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di Anton Giulio Mancino

Nel documento Miti d'oggi. L'immagine di Marilyn (pagine 156-160)

Come è noto The Canary Murder Case (La canarina assassinata, 1929) di Malcolm St. Clair e, non accreditato, Frank Tuttle è la versione cinematografica più celebre dell’omoni- mo secondo e più noto romanzo giallo di Huntington Wright, in arte S.S. Van Dine, pubblicato per la prima volta nel 1927. L’importanza teorica di questo film, interpreta- to da una Louise Brooks, forse a disagio con la tecnica del parlato ma fisiologicamente molto congeniale al ruolo della ballerina di Broadway uccisa, deriva dal valore del “sonoro” nella modalità con cui viene inscenato il delitto e di conseguenza nella riso- luzione del caso da parte dell’abile quanto improvvisato detective Philo Vance. Cosa succede però oltre trent’anni più tardi quando Marco Leto, autore sempre attento nei suoi film per il cinema e per la televisione alle dinamiche politiche della storia contem- poranea, dirige per la Rai lo sceneggiato Philo Vance (1974)? Ricordiamo che la minise- rie è suddivisa in tre casi, corrispondenti ad altrettanti episodi di due puntate ciascuno. Ebbene Leto sceglie per il secondo, La canarina assassinata, di non far somigliare affatto la sventurata protagonista alla celebre diva che l’aveva interpretata ai tempi in cui l’industria cinematografica hollywoodiana stava passava dal muto al sonoro. L’attrice Virna Lisi infatti, nei panni della nuova, rivista e corretta Margaret Odell, è ora una “Canarina” bionda: una femme relativamente “ fatale”, decisamente poco svampita, fin troppo seria e ben diversa dalla figura della giovane diva emergente e senza scrupoli immaginata da Wright/Van Dine e incarnata coerentemente dalla Brooks. A chi si sarebbero dunque ispirati il regista Leto e gli sceneggiatori Biagio Proietti e Belisario Randone questa volta? L’ipotetica risposta a questa domanda elementare, risposta pe- raltro confermata dallo stesso Leto nel corso di una serie di conversazioni telefoniche recenti, può essere formulata soltanto in via ipotetica. E argomentata non perdendo il filo di coincidenze, indizi, analogie tutt’altro irrilevanti. I capelli biondi sono il primo segnale indiziante. Il secondo riguarda la più ricorrente delle due canzoni cantate dalla “Canarina” della versione televisiva italiana, cioè la classica It Had to Be You di Isham Jones e Gus Kahn del 1924. Incrociando questi dati preliminari arriviamo subito al più logico e inequivocabile dei modelli divistici su cui gli autori del Philo

Vance della Rai colta e a un tempo popolare degli anni Settanta si sono sicuramente

basati: la bionda Betty Hutton che canta It Had to Be You proprio in Incendiary Blonde (La bionda incendiaria, 1945), il film biografico di George Marshall incentrato sulla can- tante di nightclub degli anni Venti Texas Guinan. Per completezza di informazione

157 cinematografica bisognerebbe tener conto anche di altre versioni della stessa canzone, per esempio quella celeberrima di Dooley Wilson in Casablanca (Id., 1942) di Michael Curtiz, ma anche anni prima della cantante e attrice Ruth Etting in Melody in May (1936) di Ben Holmes. Ricordiamo inoltre che It Had Be You faceva parte anche del repertorio della bionda Doris Day. E la Day aveva interpreto a sua volta in Love Me

or Leave Me (Amami o lasciami, 1955) di Charles Vidor il personaggio della Etting, cui probabilmente si era già ispirato lo stesso Wright/Van Dine per la “Canarina” del suo romanzo: ad accomunare infatti il personaggio reale e quello letterario era il successo a Broadway culminato con la partecipazione al prestigioso cast delle Ziegfield Follies.

Eppure tutte queste combinazioni non bastano a far comprendere fino in fondo la strategia della “Canarina” bionda reinventata con cognizione di causa indiziaria da Marco Leto. C’è un’altra diva “fantasma” dietro il tragico personaggio dello sceneg- giato televisivo, vittima fatale dell’ambizione spropositata a un matrimonio di alto rango. La Virna Lisi del secondo episodio dell’interessante e sottile Philo Vance, pur deprivata dell’eccessiva sfrontatezza della vittima del libro originale o di quella cine- matografica incarnata dalla Brooks, suggerisce un’altra diva morta in circostanze mi- steriose, a giudizio di molti inequivocabilmente delittuose1, proprio in quanto amante

scomoda di un uomo sposato, potente e troppo in vista. Un’amante ingombrante, da rimuovere. Parliamo ovviamente di Marilyn Monroe, al centro del “giallo” della sua controversa morte in cui sarebbero implicati Robert Kennedy, l’attore Peter Lawford e lo psicanalista freudiano Frank Greens[chpo]on2, analista anche di Frank Sinatra, a

suo modo coinvolto nel caso Monroe, nonché grande interprete della canzone It Had

to Be You. Sono molte le ragioni, confortate dal confronto con il regista Marco Leto,

che ci inducono a credere che sia piuttosto la Monroe la protagonista ombra della trasposizione televisiva italiana, quella Monroe molto cara agli intellettuali italiani, già celebrata con accenti lirici da Pier Paolo Pasolini nel suo segmento di La rabbia (1963). Donde la decisione nel suggestivo Philo Vance italiano di approfondire il perso- naggio della povera, bionda Odell, ricorrendo a numerosi flashback che ne restituisco- no l’umanità, la segreta tristezza, la consapevolezza di come vanno le cose nel mondo e nella società dello spettacolo. E persino di suggerire l’amore indicibile per la ragazza da parte dell’irreprensibile detective, mai così romantico come in questo “caso” a uso e consumo del circuito televisivo. Per afferrare il rapporto tra la “Canarina” della miniserie Rai e l’epilogo biografico di Marilyn Monroe bisogna riandare all’ormai paradigmatico romanzo di Wright/Van Dine, di cui eviteremo comunque di rivelare il nome del colpevole. Dove tra i sospettati dell’omicidio della “Canarina” troviamo l’ex piccolo delinquente italoamericano Tony Skill, il dottor Ambroise Lindquist, il 1 Cfr. in particolare Donald H. Wolfe, Marilyn Monroe. Storia di un omicidio, tr. it. Sperling & Kupfer, Milano 1999).

2 Cfr. Luciano Mecacci, Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicanalisi, Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 3-40.

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commerciante di pellicce Louis Mannix, l’impresario teatrale e discografico Kenneth Spotswoode, l’affarista Charles Cleaver. Niente di più semplice per la versione televi- siva di Leto che recepire lo schema di Wright/Van Dine e proiettarlo sul mistero che avvolge la morte di Marilyn Monroe, avallando così l’ipotesi delittuosa. Ma lasciando al telespettatore il compito di decifrarne le tante allusioni e corrispondenze, peraltro discrete e mai insistite.

Al di là del giallo nel giallo, tra cronaca e letteratura, importa qui sottolineare l’omaggio esplicito del piccolo schermo domestico, nell’Italia dell’anno chiave del refe- rendum sul divorzio, a un universo profondamente cinematografico, prima ancora che storico e culturale, come era logico attendersi da un epigono di Hugo Münsterberg3

quale il detective fittizio Philo Vance, sopraggiunto sul luogo del delitto a commemo- rare l’inconfessabile amata oramai senza vita. Ossia quella «immagine del cadavere visto, che è un – 1 […], la risposta cercata si inscrive sempre al negativo sulle immagini che precedono il suo arrivo»4, cui fa riferimento Vernet a proposito dell’impianto del

film poliziesco. Non è del resto di poco conto la circostanza che in questo romanzo la chiave risolutiva Vance, sempre disposto ad ammirare intellettualmente l’omicida- artista, la trovi nella relazione che l’opera d’arte autentica intrattiene con la copia, ancorché perfetta, anzi proprio per questa suo eccesso di perfezione5.

In definitiva i cinema in primo luogo, e di diritto, in tutti i sensi, c’entra. A partire dalla serie di film interpretati da William Powell nei panni consoni dell’impertinente Philo Vance, fino al Giorgio Albertazzi del telefilm di Leto, alle prese con il cadavere di una Virna Lisi travestita da novella diva tra Broadway e Hollywood, stavolta però in completa confidenza con il sonoro, a differenza della Brooks. La “Canarina” del 1974 diventa perciò la sosia relativamente appariscente di Marilyn Monroe, che canta

It Had to Be You, e non, per esempio, I Wanna Be Loved By You come in Some Like It Hot

(A qualcuno piace caldo, 1959) di Billy Wilder. Perché questo sarebbe stato invece un indizio troppo scoperto e inopportuno. Motivo in più per accorgersi di come il suo principale autore, Leto, di pratiche discorsive applicate ai corsi, ai ricorsi e ai decorsi storici nazionali, se ne intenda. Tanto da convertire un apparente divertissement giallo, memore e filologicamente debitore della tradizione hollywoodiana, in uno strumen- to di decostruzione, commemorazione e controinformazione a un tempo. L’esercizio metalinguistico affidato all’inizio di ogni puntata all’attore pieno di sé per eccellenza, Albertazzi, serve a portare allo scoperto il dispositivo (tele)filmico. Onde lasciare allo 3 Cfr. Anton Giulio Mancino, Il fenomeno «Phi», in arte Philo Vance, in Riccardo Caccia, Mario Gerosa (a cura di), Maestri in Serie, Falsopiano, Alessandria, 2013, pp. 103-111.

4 Marc Vernet, in AA.VV., Lectures du film, Albatros, Paris, 1975 (tr. it. Attraverso il cinema.

Semiologia, lessico, lettura del film, Longanesi, Milano, 1978, p. 153).

5 Cfr. S. S. Van Dine [Willard Huntington Wright], The Canary Murder Case, Scribner’s, New York, 1927 (tr. it. La canarina assassinata, I classici del giallo Mondadori n. 571, Mondadori, Milano, 1988; Il giallo del lunedì, l’Unità/Mondadori, Milano-Roma, 1992, pp. 103-110).

159 spettatore sempre – anche quando la trama e la finzione convenzionale prendono il sopravvento – quel margine di straniamento, commozione e indignazione ricon- ducibile al ricordo esemplare e automatico dell’immagine divistica assai triste della Monroe. La simbiosi parziale o totale, non fa differenza, tra spettatore e film sostenuta da Münsterberg come da Metz6, non avrebbe potuto trovare conferma migliore.

6 Cfr. Christian Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, tr. it. Marsilio, Venezia, 1980; 2002, pp. 107-115.

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