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La vedette come lavoratrice sociale

Nel documento Miti d'oggi. L'immagine di Marilyn (pagine 34-40)

di Monica Dall’Asta, Gabriel Ferreira Zacarias

2. La vedette come lavoratrice sociale

Debord introduce il concetto di spettacolo fin dalla prima tesi del suo libro del 1967, quando scrive che «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rap- presentazione» (§1)1. Con ciò Debord certamente non intende affermare l’esistenza di

un vissuto privo di rappresentazione, ovvero di una sfera dell’esperienza che potrebbe essere al di là del linguaggio. Il problema che vuole sollevare riguarda piuttosto lo scollamento tra esperienza vissuta e forme della rappresentazione. Il fenomeno della «specializzazione» del linguaggio, viene interpretato da Debord tramite una teoria dell’alienazione di matrice marxista. In questa chiave, l’allontanamento del vissuto in una rappresentazione appare come un fenomeno complementare a quello dell’aliena- zione del mondo materiale, esposto nella tesi 33: «L’uomo separato dal suo prodotto produce sempre più potentemente egli stesso tutti i dettagli del suo mondo, e si trova così sempre più separato dal suo mondo. Quando più la sua vita è ora il suo prodotto, tanto più è separato dalla sua vita».

In questo modo lo spettacolo realizza l’alienazione delle potenze rappresentative degli esseri umani. Se da un lato Debord definisce la società premoderna come quella che aveva potuto «padroneggiare una tecnica e un linguaggio» (§126), dall’altro rico- nosce la società capitalista come il luogo dell’alienazione della tecnica, e la società dello spettacolo come il luogo dell’alienazione del linguaggio.

Infatti, il direttamente vissuto può essere allontanato in una rappresentazione pro- prio in quanto «questo vissuto individuale della vita quotidiana separata resta senza linguaggio». (§157) Lo spettacolo ci presenta un linguaggio che dovrebbe compensare quest’assenza, ma senza tuttavia implicare un qualsiasi cambiamento effettivo nella vita quotidiana delle persone. Dal momento che il vissuto individuale resta senza lin- guaggio, diventa possibile, e perfino desiderabile, il consumo della rappresentazione del vissuto. È questo il processo che Debord designa con l’espressione di «specializ- zazione del vissuto apparente» e di cui tratta nella tesi 60, che nel film accompagna l’immagine di Marilyn Monroe: «La condizione di vedette è la specializzazione del

vissuto apparente, l’oggetto dell’identificazione alla vita apparente senza profondità, che

deve compensare lo sbriciolamento delle specializzazioni produttive effettivamente vissute».

1 Guy Debord, La società dello spettacolo (1967), tr. it. Baldini&Castoldi, Milano, 2001. Monica Dall’Asta, Gabriel Ferreira Zacarias

35 Rappresentazione di una vita mai vissuta da nessuno, «le vedettes esistono per raf- figurare tipi vari di stili di vita» (§60). La vedette è per lo più una merce spettacolare privilegiata, poiché ciò che essa offre ai suoi consumatori/spettatori è lo spettacolo stesso del consumo. Ecco perché Debord afferma che le vedette «incarnano il risultato inaccessibile del lavoro sociale» (idem). Dando l’impressione di un accesso illimitato al regno della merce, la vedette fa mostra di una capacità assoluta di godere di tutto ciò che è prodotto dalla società. Essa può così «compensare lo sbriciolamento delle specia- lizzazioni produttive effettivamente vissute» poiché tramite l’identificazione anche lo spettatore riesce a goderne, sebbene solo su di un piano immaginario.

Tuttavia, dopo avere affermato che le vedette «incarnano il risultato inaccessibile del lavoro sociale», Debord aggiunge ancora un’importante osservazione:

Esse incarnano il risultato inaccessibile del lavoro sociale e di stili di comprensione della società, liberi di esercitarsi globalmente. Esse mimano dei sottoprodotti di que- sto lavoro che vengono magicamente trasferiti al di sopra di esso come suo scopo: il potere e le vacanze, la decisione e il consumo che sono all’inizio e alla fine di un processo indiscusso (§60).

Nella prospettiva marxista, il «processo indiscusso» di cui parla Debord è quello della produzione di merce, il ciclo di riproduzione del capitale che sembra orientare tutta la vita sociale. Già Marx aveva mostrato come alla base di questo processo non si trova nient’altro che il lavoro – dal momento che è il tempo di lavoro sociale astratto che fonda il valore della merce. Se questo è vero, il potere di decisione sulla produzione di merci, e la possibilità di consumarle in abbondanza, sono soltanto due conseguenze del lavoro sociale.

Inoltre, la distinzione che Debord propone tra questi due «sottoprodotti» del lavoro sociale, il potere e il consumo, rinvia a una distinzione tra due diversi tipi di vedette. Da una parte, la vedette che incarna il potere, il rappresentante della libera scelta nella sfera dalla produzione: «Lì, è il potere governativo che si personalizza in pseudo- vedette» (§60). Dall’altra, la vedette della «vacanza», colei che incarna la possibilità di godere illimitatamente del tempo libero, di un’infinita possibilità di scelta nell’ambito del consumo: «qui, è la vedette del consumo che ottiene il consenso generale come pseudo-potere sul vissuto» (§60).

Si noti però che quando Debord si riferisce al potere egli impiega l’espressione «pseudo-vedette», mentre quando parla del consumo, usa il termine «pseudo-potere». Perché? Perché, anche se entrambe queste figure possono portare temporaneamen- te gli stessi abiti spettacolari, la loro attività reale è sostanzialmente diversa. Come sappiamo, oggi è obbligatorio per i politici saper apparire come vedette; devono tut- ti costruire un “vissuto apparente” capace di sedurre gli elettori al di là di qualsia- si ragionamento politico. Eppure, anche quando gli stessi politici (si pensi al caso di

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Berlusconi) si comportano alla stregua di una vedette della vacanza, essi rimangono pur sempre agenti del potere specializzato e hanno ancora il potere di decidere sul funzionamento dello Stato.

La vera vedette è dunque la vedette del consumo, giacché la sua unica funzione è quella di rappresentare una pura apparenza: essa è, come dice Debord, «senza profon- dità». Certo, ciò non vuol dire che essa goda concretamente della vita privilegiata che mette in scena. Al contrario, ciò significa solo che non le resta altro che questa messa in scena. La sceneggiatura essendo definita in anticipo, i ruoli sono sempre gli stessi, qualsiasi sia l’individuo che ne è l’interprete.

La vedette si rivela quindi essere il contrario di quello che normalmente si pensa. Come si legge in una tesi non ripresa nel film: «Le persone ammirevoli in cui il siste- ma si personifica sono ben conosciute per non essere quel che sono; esse sono divenute grandi uomini scendendo al di sotto della realtà della più infima vita individuale, e tutti lo sanno» (§61).

Anche questo può spiegare l’insistenza di Debord sull’immagine di Marilyn. Del resto, fatto poco noto, l’immagine dell’attrice era già stata scelta dai situazionisti per il manifesto della loro sesta conferenza convocata nel novembre 1962, pochi mesi dopo la sua morte2.

L’interesse per l’immagine di Marilyn è dunque in rapporto stretto con la sua scomparsa. La sua morte può essere considerata un evento specialmente significativo nella misura in cui rende palese una verità più generale a proposito delle dive – «queste vittime sacrificali di un dio senza volto» per usare le parole di Giorgio Agamben3.

3. Shooting

Provando a definire l’operazione di montaggio compiuta da Debord nei suoi stessi ter- mini si dovrebbe senz’altro parlare di un détournement maggiore, ovvero di un gesto di appropriazione che qualifica anche come «abusivo». Rispetto al caso più elementare rappresentato dal détournement minore, nel quale l’elemento prelevato e risignificato viene totalmente piegato alle intenzioni comunicative del nuovo contesto, il détourne-

ment abusivo si caratterizza per la persistenza di un nucleo significante incancellabile,

che rimane sempre più o meno velatamente percepibile sotto i nuovi strati di senso attribuiti al frammento4.

Per cogliere la posta in gioco di questo particolare caso di détournement maggiore, oc- corre perciò risalire all’origine delle fotografie di Marilyn riprodotte nel film. Quattro su cinque di queste foto appartengono alla formidabile serie di scatti eseguiti da Lawrence Schiller sul set dell’ultimo film incompiuto di Marilyn, Something’s Got to Give (1962), le cui 2 Manifesto per il VI Congresso dell’Internazionale Situazionista, 12-15 novembre 1962. 3 Giorgio Agamben, Che cosa è il contemporaneo, Nottetempo, Roma, 2012.

4 Guy Debord, Gil J Wolman, Istruzioni per l’uso del détournement, in Enrico Ghezzi, Roberto Turigliatto (a cura di), Guy Debord contro il cinema, Bompiani, Milano, 2001, pp. 44-49.

37 riprese si svolsero sotto la direzione di George Cukor tra la primavera e l’estate del 19625.

Molto è stato scritto a proposito di questo film fallimentare, di cui rimangono numerosi frammenti, solo in parte resi pubblici dalla Fox nel 20016. Si sa che Marilyn si trovava in

condizioni di salute assai precarie, reduce da un intervento chirurgico e afflitta da una forte sinusite. Si sa che sul set era stata anche più indisciplinata del solito, presentandosi negli studi della Fox meno della metà delle giornate di lavorazione previste dal contratto, appena 12 giorni su 32, prima che i produttori, furiosi, in un gesto inconcepibile e senza precedenti per una star del suo calibro, decidessero di licenziarla. E si sa che tra le poche scene condotte a termine dall’attrice figura anche la famosa sequenza del bagno in pisci- na, certamente la più scandalosa tra tutte quelle che Marilyn avesse mai interpretato. Si sa infine che le foto di Schiller, molte delle quali sono state rivelate per la prima volta solo nel 20127, furono scattate proprio nel corso di quella sessione di riprese.

Nessuno che abbia qualche familiarità con il metodo di lavoro di Debord potrebbe pensare che la sua decisione di utilizzare proprio quelle immagini sia stata casuale. Occorre ricordare che queste foto avevano avuto grande diffusione già prima della morte di Marilyn, apparendo alla fine del mese di giugno 1962 su numerose riviste internazionali, tra cui, oltre a «Life» anche la testata francese «Paris-Match». La testi- monianza di Schiller esplicita quanto già era possibile intuire nell’operazione editoria- le del 1962, ovvero che la decisione di realizzare queste foto e in seguito di pubblicarle su alcuni dei più popolari rotocalchi internazionali era stata deliberatamente presa da Marilyn nell’intento di farne una potente arma di autopromozione da impegnare nella sua battaglia contro la Fox.

Il succo del racconto di Schiller è che Marilyn si sentiva sfruttata dalla produzione, non sufficientemente valorizzata per il suo talento e tormentata dalla sproporzione esistente tra il trattamento economico a lei riservato e quello concesso a Elizabeth Taylor per Cleopatra: centomila dollari contro un milione8. Mentre i rapporti con la

produzione si facevano più tesi, Marilyn avrebbe escogitato insieme a Schiller un pia- no per conquistare le copertine dei più popolari rotocalchi del mondo. Un piano che vuole a tutti costi infallibile e che gestisce con determinazione assoluta e in piena au- tonomia, scegliendo di persona il fotografo incaricato di realizzarlo. In pratica, decide di trasformare la scena del bagno in piscina in una sessione fotografica di nudo. Tutte le fonti concordano nell’affermare che il piano di lavorazione del film non prevedeva il 5 Lawrence Schiller, Marilyn & Me. A Memoir in Words and Photographs, Randomhouse, New York-Toronto, 2012.

6 Le nove ore di girato custodite negli archivi della Fox furono recuperate nel 1999 per inizia- tiva della Prometheus Entertainment e sottoposte a restauro digitale. Parte del materiale fu montato nel documentario Marilyn: The Final Days, trasmesso in anteprima il 1° giugno 2001 sul canale statunitense American Movie Classics.

7 Lawrence Schiller, Marilyn & Me, cit. 8 Ivi, p. 36.

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nudo integrale. Per tutta la durata delle riprese Marilyn avrebbe dovuto indossare un costume color carne, indubbiamente evocativo, ma non certo fino al punto da risulta- re offensivo per il comune senso del pudore. La ricostruzione della nuotata offerta da Schiller, con Marilyn che, immersa nell’acqua, si disfa in un primo tempo del pezzo superiore del costume e poi di quello inferiore, mettendosi più volte in posa per gli obiettivi ai bordi della piscina, è confermata dai numerosissimi scatti effettuati quel giorno, come pure dal girato rilasciato dalla Fox nel 2001.

Tutto ciò non è completamente nuovo, ma i dettagli aggiunti da Schiller forni- scono un quadro più preciso delle circostanze in cui ebbero luogo le riprese. Bisogna immaginarsi Marilyn alla stregua di un bersaglio umano su cui converge un vero e proprio fuoco di fila di scatti e di riprese cinematografiche. Schiller racconta di avere utilizzato due Nikon a motore e di avere impressionato nel corso della giornata 16 rullini da 36 pose in bianco e nero, oltre a tre rullini Ektachrome ad alta velo- cità9. Contemporaneamente i fotografi di scena della Fox, Billy Woodfield e Jimmy

Mitchell, si adoperavano per documentare la situazione da altri punti di vista. A sua volta Cukor aveva posizionato sul set diverse macchine da presa in modo da riprende- re la scena in tutte le scale necessarie, dai primi piani ai campi lunghi. Di conseguenza le immagini registrate quel venerdì 18 maggio 1962 possono ben dirsi innumerevoli. Con Benjamin si può dire che in questa scena il corpo di Marilyn abbia raggiunto un grado di esposizione10 tra più alti mai raggiunti da un essere umano nella storia, in un

fenomeno di moltiplicazione, di diffrazione, di sezionamento e serializzazione istanta- nea della propria immagine che di fatto trasmette una sensazione di grande violenza. «Marilyn, più volte»: la frase che accompagna la trascrizione del commento di Société

du spectacle nel volume Opere cinematografiche11, proprio in corrispondenza del punto del film

in cui compaiono le foto di Schiller, si presta bene a descrivere questo fenomeno estremo di moltiplicazione della visibilità di cui Marilyn fu protagonista nel corso della sua vita e che sul set di Something’s Got to Give raggiunge il suo momento più violento e perturbante. Obiettivi foto-cinematografici come mitra spianati su un corpo sacrificale, la cui unica potenza è ormai solo quella di apparire, per realizzare ciò che infatti in inglese si chiama:

shooting. Dove bisogna ricordare che per Benjamin il grado più alto dell’esponibilità di un

corpo è quello in cui la sua aura è definitivamente annullata12.

9 Lawrence Schiller, Marilyn & Me, cit., p. 52.

10 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. Einaudi, Torino, 1966, p. 27.

11 Guy Debord, Opere cinematografiche (1994), tr. it. Bompiani, Milano, 2004, p. 69.

12 «La guerra imperialistica è una ribellione della tecnica, la quale ricupera dal Materiale umano le esigenze alle quali la società ha sottratto il loro materiale naturale. Invece che incanalare fiumi, essa devia la fiumana umana nel letto delle trincee, invece che utilizzare gli aeroplani per spargere le sementi, essa li usa per seminare bombe incendiarie sopra le città; nell’uso bellico dei gas ha trovato un mezzo per distruggere l’aura in modo nuovo». Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca

della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 48.

39 Eppure non si può ignorare che fu proprio Marilyn a pianificare questa situazione, evidentemente nell’illusione di poter controllare il gioco, di poter battere il sistema spettacolare proprio sul terreno della visibilità, e di poterne uscire ancora viva. La stessa scelta del nudo viene interpretata da Schiller come un tentativo di Marilyn di giocare in extremis la medesima carta che aveva usato all’inizio della carriera posan- do per le foto destinate a «Playboy»13, una delle quali era stata inizialmente prevista

da Debord in una prima ipotesi di montaggio. Come si è detto, su Marilyn converge di fatto tutta la serie dei nudi femminili di cui il film di Debord abbonda fin dall’inizio: non solo Marilyn ma tutta una raccolta di foto da riviste pornografiche dell’epoca sono lì a rappresentare la spoliazione di ogni prerogativa di autonomia e libertà sog- gettiva che lo spettacolo compie sugli stessi corpi che lo producono. Siamo a un passo, sembra, dal concetto di «nuda vita» proposto da Agamben14: la sacralità di Marilyn, il

suo statuto mitologico di vedette dello spettacolo, può erigersi solo a partire dalla sua condizione di corpo essenzialmente sacrificabile.

Non c’è modo per Marilyn di uscire da questa trappola e il suo tentativo di “détournare” lo spettacolo mettendo in gioco il proprio corpo è comunque votato al fallimento. Ma l’insistenza con cui Debord si sofferma sulle sue immagini può anche essere letta come un omaggio e un implicito riconoscimento postumo. Le reinquadra- ture e i movimenti ottici che percorrono queste foto, prima dal basso verso l’alto, e poi in senso opposto sembrano voler accarezzare l’immagine di Marilyn, restituendole tutta la grazia di cui lo spettacolo l’ha espropriata per trasformarla in un puro oggetto erotico, un semplice giocattolo per il voyeurismo di un pubblico ormai ridotto alla miseria di uno stato di impotenza.

Peraltro, tale mirabile messinscena, da lei stessa orchestrata, della replicazione massiva della propria immagine potrebbe ben essere stato il suo capolavoro. In un certo senso, l’incarnazione rituale di una delle più potenti mitologie del divismo, dai tempi di Francesca Bertini fino a quelli della grande Gloria Swanson di Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950, di Billy Wilder): l’attrice che mette in scena il proprio suicidio davanti alle macchine da ripresa15. Non fosse che per questo, Marilyn dovrebbe essere

ricordata come una grande regista.

13 Lawrence Schiller, Marilyn & Me, cit., pp. 90-94.

14 Giorgio Agamben, Homo sacer, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

15 Per una discussione della messa in scena del suicidio come “scena madre” nei film delle dive del muto si veda Monica Dall’Asta, Il singolare multiplo: Francesca Bertini attrice e regista, in Non solo

dive. Pioniere del cinema italiano, Cineteca di Bologna, Bologna, pp. 61-80.

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Nel documento Miti d'oggi. L'immagine di Marilyn (pagine 34-40)