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di Enrico Mendun

Nel documento Miti d'oggi. L'immagine di Marilyn (pagine 137-143)

1. Il mio contributo ha come tema la Marilyn di Pasolini. Nasce da una recente fre- quentazione con Pasolini e particolarmente con La rabbia, avendo partecipato alla pro- duzione di un documentario su Pasolini e il Terzo mondo1.

L’ipotesi che vorrei qui illustrare è che Marilyn, a pieno diritto, possa essere con- siderata una delle donne di Pasolini, anche se l’unica – fra quelle che io citerò – che lui non ha conosciuto direttamente; in qualche misura è una donna di carta, una donna virtuale. La mia tesi è che questa forte propensione di Pasolini per Marilyn sia totalmente mediata dalla fotografia così com’era diffusa, al tempo, dai media a rotocalco; mentre la frequentazione dei film con Marilyn, se c’è stata da parte del poeta, non è particolarmente attestata.

Nel complesso dell’opera pasoliniana infatti non si trova alcun riferimento o apprezza- mento per il cinema in cui appare Marilyn. La sua passione è dunque rivolta a un’icona mediatica, o meglio a una ragazza di provincia che i media visuali hanno trasformato, stravolgendole ulteriormente la vita, in icona. Questo processo si svolge quasi totalmente attraverso la fotografia che in questo periodo – gli anni Cinquanta – vive un rapporto intenso con la stampa e in particolare con i settimanali, dotati di apparati tecnici per la riproduzione tecnica dell’immagine particolarmente sofisticati: quel complesso di costose tecniche di stampa, di provenienza tedesca, che va sotto il nome di rotocalco. La pin-up è un genere fotografico, prima che cinematografico: trova nel cinema una sua legittimazio- ne ma è poi la fotografia che fissa il mito e lo trasporta. Scherzando potremmo parlare di immagine-movimento, ma in senso molto diverso da Deleuze: una immagine che adorna le cabine dei camion e i sogni dei camionisti. Scherzi a parte, siamo di fronte a un caso di protagonismo della still picture in un mondo dominato dal cinema, o all’epoca anche dalla televisione. Lo si potrebbe spiegare in modo deterministico: l’immagine in movimento è fruita su grande schermo; in privato gli spettatori non dispongono di adeguati mezzi tec- nici per la riproduzione delle immagini in movimento che a loro interessano, e il ricorso all’immagine fissa è un bricolage performativo per necessità: è l’unica che si fa fruire facil- mente, trasportata sulla carta di giornale (e fissata sul vetro di un camion). Oggi tuttavia 1 Profezia. L’Africa di Pasolini, a cura di Gianni Borgna ed Enrico Menduni, 72’, Italia-Marocco, 2014.

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disponiamo di tutti i mezzi privati e portatili per riprodurre immagini in movimento ma il protagonismo dell’immagine fissa permane.

2. Torniamo a Pasolini. Una rapida carrellata sulle donne di Pier Paolo Pasolini: la madre, che potremmo anche vedere nei panni di Maria ne Il Vangelo secondo Matteo. La complice Laura Betti: per lei fu scritta la poesia Marilyn del 1962, che è poi la base di un testo pronunciato fuori campo in La rabbia, che sarà scritto tra la fine del ’62 e l’inizio del ’63. Un’altra delle donne è Elsa Morante, la grande amica di una lunga stagione, la grande ispiratrice dei testi musicali, a cominciare da Accattone, per finire con le musiche etniche di Medea. Poi una grandissima lite a proposito del suo romanzo

La storia, che Pasolini non amò, causò la fine della loro amicizia: la Morante non gli

rivolse più la parola.

Tra le donne c’è anche Maria Callas. Una foto dell’Ansa che ho mostrato durante il convegno torinese mostra la cantante e il poeta in partenza: è una foto aeroportuale, ce n’erano molte in un’epoca in cui viaggiavano soltanto i Vip. Nella didascalia si cita anche il gossip sul loro possibile matrimonio e che qui riporto in un’altra foto con una madre non proprio sorridente. E poi, altra amica, Dacia Maraini, anche lei sceneg- giatrice, aiutante, complice; e finalmente Marilyn, che qui, per cominciare a parlare di una donna di carta, cito con la prima cover, la prima delle sette (siamo tra le foto scattate dal fotografo Philippe Halsman per il servizio del 7 aprile 1952, che coincide con il suo lancio nello Star System).

Come abbiamo detto, la poesia del ’62 diventa poi, con varianti, un frammento de La rabbia: uno dei film più controversi di Pasolini e che nasce semplicemente da una sua disattenzione, da un suo errore, piuttosto grave, come gli fece notare Alberto Moravia recensendolo su «L’Espresso».

Come voi sapete – se avete letto il libro di Augusto Sainati su La Settimana Incom2 lo

sapete ancora meglio – gli anni Sessanta sono gli anni dell’avvento della televisione, anche nella sua forma di offerta continua di notizie e quindi la produzione di notizie per il cinema, il cinegiornale, entra in una grave crisi. Nella cinematografia, in parti- colare quella italiana, i cinegiornali sono prevalentemente orientati a destra (lasciamo da parte Zavattini, che è l’eccezione che conferma la regola): quello più a destra è

Mondo libero, cinegiornale a cui ha lavorato anche Gualtiero Iacopetti.

L’editore di Mondo libero, Gastone Ferranti, nel 1962, avviandosi alla chiusura del settimanale, si chiede cosa fare degli ottanta mila metri di repertorio che ha nei suoi archivi e decide di fare un film di montaggio. Sono grandi pile di rulli di pellicole di cui ha, o ritiene di avere, piena disponibilità: la tematica del riuso dei materiali d’ar- chivio e dei diritti relativi, spesso così difficili da determinare, è ancora agli inizi. 2 Augusto Sainati (a cura di), La Settimana Incom. Cinegiornali e informazione negli anni ’50, Lindau, Torino, 2001.

139 Qui entriamo un po’ nella leggenda: la versione più accreditata, dopo il restauro, le sistemazioni critiche in parte di Tatti Sanguineti, in parte di Giuseppe Bertolucci (a cui dobbiamo anche un’importante ricostruzione delle parti mancanti) è che Ferranti pensi di affidare a Pasolini un film di montaggio basato sul repertorio del settimanale3.Ovviamente non condivide nemmeno le virgole delle idee di Pasolini

ma, come con Jacopetti, cerca solo un montaggio scandalistico. Per lui Pasolini è solo un personaggio provocatorio, che fa parte del mondo dello spettacolo ed è lar- gamente noto al pubblico.

Pasolini accetta, si mette al lavoro, ma presto Ferranti cambia idea: forse gli è stato suggerito di non esagerare, o forse questo intellettuale scandaloso, Pasolini, è fin trop- po scandaloso. L’editore-produttore Ferranti cambia impostazione: chiede a Pasolini di ridurre di trenta minuti il suo footage, di scendere cioè sotto i cinquanta minuti, perché lui vuole fare un film di cento minuti dove i fatti sono visti sia da un regista di sinistra, sia da un regista di destra.

Pasolini accetta – commettendo un errore – e il produttore parte alla ricerca di un regista di destra capace di destare scandalo, difficile quanto trovare la pietra filosofale: i registi di destra ormai girano documentari per la Incom o si dedicano al peplum o alla estesa cinematografia minore che un mercato da 800 milioni di biglietti (il più grande d’Europa) può permettersi4.

Visto che il regista non si trova, il produttore pensa a un giornalista di destra: si fanno sondaggi presso Luigi Barzini e Indro Montanelli, che si tengono prudentemen- te al di fuori di questa operazione (Ferranti ha una pessima reputazione). Viene, infine, reclutato Giovannino Guareschi, fondatore e già direttore di «Candido», e padre della saga di Don Camillo. Guareschi teneva sul «Borghese» una rubrica intitolata Visti da

destra, visti da sinistra, in cui praticava un’acida parvenza di neutralità, e che diventerà

poi l’impostazione de La rabbia.

Pasolini non condivideva niente delle idee di Guareschi: in Accattone un poliziotto viene mostrato mentre legge proprio «Candido». Ma una qualche sospensione del giudizio nei confronti di Guareschi doveva averla perché lo considerava uno che aveva pagato di persona. Era stato in prigione per diffamazione nei confronti del Presidente della Repubblica Einaudi e di De Gasperi; aveva pubblicato sul «Bertoldo», nei suoi anni verdi, come vignettista5 (si trattava di vignette antifasciste). Pasolini decide di

correre il rischio e accetta di fare un film con lui. Durante la lavorazione i due non 3 Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi, La rabbia, Italia, 51’3” + 49’40”, Prod. Italia, 1966. Edizione restaurata dalla Cineteca di Bologna a cura di Giuseppe Bertolucci. DVD Rarovideo a cura di Tatti Sanguineti, 2007.

4 Mi permetto di etichettare sbrigativamente come “di destra” alcuni registi che, rimasti legati alla cultura cinematografica e documentaristica degli anni Trenta, talvolta anche con Salò, in cui avevano esordito, erano rimasti ai margini del cinema d’autore del dopoguerra: Domenico Paolella, Giorgio Ferroni, Mario Baffico, Pietro Francisci e altri.

5 Carlo Manzoni, Gli anni verdi del “Bertoldo”, Rizzoli, Milano, 1964: un’accurata antologia. Marilyn e Pasolini. La rabbia

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incontreranno mai: ognuno lavorerà in una moviola separata e, solo alla fine, i due film saranno appaiati. Non sappiamo fino a che punto questa sia una scelta dei due, o un’ulteriore messa in scena decisa dalla produzione.

3. Il film che risulta dalla giustapposizione dei due montaggi, 100 minuti, è ignobile. Il film di Guareschi, anche se guardato oggi con la migliore volontà di spogliarsi di qualunque cascame ideologico, è un film di un razzismo esplicito e conclamato; risulta davvero difficile guardarlo fino alla fine.

Qui emerge tutto il carattere romantico dell’anticapitalismo di Pasolini, estraneo alle tecnicalità giuridiche e contrattuali. Il poeta ritira la sua firma (senza avere il pote- re di farlo), ma la sua volontà non ha ricadute pratiche. La circolazione di questo film, peraltro, è praticamente inesistente. Molte sono le teorie a questo proposito: secondo Tatti Sanguineti la sinistra scarica Pasolini, altre interpretazioni credono che l’amba- sciata Usa, con tutto il suo potere sui distributori, abbia fatto conoscere il suo fastidio, visto che entrambi i capitoli del film erano anti-americani. Il film è, comunque, sostan- zialmente sparito. Curiose le circostanze del suo recupero: ritrovato fortunosamente grazie a una bobina che portava l’iscrizione L’Arabia (complice il dialetto romanesco) viene recuperato e restaurato. Il film è inguardabile, ma si suggerisce almeno la vi- sione del trailer, che dura un minuto e mezzo, e che è molto indicativo dell’estrema volgarità del film.

È importante riflettere su come Pasolini gestisce la sua parte: durante i cinquanta minuti dell’intervento Pasoliniano (originariamente ottanta minuti, ridotti per esigen- ze dell’accoppiamento con Guareschi), si vede che Pasolini ha inteso “rabbia” non come Guareschi, cioè come sdegno del mondo occidentale nei confronti della barbarie del terzo mondo, ma ha gestito La rabbia come il momento in cui si affacciano sulla scena del mondo altri popoli. È il momento in cui Pasolini, che ha avuto un periodo di amore per la purezza contadina (il periodo friulano), poi ha ricercato questa purezza nel sottoproletariato delle borgate romane, è passato dalla letteratura al cinema nel ’61, girando Accattone (le rotaie presenti nel trailer de La rabbia sono le stesse del tram- vetto del Pigneto di Roma che si propongono in Accattone), a un certo punto è rimasto deluso dalle borgate romane: ha ritenuto che la furia omologatrice del neocapitalismo avesse distrutto quella originaria purezza e forza rivoluzionaria che c’era nelle borgate romane. A ben vedere questo si può già riscontrare nel ’62 in Mamma Roma, dove c’è sempre un paesaggio periferico, ma più un clima di riscatto e di ascesa sociale, piutto- sto che di compiacenza sottoproletaria. Qui finisce tutto: con Mamma Roma che va in giro con la moto nuova, dietro a suo figlio – nelle scene più sessualizzate che ci siano in Pasolini. Poi si arriva a cavallo tra la fine del ’62 e l’inizio del ’63: La rabbia inizia con una ampia parte dedicata ai fatti di Ungheria del ’56.

Prima di tutto, sulla scacchiera, ci sono gli elementi di passaggio dal vecchio al nuovo mondo. La crisi del totalitarismo in Ungheria e la crisi del totalitarismo a Suez

141 (1956), poi c’è una lunga parte dedicata a Cuba; un intermezzo agrodolce fatto di soft news, agilmente prese dal repertorio di Mondo libero; una parte dedicata alla sconfitta della Fiom alla Fiat e poi alcuni grandi cammei sugli eventi del secolo: l’incoronazio- ne, nel 1953, di Elisabetta II; l’elezione di Eisenhower; fantasmi della guerra atomi- ca e una parte dedicata a Pio XII, a cui seguirà un affettuoso ritratto del Pontefice dallo sguardo di tartaruga Giovanni XXIII. Poi c’è una grandissima parte dedicata all’Africa: il momento in cui Pasolini decide che le forze rivoluzionarie non sono più nelle borgate, ma sono in Africa, nel terzo mondo. Una parte molto efficace, che si conclude con un footage sugli esperimenti termo-nucleari. Negli anni Sessanta questo era il problema più sentito: l’idea che il mondo poteva autodistruggersi con una guerra atomica (argomento che ritorna in molti altri autori, come Kubrick).

È a questo punto che noi abbiamo ben quattro minuti dedicati a Marilyn Monroe: l’unico personaggio del mondo dello spettacolo, che non sia un pontefice, che non sia una testa coronata, che è circondato di una affettuosissima rievocazione e che però termina con nuove immagini della guerra atomica. Ecco la fine del pezzo di Marilyn Monroe...

Ora sei tu, la prima, tu la sorella più piccola, quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso, sei tu la prima oltre le porte del mondo

abbandonato al suo destino di morte.

(canzone scritta per Laura Betti, per lo spettacolo Giro a vuoto n. 3, 1962)

Qui comincia una parte dedicata alla guerra termo-nucleare, attraverso quel foo- tage amplissimo con queste straordinarie naturalità dei funghi atomici.

Il testo de La rabbia è un po’ diverso dalla poesia dell’anno precedente: nel senso, soprattutto, di una sua semplificazione espressiva; La rabbia ha due voci: una dedica- ta alla prosa, la voce di Renato Guttuso, una dedicata alla poesia, che è la voce di Giorgio Bassani. Vorrei ricordare anche che, nello stesso lasso di tempo, Bassani è la voce di Orson Welles ne La ricotta e quando Orson Welles, doppiato da Bassani, legge la poesia Giro come un pazzo... il labiale di Welles è in italiano, quindi c’è una totale in- carnazione da parte di Bassani.

4. L’innesco dell’interesse di Pasolini è sicuramente il martirio, la morte, il fatto che il corpo di Marilyn diventi ostaggio del potere, che il potere la sacrifichi e che solo allora si renda conto di quanto fosse apparente quel guscio di essere sciocca, frivola; si trattava del rivestimento esteriore di un animo ben diverso da quello che il potere ha sacrificato. Questo sacrificio rende Marilyn – nell’idea di Pasolini – una testimone del destino che attende un mondo così mercificato: un destino di tragedia, segnato da una catastrofe nucleare che è animata da quelle stesse forze che ne hanno mercificato e

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degradato l’esistenza. Quindi, a mio avviso, quello di Pasolini è un pensiero che nasce di fronte alla morte di Marilyn, la cui attività cinematografica non viene mai citata, né nella poesia, né nel film: è vero che, probabilmente, questioni di diritti avrebbero impedito di inserire delle clip di Marilyn, ma avendo ottanta mila metri di cinegior- nali, con ogni probabilità, qualche immagine di una conferenza stampa, di un evento mondano con Marilyn ci sarebbe sicuramente stata.

Pasolini fa un’altra scelta, tutta fotografica: la natura fotografica del divismo di Marilyn ha perfino una componente di ostentazione. Il confine fra foto e film vie- ne orgogliosamente varcato da Pier Paolo. Alcuni fotogrammi sono sostanzialmente una collezione di foto: le persone assiepate dietro le transenne – che evidentemente assistono a qualche cerimonia funebre in ricordo di Marilyn – brandiscono la foto di Marilyn come segno della loro appartenenza al fandom. Siamo di fronte all’altro lato della medaglia di quello che già ha trovato una descrizione molto efficace nell’inter- vento di Sara Pesce, cioè come la moda – la parte più glamour, legata alla commer- cializzazione della vita quotidiana – faceva un uso della foto come elemento per la diffusione di massa di un mito e della circolazione di un divo al di là delle sue stesse opere cinematografiche; allo stesso modo in Pasolini (non attento spettatore dei film di Marilyn) la sua vicenda giungeva attraverso le immagini, esibite dai giornali a ro- tocalco che vengono addirittura citati con la loro piega, proprio come una marca di provenienza dell’icona. Ma qui si va oltre, non solo una funzione promozionale, della fotografia, un prolungamento del film: l’attenuarsi fino a scomparire di una pretesa differenza ontologica fra i due media.

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Nel documento Miti d'oggi. L'immagine di Marilyn (pagine 137-143)