• Non ci sono risultati.

La “Società Dante Alighieri” e gli istituti italiani di cultura fra collaborazione e competizione (1948-1953)

2.4.1 Il nuovo Statuto e i rapporti con gli enti governativi

Nel corso della prima legislatura, con l’uscita dalla situazione confusa e labile dei fermenti postbellici, iniziarono a manifestarsi in modo palese le difficoltà di adattamento del sodalizio dantesco al nuovo quadro istituzionale e, in certa misura, al nuovo clima culturale. La riorganizzazione dei servizi culturali all’estero da parte dello stato comportava un drastico ridimensionamento del ruolo della “Dante Alighieri”, che era stato il primo ente di diffusione della lingua e della civiltà italiana e si trovava ora sostituita in questo ruolo, almeno ufficialmente, dagli istituti italiani di cultura; non riceveva più finanziamenti diretti da parte del governo (né il presidente Orlando ne chiedeva, temendo che questo avrebbe diminuito l’indipendenza della società) e aveva gravi problemi a reperire risorse fra gli italiani, fra i quali constatava una diffusa apatia nei confronti degli scopi dell’associazione e spesso, tra le fasce più giovani, una frequente ignoranza sulla sua stessa esistenza. Certo, la società con sede a Palazzo Firenze chiedeva pressantemente il coinvolgimento delle scuole in tutta Italia per formare nuovi futuri soci ed otteneva l’appoggio del ministero dell’istruzione in questo senso; organizzava concorsi e manifestazioni in quasi ogni città d’Italia basandosi sui comitati periferici; ma nonostante gli sforzi e il prestigio del presidente Vittorio Emanuele Orlando stentava a recuperare la consistenza che aveva avuto in passato. Inoltre, come risulta chiaro scorrendo i verbali delle assemblee dei soci che annualmente convergevano in una città italiana per un compendio dell’attività svolta e per discutere delle iniziative da prendere, era evidente la persistenza, in un gran numero di membri dei livelli intermedi e di base, di atteggiamenti e di linguaggi accesamente nazionalisti. In pochi sembravano aver recepito i ripetuti inviti del commissario straordinario Umberto Calosso, e nelle discussioni si affacciavano con frequenza retorici richiami al “primato della civiltà italiana” e ai suoi “diritti”, alla “grande opera di civilizzazione” svolta nelle colonie africane, alle “ingiuste mutilazioni” inflitte dal trattato di pace del 1947, nonché rivendicazioni su Trieste, Istria e Dalmazia che erano state,

190 assieme al Trentino, alla base della nascita stessa della “Dante Alighieri”. Inoltre, si faceva strada solo con fatica l’idea che il principale elemento a cui rivolgersi e da attrarre fosse quello straniero, cioè che la “Dante Alighieri” non dovesse più essere considerata un circolo di emigrati o di loro discendenti dei quali andava preservata la “italianità” come a limitare l’integrazione nel Paese ospite o a costituire una sorta di “quinta colonna” di cittadini dalla fedeltà scissa fra l’Italia e lo stato in cui si erano trasferiti, bensì un più aperto luogo di ritrovo e di scambio per tutti gli interessati alla lingua e alla cultura italiana, scevro da ogni nazionalismo e da ogni disputa politica.

Con il 43° congresso venne approvato, dopo una lunga gestazione, il nuovo Statuto che prevedeva il prolungamento del mandato del presidente e del consiglio centrale da due a quattro anni, per “assicurare […] la possibilità di svolgere un’azione continuativa, per un periodo sufficientemente ampio, tale da permettere l’impostazione e la realizzazione di un programma concreto”. Fu concesso il diritto di voto alle elezioni sociali a tutti i soci che avessero compiuto diciotto anni, nel tentativo di stimolare l’ingresso di forze nuove in una società che soffriva di un’immagine attempata. Inoltre, per favorire la nascita di nuove “piccol[e] fiamm[e] d’italianità” all’estero, fu stabilità la possibilità di fondare con soli nove membri “rappresentanze” riconosciute dalla sede centrale, laddove non fosse possibile giungere alla quota di venticinque che era la soglia per i veri e propri “comitati”; si rendeva infine più agevole, per i comitati all’estero, partecipare ai congressi sociali grazie all’abbassamento del rapporto fra soci iscritti e delegati che era possibile inviare. Ciò avrebbe aumentato le occasioni di contatto diretto fra soci di tutto il mondo e migliorato la comprensione dei problemi specifici di ciascuna area grazie al dialogo fra la sede centrale di Roma e i delegati dall’estero209

. Nel primo articolo si insisteva inoltre sul carattere aperto, e senza distinzione di razza o nazionalità, che la Società avrebbe dovuto assumere per allargare la sua base e rivolgersi a tutti gli interessati alla cultura italiana.

L’atteggiamento delle rappresentanze diplomatiche nei confronti dei comitati esteri era complesso: da un lato, la Dgrc incoraggiava la collaborazione armonica fra ambasciate e consolati e le sezioni della “Dante”, nonché l’appoggio e la supervisione sulla fondazione di nuovi comitati, specialmente dove fosse ancora assente un istituto italiano di cultura;

209

191 dall’altro, le condizioni non erano sempre favorevoli alla nascita e all’attività della “Dante”. Ciò avveniva sia per fattori esterni, cioè resistenze di tipo politico, strascichi psicologici negativi da parte degli stranieri nei confronti di alcuni comitati compromessi con il fascismo, impedimenti giuridici riguardanti la possibilità di fondare istituti che facessero capo ad una sede centrale collocata al di fuori del Paese; sia per fattori interni, come la scarsa levatura culturale di alcuni personaggi che ambivano a porsi in bella mostra nell’ambiente locale fregiandosi di cariche di rappresentanza, ma rischiavano di costituire più un danno che un aiuto per il prestigio culturale dell’Italia quando le attività organizzate sfiguravano di fronte al British Council o all’Alliance française; o ancora, il riproporsi alla presidenza dei comitati di persone che si erano contraddistinte come ferventi sostenitori del regime mussoliniano, circondandosi di soci in odore di collaborazionismo e imprimendo una valenza politica alle attività, e la cui presenza nel dopoguerra escludeva qualsiasi possibilità di attrarre e coinvolgere i rappresentanti locali della cultura. Nelle città dove esistevano contemporaneamente istituti italiani di cultura e comitati della “Dante Alighieri”, ambasciatori e consoli italiani dovevano adoperarsi per una distribuzione dei compiti fra le due istituzioni e per il mantenimento dei buoni rapporti fra il personale dell’istituto e quello della sezione dantesca. Un compito spesso non facile, specialmente nelle città dove comitati della “Dante” con numerosi soci e di antica data si vedevano scalzare il ruolo sul palcoscenico culturale da parte dei nuovi enti. Tuttavia, come si vedrà, non mancarono casi di effettivo e proficuo coordinamento, e perfino di condivisione degli stessi spazi, come accadde ad esempio a Beirut dove la sede della “Dante Alighieri” si trovava ospitata all’interno dell’istituto italiano di cultura, e mentre la parte più accademica e di alta cultura veniva curata dall’istituto, alla “Dante” era affidata la diffusione della lingua ai livelli elementari e medi. In questi casi il direttore dell’istituto di cultura si trasformava, di fatto, anche in consulente ed animatore delle attività dei comitati danteschi. Un’altra situazione frequente, nei Paesi dove le circostanze erano favorevoli, era la pratica trasformazione dei comitati della società presenti nei centri medi e piccoli in diffusori periferici delle attività degli istituti di cultura della capitale e delle città più grandi. Talvolta i diplomatici e gli stessi presidenti dei comitati scorgevano vantaggi, più che rischi di dispersione, in questa duplice possibilità per condurre l’azione culturale: dove l’istituto di

192 cultura, con il suo carattere di organismo ufficiale dello stato italiano, poteva risultare ingombrante e burocratico, sarebbe stato possibile condurre un’opera più agile, e in veste formalmente autonoma da ingerenze politico-amministrative, da parte dei comitati danteschi, tanto meglio se presieduti e diretti da non italiani.

Pur non essendo finanziata dallo stato e conservando uno status di autonomia, dunque, la “Società Dante Alighieri”, riconosciuta come ente morale, lavorava in contatto con le rappresentanze diplomatiche, inviava rapporti alla Dgrc del ministero degli esteri e ne riceveva indicazioni, veniva monitorata a livello governativo e aveva anche all’interno del parlamento un gruppo di estimatori e soci, che nel corso della prima legislatura iniziarono a porre il problema dell’appoggio, anche finanziario, che la collettività avrebbe dovuto fornire al sodalizio per lo svolgimento dei suoi compiti statutari di diffusione della lingua e della cultura italiana nel mondo. I rapporti intrattenuti con le istituzioni italiane conobbero momenti ed aspetti polemici sia per la valutazione e la gestione di situazioni geografiche specifiche sia per l’organizzazione generale della politica culturale, ma furono nel complesso stretti e frequenti.

2.4.2 La ricostruzione dei comitati e le attività culturali promosse dalla “Dante Alighieri”in Africa e Medio oriente

Il presupposto dal quale partirono i sostenitori della “Dante Alighieri” nel tentare la ricostruzione di una rete di comitati all’estero, quasi totalmente cancellata dalla guerra, fu che a dispetto dei segni di ostilità e di rancore di cui erano fatti oggetto gli italiani nelle occasioni e nelle forme più disparate, resistesse una quota di stranieri “italianizzanti” che poteva essere riavvicinata. Dopo i durissimi tre anni in cui tempo e risorse erano stati pressoché interamente assorbiti dalla ricognizione dello stato dei comitati, verso il 1948 si iniziavano a scorgere “i primi, confortanti risultati” dell’opera portata avanti sotto la spinta di Umberto Calosso e di Vittorio Emanuele Orlando210. In alcuni dei Paesi dove sembrava essere andata perduta ogni possibilità di riapertura, si era riusciti ad ottenere buoni progressi: in Egitto, che era senza dubbio lo stato africano in cui la società aveva

210