del ‘47 e dalle elezioni dell’aprile ‘48, sarà questo il quadro concettuale a cui farà riferimento la promozione culturale italiana. Al congresso nazionale della Dc nel novembre del 1947, De Gasperi tornò sul modo in cui il suo partito, che si accingeva a guadagnare una posizione egemonica nel quadro politico italiano, doveva intendere il ruolo dell’Italia: “Noi difendiamo l’ideale della civiltà greco-latina che su queste spiagge venne spiritualizzato, rinnovato e fecondato dal Cristianesimo […] Non vogliamo che l’Italia diventi un museo di quadri vecchi, di statue mute. Vogliamo che queste immagini ispirate dalla divinità e create dall’arte, serva di Dio durante i secoli della nostra civiltà, siano vive e parlino anche al popolo”94. Nell’accogliere in Italia la pedagogista Montessori, tornata dall’India su invito del governo nel luglio del 1947, il ministro dell’istruzione Gonella aveva esaltato nella scuola italiana all’estero il ruolo di “missione di civiltà in pro di tutte le genti”, definendo “puro e santo nazionalismo” la vocazione dell’Italia “al progresso dei valori universalmente umani”, da contrapporre al “nazionalismo mendace”, quello militare e sopraffattore, che si era tragicamente concluso95. In questi interventi si coglie una forma di “nazionalismo culturale”, dunque, fondato su un ossimorico primato universalista che discendeva all’Italia dal suo essere sede della cristianità e culla delle arti, e che pur non avendo connotati aggressivi nei confronti degli altri popoli partiva comunque dalla presunzione di una superiorità civile e storica e dal dovere di una “missione” del popolo italiano che fosse aderente alla sua natura. Cadevano insomma i contenuti fascisti del nazionalismo ma non cadeva la forma del discorso nazionale, ovvero l’idea di un popolo con caratteristiche culturali, religiose e civili diacronicamente stabili e uniformi, dotato di un’identità che era stata travisata, tradita dal fascismo e che andava solo riscoperta e riportata in auge, assicurando che a governare fossero le forze politiche che la incarnavano nel modo più fedele. Anche sul
94
De Gasperi parla a Napoli al Congresso della DC, in “Arte e Turismo”, nn.4-5, novembre 1947
95
65 piano interno si assisteva al profilarsi – com’è stato notato da Silvana Patriarca96 – del mito della “brava gente”, funzionale al superamento di complessi di colpa nazionali e ad analisi comode, spesso sbrigative, sulla nascita e sull’ascesa del fascismo, crocianamente inteso come una parentesi sciagurata ed estranea alla tradizione italiana. Se è vero, come ha affermato Emilio Gentile97, che dal 1943 il nazionalismo com’era stato inteso nella prima metà del secolo si trovava screditato e sotto attacco, è pur vero che esso avrebbe avuto influenza ancora a lungo spostandosi dal piano del confronto politico-militare a quello della competizione economica e culturale. Non si spiegherebbe altrimenti per quale motivo, a distanza di decenni dalla nascita delle prime istituzioni europee, l’idea di “patria europea” susciti sentimenti assai tiepidi nella maggioranza della popolazione, e non si faccia quasi mai riferimento alla “moda europea”, alla “pittura europea”, allo “stile di vita europeo”, né esistano negli altri continenti “centri culturali europei”, ma al contrario ogni Paese dell’Unione continui a promuovere autonomamente l’arte e la cultura, a rivendicare come proprie specialità ed eccellenze in una serie di discipline e di costumi, a mantenere le proprie “squadre nazionali” nelle pratiche sportive, o ad evitare il più possibile di condividere sforzi finanziari per sostenere Paesi comunitari che si trovano in difficoltà economica. Alcuni attribuiscono la responsabilità di tale situazione ad un’asserita freddezza burocratica delle istituzioni europee o ad un loro “deficit democratico”, non chiaramente dimostrato; appare più sensato ammettere che la forza dei nazionalismi otto- novecenteschi e la loro capacità di creare miti divisivi e profezie di scontro inevitabile, tragicamente auto-avveratesi in due conflitti mondiali, abbiano inciso così profondamente nella psicologia europea da rendere lento, contraddittorio e costantemente esposto a revisioni involutive il cammino di costruzione di una nuova e più larga identità, fondata sull’adesione a valori di libertà, solidarietà e promozione dei diritti, tradotti nella costituzione europea, invece che sull’appartenenza a comunità nazionali.
In Italia, dalla fine della guerra si iniziò a guardare alla diplomazia culturale come a un fattore al contempo in grado di favorire la collaborazione internazionale ed il reinserimento del Paese nella comunità degli stati. Aspirazioni idealiste al rinnovamento del clima mondiale nel senso di una maggiore comprensione tra i popoli si mescolavano
96
cfr. S.Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010, in particolare cap. VII
97
66 a pragmatiche considerazioni sulla necessità di abbandonare la propaganda unilaterale per poter attrarre correnti di interesse nei confronti della nuova Italia. Alle premesse teoriche da molti enunciate secondo cui la cultura era la base della ricostruzione morale e dell’immagine del Paese, però, era difficile far seguire un’azione efficace: la rete delle istituzioni culturali all’estero era stata in gran parte smantellata dalla guerra e le risorse disponibili per ricomporla erano assai limitate. Inoltre, non tutti gli uomini politici e i funzionari ministeriali mostravano la stessa sensibilità riguardo all’importanza di questo aspetto della politica estera, e da subito si manifestarono resistenze da parte del ministero del tesoro nello stanziare i fondi necessari a tenere il passo con gli altri Paesi europei in questo campo, che si combinavano ad una diffusa indifferenza a livello di opinione pubblica, stremata dalla guerra e incline a considerare la politica culturale all’estero una specialità fascista, come tale da abbandonare in quanto inutile o, peggio ancora, controproducente. A questi fattori interni si aggiungevano l’atteggiamento guardingo, talora ostile dell’opinione pubblica dei Paesi usciti dalla guerra, e il sospetto con cui le diplomazie alleate osservavano i tentativi italiani di riabilitare la propria immagine, che portò in più di una occasione a vietare o ad ostacolare la ricostituzione di centri culturali.
Con l’istituzione della Dgrc al Ministero degli Esteri, l’opera di Vittorio Emanuele Orlando come presidente della “Dante Alighieri” e l’ingresso dell’Italia nell’Unesco, la diplomazia culturale italiana si avviò alla riorganizzazione e al rilancio, dopo un primo periodo talmente critico da far prendere in considerazione la possibilità di una sua totale cancellazione. Tuttavia, la compresenza di un “Ufficio Scambi con l’estero” presso il Ministero dell’Istruzione, la sopravvivenza dell’Irce che ancora operava opponendosi alla liquidazione, il sorgere di molte associazioni di amicizia italo-straniere che chiedevano riconoscimento pubblico e prendevano iniziative spontanee, rendevano il quadro confuso e moltiplicavano le sovrapposizioni di compiti e i rischi di una dispersione delle forze. Ancora sul finire del ’47, solo una piccola parte degli istituti di cultura, delle scuole italiane e dei comitati della Dante esistenti prima della guerra aveva ripreso la propria attività, e l’argomento delle relazioni culturali con l’estero non era stato oggetto di alcun dibattito organico nell’Assemblea costituente, che affrontasse i nuovi scopi e gli indirizzi da assegnare a tali attività.
67
CAPITOLO 2
La prima legislatura: la costruzione della rete di relazioni culturali nel quadro della “guerra fredda” e del centrismo (1948-1953)