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2.1.1 La fine dell’unità antifascista e le elezioni del 1948

Lo stabilirsi di una netta contrapposizione politica fra blocco occidentale e blocco sovietico pose fine velocemente al clima di unione e di speranza in una duratura pacificazione che aveva caratterizzato l’immediato dopoguerra, intriso di aspirazioni cosmopolite e di grandi slanci universalistici, che dipendevano dal desiderio di recuperare una dimensione umana dopo le atrocità belliche e che affidavano anche agli scambi artistici e culturali il compito di riattivare un dialogo fra i popoli. Nella concezione di molti intellettuali e diplomatici interessati a questi problemi, era necessario creare occasioni di incontro e di scambio per favorire, a livello di massa, l’uscita da un nazionalismo aggressivo, ulteriormente esacerbato dalla martellante propaganda del tempo di guerra. Essa aveva creato o approfondito stereotipi negativi sui nemici, utilizzando tattiche discorsive che tendevano, in ultima analisi, a ritrarli come estranei alla civiltà, accecati da una furia distruttiva; e contrapponevano a questi tratti mostruosi i propri “valori nazionali” da difendere. Questa propaganda, unita al fatto che molte famiglie in ogni teatro bellico avevano conosciuto da vicino le distruzioni, le angherie e i lutti causati dall’invasione straniera, rendeva il compito delle istituzioni culturali nel dopoguerra particolarmente delicato e complesso.

Anche se in forma più attenuata rispetto al massiccio ingresso della politica nella produzione artistica e culturale che aveva caratterizzato il periodo bellico, le divisioni ideologiche della “guerra fredda” interferirono con le possibilità di conoscenza reciproca fra i popoli a ovest e a est della “cortina di ferro”. La subordinazione della produzione artistica agli scopi politici era stata teorizzata esplicitamente da Ždanov in Urss fin dagli anni ’30, e si sarebbe rivelato assai difficile, per le istituzioni culturali dei Paesi occidentali, agire liberamente nei Paesi est-europei. Anche nel campo degli alleati degli Usa, la denuncia degli squilibri economici e sociali della società capitalista attraverso l’arte, il cinema, la letteratura venne spesso tacciata di collaborazionismo con

68 il nemico comunista. Gli stessi film italiani neorealisti che nel 1946 venivano proiettati in capitali straniere per iniziativa delle nostre ambasciate, nel quadro della “guerra fredda” erano visti talora come pericolose armi di propaganda culturale nelle mani di Mosca. In Italia, molte produzioni cinematografiche, letterarie, pittoriche provenivano da artisti organicamente legati al Pci o comunque simpatizzanti di tale area politica, specialmente fino al 1956: questo ebbe ripercussioni sulla diplomazia culturale, restia a servirsi di loro per presentare l’Italia contemporanea all’estero, e più incline ad utilizzare un patrimonio culturale risalente all’Italia pre-unitaria.

Mentre si acuivano le tensioni fra i due blocchi, che avrebbero raggiunto il culmine con la guerra di Corea, si faceva più pressante l’urgenza di una collaborazione salda fra i Paesi occidentali, che doveva passare anche per un lavoro di mutua comprensione e di collaborazione nel campo culturale. Questa necessità politica, che si sarebbe tradotta nel 1949 anche in alleanza militare, spinse i governi occidentali ad un’accelerazione nel favorire un riavvicinamento reciproco delle opinioni pubbliche, al quale potevano contribuire in modo rilevante gli scambi culturali. Tuttavia, il sostrato di rivalità e di sospetti esistenti fra le nazioni europee occidentali continuò ad influenzare sia l’atteggiamento di una parte delle classi dirigenti, sia quello delle opinioni pubbliche. Sarebbe dunque sbagliato intendere la competizione culturale durante la “guerra fredda” come limitata al confronto tra est e ovest del mondo; anche all’interno del campo occidentale, di cui l’Europa era un pilastro, tendenze all’accrescimento delle occasioni di scambio e di collaborazione dovettero confrontarsi con chiusure e ritorni di fiamma del nazionalismo.

Per l’Italia, con l’entrata in vigore della Costituzione e l’inizio della campagna elettorale per le elezioni del ’48, finiva il clima di unità antifascista che aveva segnato l’esperienza politica della giovane repubblica. Le diverse “idee d’Italia”, non solo sul piano sociale ed economico, ma anche su quello dell’identità e della cultura, tornarono a circolare e a scontrarsi con maggiore evidenza rispetto al periodo precedente, nel quale le emergenze materiali e la necessità di riedificare strutture e istituzioni dello Stato avevano parzialmente eclissato lo scontro ideologico. In pochi mesi, complice il deteriorarsi della situazione internazionale, il fuoco dell’attenzione si spostò dall’esecrazione e dalla presa di distanza dal nazifascismo alla denuncia dell’incombente pericolo rosso. La visione comunista dell’uomo e dei rapporti sociali fu descritta dai democristiani come incompatibile con le caratteristiche fondamentali

69 dell’Italia e degli italiani, come un tradimento completo dell’identità e della tradizione religiosa e culturale del Paese.

Il Papa, nell’allocuzione natalizia del 1947, ammonì i fedeli contro i “germi venefici dell’ateismo e della rivolta”, scagliandosi contro coloro che sul “sacro suolo dell’Urbe” cercavano di diffondere “una concezione del mondo e della società umana fondata sulla incredulità e la violenza”, sforzandosi di “persuadere […] ch’essi hanno ideato e attuato una nuova cultura più degna dell’uomo che non l’antica ed eternamente giovane civiltà cristiana”. Temi questi che sarebbero stati ripresi ed amplificati con enfasi nel corso dell’anno seguente, man mano che ci si avvicinava alla fatidica data del 18 aprile, da parte della Dc. Come ha scritto Emilio Gentile, essa “mirò a rappresentare se stessa come espressione e interprete autentica di una nazione già compiuta, di plurisecolare formazione, che aveva smarrito il suo cammino durante il liberalismo e il fascismo, ma che ora ritrovava il fondamento più solido della sua identità nella fede religiosa, nella civiltà cristiana”1. L’italianità, dopo il breve periodo di patriottismo costituzionale, tornò così ad essere contesa tra forze politiche che se ne sentivano depositarie esclusive, e che tendevano a rappresentarla oltre i confini secondo i tratti ideologici propri di ciascuna. In un contesto internazionale in cui cresceva la diffusione dei “mezzi di comunicazione di massa” e un numero sempre maggiore di persone aveva la possibilità di attingere a diverse fonti, comunque, la varietà delle rappresentazioni di un Paese all’estero era destinata ad aumentare e a seguire strade spesso indipendenti dalla rete tradizionale di enti culturali e servizi di informazione e documentazione. Questi, se adeguatamente impostati, mantenevano però un ruolo fondamentale nel favorire l’interesse delle opinioni pubbliche all’estero nei confronti del Paese; nel diffondere la produzione culturale passata e contemporanea nel campo artistico, musicale, letterario, cinematografico; nell’attivare indirettamente flussi turistici e di mercato; nell’avvicinare istituzioni scolastiche ed universitarie favorendo gli scambi di studenti, professori, conferenzieri; nell’arginare rappresentazioni negative e stereotipi con la qualità e la continuità delle proprie iniziative.

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70 2.1.2 Le relazioni culturali in Parlamento nel 1948-1949

Terminata la fase più delicata dell’immediato dopoguerra, firmato il trattato di pace e tenutesi le elezioni con la schiacciante vittoria della democrazia cristiana, che poneva risolutamente l’Italia nel campo occidentale, anche la diplomazia politica e culturale poteva iniziare un ragionamento più ampio sulle direzioni da prendere in armonia con gli orientamenti interni. Le stesse elezioni del 18 aprile, seguite con attenzione dall’estero, erano state l’evento più di ogni altro capace di riproporre il nome dell’Italia alle cronache mondiali, come fu notato dal ministero degli esteri francese2. Il binomio latinità / cattolicità appariva al ministro degli esteri Sforza un elemento da valorizzare nel presentarsi alle nazioni latinoamericane e in particolare in Argentina: scrivendo all’ambasciatore italiano a Buenos Aires, Arpesani, nel luglio del ’48, Sforza lo invitava a favorire le correnti di simpatia italoargentine svolgendo “un’azione organica e sistematica diretta a rafforzare e concretare la tendenza genericamente favorevole che si registra costà”. La convinzione di Peròn che occorresse creare un “blocco latino- cristiano” in grado di rappresentare una terza forza fra Usa e Urss e l’ambizione di porre l’Argentina all’avanguardia di tale progetto faceva scorgere ad Arpesani buone opportunità per l’Italia, la quale rientrava nei calcoli politici argentini, insieme alla Spagna, come Paese europeo su cui fare sponda. Senza bisogno di assumere posizioni terziste, sosteneva l’ambasciatore italiano, l’Italia poteva avvantaggiarsi di questo interesse3. Il ministro degli esteri espresse alla Camera l’opinione che specialmente le relazioni culturali con l’America latina fossero “una miniera d’oro per l’influenza morale e sociale degli Italiani”, e che una politica culturale italiana di vasto respiro fosse necessaria per far dimenticare all’estero le “recenti cattive impressioni di avventure guerresche mal riuscite”4

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Fu nel ’48 che l’argomento delle relazioni culturali iniziò ad affacciarsi con più regolarità nelle discussioni parlamentari, ma legato quasi sempre al dibattito sul bilancio del ministero degli esteri e affrontato per lo più dal gruppo ristretto di deputati e senatori che avevano una qualche dimestichezza con questo ambito. In linea generale, si può affermare che gli interventi da parte di sostenitori del governo centrista vertevano sulla richiesta di maggiori stanziamenti (per le relazioni culturali nel loro complesso o per

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AMAEF, Italie 1944-1949, Presse, b.12, Les élections italiennes et la presse étrangère, 7 maggio 1948

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ASMAE, DGAP 1946-50, Argentina, b.5, Ambasciata d’Italia a Buenos Aires, Colloquio col Presidente

Peron, prot.3041/626, 23 luglio 1948. Riservatissimo

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71 specifiche voci del bilancio: scuole, istituti di cultura, lettorati, biblioteche, spese per la “propaganda di italianità”) e sulla necessità di concentrarsi su talune zone geografiche; l’opposizione accusava invece il governo di inerzia e indifferenza nei confronti di questo problema, riflesso di una negligenza verso l’arte, la cultura e il mondo intellettuale che veniva rimproverata anche sul fronte interno. Ovviamente a considerazioni di tipo tecnico si affiancava un buon grado di polemica politica: da parte comunista iniziò ad essere lanciata all’esecutivo l’accusa di asservimento agli Stati Uniti, con il rischio di trasformare l’Italia in una terra di conquista di mentalità e stili di vita che impoverivano la ricchezza e la tradizione culturale della penisola. Parallelamente veniva sollevata la questione dell’ostracismo italiano contro la produzione artistica e filosofica dell’Urss e dei suoi satelliti, trascurando il fatto che le autorità di governo in quei Paesi rendevano assai complicata la vita degli istituti di cultura occidentali, accusandoli di propaganda politica e spionaggio, e causandone con tali pretesti la paralisi operativa o la chiusura. Da parte dell’estrema destra, invece, le rimostranze antigovernative si appuntavano sulla scarsa tutela delle minoranze italiane in Paesi stranieri, in particolar modo nelle ex colonie, che andavano assistite anche dal punto di vista educativo per mantenerle legate alla madrepatria, e nelle zone di Trieste e dell’Istria, di cui andava affermata l’italianità, con un’azione di contrasto a Tito. Nelle discussioni del ’48 le critiche più diffuse al governo giunsero a proposito delle decurtazioni di stanziamenti effettuate dal cosiddetto “comitato della scure”, sotto i colpi del quale venivano imposte rigide economie per il miglioramento dei dissestati conti pubblici.

Il deputato socialista Paolo Treves giudicò che la somma stanziata per le relazioni culturali fosse talmente bassa da risultare “inutile”, in quanto non permetteva né di creare istituti di cultura, né lettorati presso università estere, né “di provvedere ad un piano organico per la diffusione del pensiero e della cultura italiani nel mondo”: le spese per questi scopi rappresentavano appena lo 0,8% del bilancio del ministero degli affari esteri, ovvero “meno dell’8 per mille del bilancio globale italiano”5

. Di avviso simile era il democristiano Francesco Franceschini, particolarmente attento alla tutela dei beni culturali e che in seguito sarà tra i promotori di un ministero dedicato a tale compito, il quale denunciava come l’importanza della cultura all’estero fosse “riconosciuta tradizionalmente a parole, ma altrettanto tradizionalmente misconosciuta finora agli

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72 effetti pratici”: la cifra che era stata stanziata in giugno per l’intero complesso di scuole, istituti, biblioteche e accademie, ammontante a soli 530 milioni di lire, era stata ulteriormente decurtata in agosto e portata a 488 milioni, a fronte di una richiesta minima del ministero degli esteri di 844 milioni per le rappresentanze culturali, già al netto di “tagli e scarnificazioni fino all’osso”. L’Italia doveva insomma gestire la sua intera rete con meno risorse di quelle che la Francia destinava ai soli Paesi del Pacifico: una situazione definita “indecorosa” e le cui responsabilità erano da addossare principalmente al ministero del tesoro. L’intervento di Franceschini intendeva allora portare l’attenzione sul modo in cui l’Italia avrebbe dovuto mutare l’atteggiamento nei confronti delle relazioni culturali: su questo punto egli contrapponeva “la vecchia via, il vecchio concetto per cui esse sono un peso, che non si può sopprimere, fastidiosa necessità, una passività, che lo Stato deve tuttavia addossarsi per far buona figura”, come “un obbligo di eredità impostoci dal nostro passato glorioso”, e che di conseguenza, in tempi di difficoltà economica, potevano subire tagli drastici in quanto considerate un lusso; e l’altra via, per la quale “le relazioni culturali valgono almeno quanto le relazioni politiche ed economiche; nel nostro caso anche di più, e senza esagerazione”, in quanto potevano “tradursi non solo nell’affermazione platonica di quel primato morale e civile che è in sostanza la nostra verace posizione nel mondo”, ma anche “nel più fecondo e concreto risultato pratico”. I libri venduti all’estero, gli scambi e i convegni, i concerti e gli artisti che si potevano esportare, concorrevano in misura crescente a incrementare il turismo e ad aiutare le industrie e il commercio. Era questa la “concezione moderna” di questo campo della politica estera, che non andava dimenticato “nella lotta giornaliera e assidua contro le difficoltà brute” del tempo della ricostruzione: ed era in questo campo che occorreva instradarsi “con entusiasmo e soprattutto senza mezze misure”, dal momento che la cultura rappresentava “insieme con il lavoro, il più potente mezzo per una giusta e redditizia affermazione della nostra Patria nel mondo civile”6

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Sul tema tornò nei giorni seguenti il democristiano Castelli Avolio, relatore del bilancio di Palazzo Chigi, concentrandosi in particolare sugli istituti di cultura: dopo aver garantito il funzionamento di dieci di essi dalla fine della guerra (Stoccolma, Helsinki, Bruxelles, Lisbona, Madrid, Barcellona, Budapest, Sofia, Bucarest e Praga), lo Stato

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73 avrebbe dovuto impegnarsi ad aprire istituti a Londra, Parigi e New York, da fondare ex novo, e a ripristinare quelli di Rio de Janeiro, Buenos Aires e Lima. In futuro l’intero bilancio del ministero degli esteri avrebbe dovuto comprendere, continuava il deputato, due sole grandi sezioni: le spese per l’organizzazione del personale amministrativo, diplomatico e consolare; e quelle “dei servizi di diffusione dell’idea italiana nel mondo, della cultura italiana nei paesi stranieri, per la protezione e la tutela dei nostri connazionali”7

. Si trattava di programmi per lo meno ottimistici, se confrontati con la congiuntura in cui venivano enunciati, e che risentivano ancora di una concezione in cui si legavano strettamente relazioni culturali ed emigrazione, in cui cioè l’obiettivo primario che si attribuiva alle istituzioni culturali all’estero era quello di tenere legate le comunità italiane alla madrepatria, e trasformarle in collettori e tramiti di interesse per la cultura italiana, più che di rivolgersi direttamente all’elemento straniero. Nel suo intervento il ministro degli esteri Sforza, oltre a dichiararsi concorde con Treves e Franceschini sull’assoluta insufficienza delle risorse e ad assicurare il proprio impegno per una graduale integrazione da parte del tesoro, tornò sulle discussioni relative alla sorte dell’Irce, istituto per il quale vari deputati si erano espressi a favore della conservazione anche dopo la nascita della Dgrc. Sforza controbatté che l’Irce era stata “una necessità del fascismo per farsi una maschera obiettiva”, e questo costituiva per l’istituto “un passato doloroso”, che ne imponeva la liquidazione: ora esisteva un’apposita direzione generale presso il ministero degli esteri, e non c’era ragione per cui funzioni che erano “essenzialmente governative” venissero svolte fuori dai ministeri8.

Il dibattito sul bilancio del ministero degli esteri si trasferì poi al Senato, dove alcuni misero in luce come ad aggravare il problema della scarsità di risorse si aggiungesse un’eccessiva frammentazione degli enti deputati alle relazioni culturali. Il senatore democristiano Enrico Carboni, un giurista e professore universitario sardo, osservò: “Noi che abbiamo così poco denaro da spendere in relazioni culturali, siamo ricchissimi di organismi che hanno proprio lo scopo di diffondere la cultura italiana all’estero”, ricordando che oltre alla Dgrc esisteva una “Direzione generale degli scambi culturali e delle zone di confine” da poco istituita presso il ministero della pubblica istruzione per estemporanea iniziativa di Gonella e affidata alla direzione del professor Ferretti, e che l’Irce del commissario straordinario Morra, sebbene ne fosse stata programmata la

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AP, Camera dei deputati. Discussioni, 27 settembre 1948

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74 chiusura, continuava legittimamente a chiedere finanziamenti, fintanto che le sue attività si protraevano: “Spendiamo più nell’organizzare gli strumenti per creare le relazioni culturali con l’estero, che nelle relazioni stesse”, continuava Carboni9

. Su questo punto l’ambasciatore francese Fouques-Duparc, nel riferire a Parigi circa l’organizzazione degli enti culturali italiani all’estero, affermò che le attribuzioni rispettive dei tre enti restavano indeterminate: “ils agissent les uns et les autres en ordre dispersé, sans beaucoup d’autorité et sans grandes ressources financières”. Gli ambienti universitari si erano espressi ripetutamente contro tale situazione di disordine e di penuria, riportava l’ambasciatore, scagliandosi in particolare contro il fatto che anche nelle più piccole rappresentanze diplomatiche fossero presenti addetti militari, mentre si lasciavano paesi come Brasile ed Argentina senza addetti culturali10. Un collega di partito di Carboni, l’onorevole Bastianetto, deplorò il fatto che le risorse stanziate per la politica estera fossero “da piccola repubblica”, e che i 200 milioni di lire tagliati a Palazzo Chigi andassero a colpire proprio la parte che riguardava la cultura, mentre il repubblicano Della Seta attirò l’attenzione sui criteri di scelta non sempre adeguati per l’invio di rappresentanti culturali all’estero, a volte designati solo in quanto “i preferiti, i beniamini di questo o di quell’uomo al potere o di qualche cricca letteraria”11

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Il relatore del bilancio Giardina, comunque, tracciò in aula un quadro confortante di ripresa: gli scambi di docenti e di studenti si intensificavano, l’Italia tornava ad essere considerata dagli stranieri “la terra della cultura e della scienza”, “un Paese che conforma la propria vita alla gloriosa tradizione del passato”, come provava l’entusiasmo con cui studiosi e scienziati di altri Paesi avevano preso parte a due recenti congressi internazionali, uno di chirurgia a Roma e uno di storia del diritto a Verona. In totale, l’Italia ospitò 18 congressi internazionali nel 1948, e venne invitata a partecipare a 72 convegni da parte di Paesi esteri, riuscendo a garantire una presenza in 52 di essi. Le polemiche più sferzanti nei confronti dell’azione di governo nelle relazioni culturali iniziarono ad arrivare, com’è facile intuire, da parte della sinistra: ed esse vertevano sulla decisa egemonizzazione che i democristiani, sull’onda del successo elettorale, stavano praticando anche nel presentare l’Italia all’estero. L’accusa era di estromettere gli uomini di cultura con idee politiche laiche e di sinistra, e sostituirli con uomini di provata fede democristiana, militanti in partiti o associazioni cattoliche, non

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AP, Senato della Repubblica. Discussioni, 14 ottobre 1948

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AMAEF, R.C. 1948-1955, Série II, Echanges Culturels, II.13.Italie, Organisation des services pour les

Relations Culturelles en Italie, 9 gennaio 1948

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75 necessariamente esperti in qualche branca del sapere. Piero Calamandrei denunciò in parlamento i mutamenti nella composizione della delegazione italiana da inviare alle conferenze dell’Unesco: mentre quella che aveva preso parte alla congresso di Città del Messico del 1947 “era composta non di uomini politici, ma di scienziati di indiscusso valore: De Ruggiero, Amaldi e Bianchi Bandinelli”, capaci di “rappresentare di fronte al mondo la scienza italiana”, la delegazione inizialmente proposta per il congresso di Beirut del 1948 era ben diversa: “al criterio di includervi soltanto scienziati, si è sostituito il criterio di farvi partecipare in maggioranza uomini politici, e così si è