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di Miriam Visall

Nel documento Miti d'oggi. L'immagine di Marilyn (pagine 160-170)

Il 1953 fu un anno cruciale per Marilyn. La relazione annuale del Quigley Poll la collocava al primo posto della classifica degli attori che registravano i maggiori incassi commerciali. La «povera ragazzina povera»1 riscattava l’umiliazione di un’infanzia

saccheggiata dall’indigenza, e finalmente cristallizzava la sua firma sull’Hollywood Boulevard, al Grauman’s Chinese Theatre, dove veniva celebrata come la bionda che gli uomini preferiscono. L’evento fu riportato dalla stampa nei minimi dettagli e con un clamore tale da offuscare la notizia del fidanzamento di John Kennedy che, in quello stesso anno, sposò Jacqueline Bouvier. Ma questa è un’altra storia.

Il 1953 è l’anno dei tre grandi successi che la consacrano al grande schermo, Niagara (Id., Henry Hathaway), Gentlemen Prefer Blondes (Gli uomini preferiscono le bionde, Howard Hawks) e How to Marry a Millionaire (Come sposare un milionario, Jean Negulesco); è l’anno in cui compare, il 17 novembre, sulla copertina del magazine «Look», in una delle sue pose che diverrà archetipica. Nel frattempo, il reparto spedizioni della 20th Century Fox era letteralmente sommerso dalla posta degli ammiratori di Marilyn, il consenso del pubblico superava di gran lunga quello di Darryl Zanuck che, agli esordi della sua carriera, la considerava poco fotogenica, come lei stessa raccontò poi a Ben Hecht2,

quando insieme stilarono quel controverso documento che sarebbe poi diventato la sua autobiografia. Controverso perché, ricorda anche Anthony Summers, Hecht ri- ferì al suo editore di avere la sensazione che Marilyn finì con l’inventare alcuni suoi ricordi. «Non credo che cerchi di ingannarmi» spiegava Hecht «ma piuttosto che si abbandoni alle fantasie», ed era quindi necessario tentare di interpretare quel «curioso linguaggio corporeo di Marilyn, per capire quando stava inoltrandosi in un racconto inventato e quando invece era sincera»3. Ancora nel 1953, Marilyn istituiva un altro

primato. Fu la prima coniglietta del mese di Hugh Hefner che, a dicembre, turbava le edicole con «Playboy» e il famigerato paginone centrale con la celebre fotografia di Tom Kelley di cui Hefner aveva acquistato i diritti. È noto come Marilyn seppe tra- 1 Enrico Giacovelli, Tutto quello che avreste voluto sapere su... Marilyn Monroe, Lindau, Torino, 2000, p. 10.

2 Marilyn Monroe with Ben Hecht, La mia storia, tr. it. Donzelli, Roma, 2010, pp. 86, 188. 3 Anthony Summers, Marilyn Monroe. Le vite segrete di una diva, tr. it. Bompiani, Milano, 1986, p. 19.

161 sformare, già durante l’anno precedente, il potenziale disastro del calendario in un’ot- tima campagna pubblicitaria, per se stessa e per la Fox. Tornò infatti preponderante il giudizio del pubblico che non fissò il tributo dello scandalo bensì comprese appieno – o prese per buono – ciò che Marilyn definì «lo spettro della povertà» e non «un peccato nato per perseguitarmi»4. E dichiarò poi che il pubblico fu toccato dalla sua prova di

onesta povertà: in fondo, con quei cinquanta dollari di cachet avrebbe potuto quanto- meno riscattare la sua automobile. In più quel calendario piacque, e piacque molto, a milioni di lettori. L’amato pubblico era la sua sola famiglia, dichiarava Marilyn, per- ché nessuno prima del grande successo, nemmeno sua madre Gladys, voleva vedere la piccola Norma Jeane: «sapevo di appartenere al pubblico» diceva, «al pubblico e al mondo, non perché avessi talento e nemmeno perché fossi bella, ma perché non ero mai appartenuta a nient’altro o a nessun altro»5.

Nell’agosto del 1953 compariva sugli scaffali delle librerie americane il secondo rap- porto Kinsey6, fatto considerato e posto in relazione all’affaire «Playboy» da Richard

Dyer7. L’uscita del volume di Kinsey e la repentina ascesa di Marilyn, passata anche

attraverso lo sdoganamento delle fotografie di Kelley, in qualche modo coincisero: lei, “The Body”, era il «living embodiment» della rottura con la cultura degli anni Cinquanta. Marilyn, spiega Dyer «personificava le tensioni che attraversavano l’Ame- rica: una sopravvivenza eroica alle tensioni o una loro dolorosa esposizione»8.

Donald Spoto osserva che «come Marilyn, Kinsey svelava la pretestuosità del moralismo puritano e vittoriano ancora vivo a Hollywood, incarnato dalla censu- ra e dalla Lega della Decenza». E ancora: «Forse, l’elemento di maggior disturbo per una cultura che stava subendo un tale travaglio era che [Marilyn] faceva sem- brare la sessualità sfacciata. Audrey Hepburn e Grace Kelly, signore del cinema, ricevevano gli oscar, ma lei era costantemente acclamata da migliaia di fan come nessun’altra»9.

Marilyn era una magica sintesi degli opposti. La sua peculiare commistione di «desiderio e confusione»10 emerge perfino nel suo debutto televisivo. Siamo ancora

nel 1953 quando, il 13 settembre, Marilyn apparve per la prima volta in tv ospite del

Jack Benny Show (1950-1964, CBS; 1964-1965, NBC). Qui Marilyn è il sogno di Jack

Benny, ma non può restare tale a lungo perché non può che scontornare l’incorporeità dell’onirico. E il piccolo schermo sembra contenere a stento quel fascino fragile ma 4 Marilyn Monroe, La mia storia, cit., p. 187.

5 Ivi, p. 189.

6 Alfred Kinsey, Sexual Behaviour in the Human Female, Indiana University Press, Bloomington, 1953.

7 Richard Dyer, Heavenly Bodies, Film, Stars and Society, Routledge, London, 1987, p. 25. 8 Richard Dyer, Star, tr. it. Kaplan, Torino, 2003, pp. 45-46.

9 Donald Spoto, Marilyn Monroe, tr. it. Sperling&Kupfer, Milano, 1994, pp. 222-223). 10 Ibidem.

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impudente, consapevole di una corporeità irruente e così sfrontatamente carnale da restituire un «corpo-spettacolo»11, restituirlo allo spettatore che non può che ammirar-

la con un «puro sguardo»12.

Edgar Morin riteneva che Marilyn e il Cinemascope fossero la risposta del cine- ma alla minaccia rappresentata dalla televisione negli anni Cinquanta13. La tv stava

davvero sostituendosi al grande schermo come attivatore di sogni privati e di modelli collettivi?

Ripercorrendo le forme e i generi della fiction televisiva è possibile riscoprire il carattere composito della rappresentazione catodica di Marilyn. Possiamo ipotizzare un raggruppamento di tali rappresentazioni in tre categorie (evocazione, citazione, biopic), senza tracciare confini statici ma delineando piuttosto frontiere aperte all’in- terscambio.

Dal divano del produttore di Hollywood, su cui torneremo, ben presto giungiamo al divano della sitcom, quando I Love Lucy (1951-1957, CBS) entrava nelle cucine dei sobborghi post bellici, seguita da milioni di telespettatori, registrando già nel 1952, il primato degli indici di ascolto14.

L’episodio in questione è Ricky’s Movie Offer (6x4). Marilyn è qui inizialmente evoca- ta, nel dialogo tra Lucy ed Ethel, come «Marilyn Monroe type», potremmo dire come mero segno, stilizzato, cristallizzato nella sua immagine già archetipica. La “personifi- cazione” di Lucy che “indossa” il corpo di Marilyn avviene certamente nell’ottica pa- rodistica secondo gli stilemi del genere, semplicemente blonde ambition (come è riportato anche sulla trading card della serie) e inguainata nel suo abito fasciante, eccedente nella

performance e in alcuni tratti peculiari, come il neo riposizionato “a caso” sul volto di

Lucy. Il regime iconico è invece determinato dalla riconoscibilità dell’abito (pelliccia a parte) e del diadema che rimandano a Gli uomini preferiscono le bionde.

L’evocazione di Marilyn è un fatto ricorrente nella serie di Lucy Ball. Citiamo altri esempi: in Ricky’s Screen Test (4x7) Marilyn compare nella lista delle possibili protagoni- ste per il nuovo film di Ricky sulla vita di Don Juan; in The Hedda Hopper Story (4x20) Ricky è frustrato dal fatto che il suo nome non compaia nella rubrica della Hopper, che riserva invece molto spazio alla Monroe. «Ma cosa avrà mai Marilyn che io non ho?», si lamenta candidamente Ricky; in Lucy and Harpo Marx (4x27) Lucy ipotizza che Ethel possa interpretare Marilyn per l’amica Caroline che vuole a tutti i costi conosce- re una celebrità, ma vedendo la performance di Ethel conclude: «No, nessuno è così miope»; ancora sul tipico incedere di Marilyn, rintracciamo l’episodio Lucy Does the

Tango (6x20) in cui Lucy raccomanda a Ethel di non camminare, per nessuna ragione,

11 Richard Dyer, Star, p. 11.

12 Michael Conway, Enrico Magrelli, Mark Ricci, Marilyn Monroe, Gremese, Roma, 1981, p. 8. 13 Richard Dyer, Star, cit., p. 17.

14 Erik Barnouw, Il canale dell’opulenza. Storia della televisione americana, tr. it. ERI, Torino, 1981, p. 106.

163 come Marilyn; infine, nell’episodio Lucy and Superman, Caroline Appleby racconta la trama di un film appena visto: «e poi carica Marilyn sulle sue spalle e la porta via...», probabilmente in riferimento a Don Murray in Bus Stop (Fermata d’autobus, 1956, di Joshua Logan).

Oltre all’evocazione del nome proprio, sono qui richiamati specifici atti performa- tivi di Marilyn, con particolare riferimento al portamento, al suo tipico incedere, la cui coeva attinenza cinematografica potrebbe essere Niagara nella celebre scena della burrosa camminata, mentre si allontana dall’automobile. La prospettiva della sitcom è parodica, per cui ci viene restituita una competenza di Marilyn che passa soprattutto attraverso il suo corpo-spettacolo eludendo la performance attoriale, da risultare quindi sovradimensionata, caricaturale, eppure evocativa di quel “corpo euforico” che era originariamente il corpo di Marilyn nella commedia.

L’evocazione può anche essere mascherata. Il critico televisivo Cecil Smith recensì, nel 1963 sul «Weekly Tv Magazine» del «Los Angeles Times», un episodio della serie tv The Eleventh Hour (1962-1964, NBC) dal titolo Like a Diamond in the Sky, in cui il corpo della cantante Joan Ashmond – interpretata da Julie London – viene trovato privo di vita riverso sul suo letto. Le indagini dovranno stabilire se si tratta di suicidio o omici- dio. Smith individuò un legame con la tragica scomparsa di Marilyn, nonostante Julie London avesse poi dichiarato di non aver attuato alcun tentativo di identificazione con la Monroe. Eppure, spiega Smith, il ritratto dell’artista che emerge dai flashback è di una star acclamata ma sola e disperata, incapace di gestire il proprio successo, persa negli oscuri recessi della sua mente.

Dalla più recente serialità televisiva rintracciamo due esempi di evocazione tratti dalla seconda stagione di Mad Men (2007 – in produzione, AMC), Maidenform (2x6) e

Six Month Leave (2x9). I pubblicitari di Madison Avenue dell’agenzia Sterling Cooper

devono ideare una campagna promozionale per il brand Playtex, con l’idea di tra- volgere Maidenform, il diretto concorrente. La scena è complessa e convoca svaria- te tematiche. Tralasciando le questioni relative ai gender studies data la vastità delle suggestioni, individuiamo invece la rappresentazione di un preciso modello culturale. La pluripremiata serie Mad Men si pone nel sottogenere drammatico del period drama ed è particolarmente apprezzata dalla critica per la minuziosa ricostruzione socio- culturale. La decade è quella degli anni Sessanta, ripercorsa anche attraverso le sue contraddizioni, problematizzata nelle sue incombenti trasformazioni. Qui l’evoca- zione di Marilyn richiama principalmente il modello seduttivo, quella pura corpo- reità di cui abbiamo accennato, dove Marilyn – la cui immagine è utilizzata come testimonial del prodotto – è mero segno convenzionale di un linguaggio proprio, in cui è sufficiente l’evocazione nominale per convocare l’immaginario. È un modello archetipale assurto a strumento di decodificazione della complessità del femminile: ci pone in effetti di fronte a un’antitesi concettuale che convoca i due assi di eleganza e seduzione come categorie del pensiero. Dal punto di vista figurativo l’immagine

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della campagna pubblicitaria potrebbe anche suggerire un appiattimento sul modello seduttivo, che investe naturalmente il corpo di Marilyn così come quello di Jackie: la modella non cambia e, di là dell’opposizione cromatica e degli oggetti correlati che addensano opposte modalità simboliche (una tazza di caffè per Jackie e un calice di champagne per Marilyn), l’immagine indicherebbe piuttosto che anche una Jackie, a patto che indossi un Playtex come Marilyn, può sconfinare entro un determinato mo- dello di seduttività, che rimanda principalmente all’esperienza di superficie, esteriore e connotativa del corporeo. Sarà Peggy Olson – modello Irene Dunne secondo Don Draper ma personaggio-sintomo delle imminenti trasformazioni – a problematizzare l’inadeguatezza di tale rappresentazione: la nuova decade non può appiattirsi sulla semplificazione manichea.

Nell’episodio Six Month Leave l’evocazione di Marilyn ne definisce la tematica princi- pale, individuata nella dissimulazione: la notizia della sua morte sconvolge i protagonisti della serie ed è funzionalmente simbolizzata con l’intento di penetrare la superficie delle forme perfette, di svelare quali misere esistenze si celino dietro più patinate apparenze. Come può cadere in un irreversibile stato depressivo la star più acclamata dell’epoca? Evidentemente, l’apparenza inganna, fama e denaro non sono sinonimi di felicità, così come il matrimonio di Don e Betty Draper non è poi così perfetto come appare, e lo stesso si dica per Roger Sterling e Jane, la giovane, attraente nuova moglie, o ancora la promozione di Peggy che non può essere celebrata poiché determinata dal licenziamento del senior copywriter Freddie Rumsen. Inoltre, la notizia della morte di Marilyn rap- presenta la timeline degli eventi storici che è una marca stilistica della serie, nel cui tessuto riconosciamo infatti, tra gli altri, la crisi missilistica di Cuba, l’assassinio di Kennedy, il susseguirsi degli scontri per i diritti civili della comunità afroamericana.

Con la citazione rinviamo all’ambito del simbolico, all’individuazione di regole del pensiero e all’identificazione di classi di oggetti, sintomi, tracce che, basandosi sul- la riconoscibilità accettata e condivisa, sono posti in relazione al modello-Marilyn per convenzione. Ed ecco Marilyn come prototipo, come linguaggio autonomo, come simbolo riconoscibile, anche nella sua decostruzione, dove la chioma platino, le lab- bra scarlatte che rievocano lo schiocco malizioso e insieme ingenuo della sua risata, le palpebre socchiuse, gli abiti e gli oggetti di scena, generano per espansione quel corpo-spettacolo di pura visione, e per addensamento una convergenza di significati paradigmatici.

È il caso dell’episodio The Warren Omission (1x13) della serie di fantascienza cospira- tiva Dark Skies (1996-1997, NBC), in cui Robert Kennedy compare in un filmato che, se diffuso, danneggerebbe irrimediabilmente la sua carriera: le coordinate storiche e gli elementi figurativi modellizzanti rendono accessoria l’evocazione del nome di “Miss Monroe”, quando la proiezione del filmato è terminata.

Sempre nell’ordine della citazione, Marilyn sopravvive perfino nella memoria di Dave Lister, l’ultimo superstite della Terra sopravvissuto a una stasi temporale di tre

165 milioni di anni, nella sitcom fantascientifica britannica Red Dwarf (1988-1999, BBC Two). Marilyn è qui inequivocabilmente Marilyn, “citata” nel celeberrimo abito bian- co della voluttuosa vicina di casa di Richard Sherman (Quando la moglie è in vacanza) nell’episodio Better Than Life (2x2), e nel cremisi di Rose Loomis (Niagara) nell’episodio

Meltdown (4x6).

Ancora l’abito bianco che sventolava sulla Lexington Avenue avvolge la Marilyn celestiale citata nell’episodio The End (5x10) della sitcom Curb Your Enthusiasm (2000-in produzione, HBO), in cui appare allo sventurato Larry David, poco prima del (bef- fardo) risveglio dal coma.

La citazione ha invece valore celebrativo nell’episodio G.G. (5x13) del teen drama Gossip

Girl (2007-2012, The CW), centesima puntata della serie. In una sequenza onirica Serena

van der Woodsen veste l’abito di Marilyn “citando” l’esecuzione di Diamonds are Girl’s Best

Friends (e in cui i cavalieri sono alcuni dei personaggi della serie). Sulla gradinata, invade

la scena anche Blair Waldorf come Audrey Hepburn, fasciata dal celebre Givenchy, quasi a sottendere una certa rivalità tra le protagoniste della serie e restituendo al giovane pub- blico di Gossip Girl un immaginario simbolico forse non così distante.

Il biopic televisivo a soggetto Marilyn può forse rappresentare una categoria a sé stante in cui, con il modello, sussiste la più immediata delle relazioni, ossia la relazione iconica, determinata da un rapporto di somiglianza che prende forma quando sostituiamo qual- cosa con qualcos’altro, attraverso un processo di selezione e combinazione. Si tratta di un generecontroverso per definizione, problematico dal punto di vista della veridicità degli eventi considerati e narrati. Ne elenchiamo alcuni: The Sex Symbol (1974, ABC) in una formula ibrida, tra il biopic mascherato ed evocazione, che ripercorre la saga di Marilyn ma con nomi fittizi; dello stesso anno, la trasposizione del dramma di Arthur Miller After

the Fall (NBC), con Faye Dunaway nel ruolo di Maggie, che possiamo includere nel no-

stro elenco in ragione del carattere autobiografico dell’opera originale; due produzioni a basso costo del 1980, This Year’s Blonde (NBC) e Marilyn: The Untold Story (ABC), ancora nel formato del tv movie; in Marilyn & Me (1991, ABC) è Robert Slatzer a raccontare, anche in voce over, del suo travagliato rapporto con la Monroe, rivendicando tra l’altro il loro matrimonio che sarebbe stato celebrato il 4 ottobre 1952; ricordiamo ancora due recenti produzioni, Norma Jeane and Marilyn (1996, HBO) interpretate rispettivamente da Ashley Judd e Mira Sorvino, e la mini serie in due puntate Blonde (2001, CBS), tratta dal roman- zo di Joyce Carol Oates, con una platinata Poppy Montgomery che gli “spettatori seriali” ricorderanno nel ruolo dell’ex poliziotta affetta da ipertimesia del recente police procedural

Unforgettable (2011-in produzione, CBS). Riscontriamo poi una presenza ricorsiva, sempre

nell’ambito del tv movie, dell’icona Marilyn nei biopic di altri personaggi, specialmente – è ovvio – nel filone dedicato alle biografie dei Kennedy: Hoover vs The Kennedys: The Second

Civil War (1987, Syndication), A Woman Named Jackie (1991, NBC), Marilyn and Bobby (1993,

USA Network), fino all’ultima miniserie in otto episodi The Kennedys (2011, ReelzChannel), dove il racconto-Marilyn invade, per così dire, l’altrove biografico. O ancora, nel biopic

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The Rat Pack (1998, HBO) sulle famigerate divagazioni del clan di Sinatra, in cui Marilyn

è contestualizzata a cena con i Kennedy, Di Maggio, Sinatra e il resto del Rat Pack, con il consueto calice di champagne, la risata schioccante, la chioma platino e quel décolle- té in vista, di cui Di Maggio avrebbe gradito una più parsimoniosa esposizione; infine,

Introducing Dorothy Dandridge (1999, HBO), in una breve apparizione in cui funziona da

corollario alla Hollywood delle feste e della dolce vita, e non più la Hollywood «disperata e bugiarda» di cui Marilyn racconta nella sua autobiografia15.

Il caso dell’episodio Goodbye Norma Jean (5x18) – senza la /e/ finale, come vorrebbe invece il suo certificato di nascita – della serie sci-fi Quantum Leap (1989-1993, NBC) è collocabile tra citazione e biopic. Il dottor Samuel Beckett viaggia nel tempo “ospi- tato” nel corpo del soggetto che, solitamente, deve trarre in salvo. Il salto temporale al 4 aprile del 1960 lo ricolloca in uno scenario che ci sembra richiamare Brentwood, il sobborgo di Los Angeles in cui Marilyn visse, sulla 5th Helena Drive, a partire in verità dal 1962. Beckett è qui l’autista di Marilyn, impegnato a evitare il suicidio che l’attrice avrebbe commesso entro quattro giorni, prima di terminare i lavori sul set del suo ultimo film. La ricostruzione di Quantum Leap integra alcuni segni riconoscibili, seppure con alcune incongruenze temporali, in una operazione che, anche in questo caso, lascerebbe pensare a un addensamento figurativo: l’immagine di Marilyn a bor- do piscina che rimanda a Something’s Got to Give e alla sessione fotografica di William Woodfield e Lawrence Schiller pubblicata su «Life» nel giugno del 1962; il maglione, che evoca quello indossato nell’ultima photo session di George Barris realizzata il 13 luglio 1962; la ricostruzione dell’abitazione di Marilyn, in cui possiamo riconoscere, appunto, il sito di Helena Drive, con la sua piscina e la cucina in stile messicano.

Così come nell’ampia letteratura, ricostruita da Sarah Churchwell che scrive una storia delle storie di Marilyn16, anche la sua decostruzione e ricostruzione proposta

dal piccolo schermo sembra più spesso propendere – seppure con opportuni distinguo – ad astrarre e congelare un corpo, acclamato ma umiliato, non come «la delicata fab- brica della vita» ma «la regalata dispensa del sesso»17. Non è semplice, certo, rendere

appieno che quel corpo contenesse cuore, cervello e anima, non è semplice orientarsi oltre i cliché ormai radicati nell’immaginario. «Lei è come un abito che mi metto addosso», dice la segretaria personale di Marilyn nell’episodio di Quantum Leap. È il paradosso della resa visuale dell’immagine-Marilyn quale immagine polisemica che non dovrebbe comportare la stasi18, il paradosso della ricostruzione di una persona

reale, eppure completamente schermica19. 15 Marilyn Monroe, La mia storia, cit., p. 56.

Nel documento Miti d'oggi. L'immagine di Marilyn (pagine 160-170)