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di Roy Menarin

Nel documento Miti d'oggi. L'immagine di Marilyn (pagine 151-156)

Se ci rechiamo nei musei delle cere di tutto il mondo e persino nei luna park più prestigiosi, scopriamo quasi sempre un’icona di Marilyn che sbuca da qualche parte. Sia che la con- sideriamo scoria dell’immaginario, sia che ne celebriamo la longevità simbolica, quello di Marilyn (quasi sempre in abito bianco) è un prodotto capace di resistere inossidabile allo scorrere del tempo e alla rapida trasformazione delle mode. Anche la cronaca politica, di recente, ci offre la scusa per osservare i fenomeni di volgarizzazione dell’icona. L’immagine dell’ambientalista di destra Maurizio Lupi (Verdi-verdi) insieme a Suzie Kennedy, sosia di Marilyn, è nota alla Regione Piemonte. Il recordman dei rimborsi del Consiglio regiona- le fece scalpore per essersi fatto affiancare, nella campagna elettorale, dall’attrice cara a Leonardo Pieraccioni (era la protagonista di Io e Marilyn, su cui torneremo tra breve). Lupi, che si fece fotografare insieme alla starlette, spiegò poi a Dagospia:

Nella pre-campagna elettorale per le regionali del 2010 ho pensato di dare un tono di leggerezza alla mia proposta politica. Sa, per i piccoli gruppi la vita è mol- to dura. Nessuno ci considera. Bisogna trovare qualcosa per attirare l’attenzione. Suzie Kennedy mi parve una buona idea. Aveva girato il film con Pieraccioni, era conosciuta. Ma non è venuta alla festa, ha solo partecipato a una conferenza stampa organizzata in un albergo. È stata molto simpatica, ha detto che crede nella causa ambientalista.

Le notizie della festa (nonché l’uso di denaro pubblico per il sacrosanto compenso dell’attrice), sono state commentate dai media con ovvio scherno, e sono state messe in relazione (il momento era pressoché coincidente) con le efferate imprese di Er Batman e con i festini in costume dei consiglieri regionali del Lazio. Pochi hanno notato che – moralismo a parte – la politica italiana contemporanea è ricorsa ossessivamente alla “mascherata”. Si tratta, a ben vedere, di una scelta abbastanza sorprendente. Da che cosa proviene questa propensione carnevalesca? Perché sprecare tanta fatica per far travestire le ospiti da infermiera o da avvocatessa, per inscenare un banchetto de- gno di Petronio, per portarsi appresso oggi – o nel 2012 – la sosia (o la caricatura) di Marilyn, per di più indiretta (ovvero ci si porta alla festa l’attrice che ha impersonato Marilyn in un film sul fantasma/sosia di Marilyn diretto da Pieraccioni?).

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Vale la pena ragionare con calma. Che cos’è la mascherata? Senza necessità di scomodare Bachtin – altro autore in fondo ancora in auge e validissimo per le teorie sul concetto di carnevale1 – ricordiamo che la mascherata vale come una sorta di so-

stanza del carnevale però si estende a pratiche ben più longeve e diffuse e che si nomina

soprattutto a partire dal Seicento. È il periodo nel quale dalla commedia umanista rinascimentale, erudita e raffinata, si transita lentamente verso la commedia dell’arte, attraverso un riversamento iconografico e professionale di figure che vengono lette- ralmente dalla strada e dai motivi della mascherata, del carnevale, della cultura del saltimbanco ecc. Venezia, Firenze e Roma, attraverso configurazioni differenti, ne sono in qualche modo toccate e questo, secoli dopo, sembra continuare a dare frutti interessanti, ancorché talvolta grotteschi. Evidentemente, la celebre sentenza di Croce sul fatto che la cultura italiana si muove da sempre sul crinale tra Cristo e Pulcinella2

continua a essere valida, anche nell’epoca dei social network e di Twitter.

Avviciniamoci dunque al nostro soggetto. Il divismo novecentesco, evidentemente, rientra ormai nella categoria della mascherata. Da una parte Marilyn testimonia del carisma dell’immaginario cinematografico sulla cultura (ovvero il cinema “culturaliz- za” gli spazi in cui viene a trovarsi, in virtù di latenze e permanenze simboliche dure a tramontare), dall’altra in Italia finisce inevitabilmente nel paniere della commedia dell’arte, maschera tra la maschere. In questo caso, che la mascherata abbia a che fare con la Monroe offre alcuni spunti, certi piuttosto banali: la sopravvivenza dell’icona nell’immaginario, le procedure discorsive attraverso le quali si rinfocola un mito d’og- gi (vedi il recente My Week with Marilyn, 2011, di Simon Curtis), la distanza sempre più fantasmatica tra queste apparizioni posticce e il corpo, o meglio il corpus, cinemato- grafico della diva. In questo intervento, però, non interessa più di tanto descrivere le operazioni “su” Marilyn, quanto piuttosto, come negli esempi iniziali, produrre qual- che riflessione sulla condizione socioculturale italiana.

La tesi proposta è che Marilyn – non solo, ma esemplarmente – venga volonta- riamente o meno impiegata come reagente culturale, ovvero come pura distanza. La Monroe, tra tutti i miti dell’immaginario americano, è quella che meglio esplicita la condizione provinciale italiana. L’inarrivabilità vaporosa di Marilyn, di fatto il fal- limento cui è destinata ciascuna copia di copia, viene promossa a simbolo eterno di impotenza del mito identitario nazionale. Come ricorda bene Goffredo Fofi nella pre- fazione a Marilyn Monroe, di Giuliana Muscio,

noi eravamo provincia, e per di più cattolica, una patria di “poveri ma belli” che sognavano l’America come Nando Moriconi, ma che, come lui, badavano a in- 1 Ovvio il rimando a Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa

nella tradizione medievale e rinascimentale, tr. it. Einaudi, Torino, 1979.

2 Benedetto Croce, Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia, E. Loescher & C., Roma, 1899.

153 filzar pastasciutte. Invece di James Dean e Marlon Brando noi avevamo Renato Salvatori e Maurizio Arena, invece di Marilyn la Allasio. Ma, appunto, sognava- mo, e il nostro sogno fu anche Marilyn, l’emblema di un’America che ci pareva spregiudicata e libera, ma che avvertivamo più candida, più ottimista, più inge- nua della vecchia Europa, nonostante Hollywood, i dollari e l’atomica3.

Ecco, il candore che Fofi, pur da grande e intelligente antiamericanista, indivi- dua nella scoperta di Marilyn, scopre anche la dimensione più irraggiungibile della Monroe per la cultura parodistica italiana.

Più consapevole, e strutturata testualmente, della mascherata, c’è infatti la parodia. Nel cinema e nella cultura italiana, la parodia non assume sempre i toni della trasgres- sione e della rivolta, anzi. È la satira, che raramente – anche nella rivista – va apparen- tata alla parodia, cui spetta questo ruolo, assai scomodo e ben più violento, aggressivo. La parodia4 contiene spesso un aspetto conservatore, crea steccati di senso, riduce

la portata delle rivoluzioni, perimetra il campo a quello che possiamo comprendere, dunque cerca sovente di colpire ciò che sente lontano dal proprio quotidiano, come quando attacca a testa bassa negli anni Sessanta il cinema d’autore di Fellini, Visconti e Antonioni, che trova pericoloso in quanto intimamente modernizzatore e analista di un’Italia che cambia vorticosamente5. La parodia, ridendo, non castigat mores, ma

ristruttura il soggetto nazionale, opera una ricomposizione dell’eterno identitario, e dice al pubblico: fate bene a non capire, perché tutto ciò è ridicolo, e noi invertendo di senso ciò che ci è più estraneo lo ricollochiamo nel discorsivo, nel nostro vocabolario, attenuando la minaccia. Quando poi la parodia, il doppio ridicolo, si rovescia di nuo- vo sulla realtà in via di modernizzazione e invade la vita privata, cominciano i guai, ed è ciò di cui parlano film come Il divo (2008, di Paolo Sorrentino), Vincere (2009, di Marco Bellocchio) e Reality (2012, di Matteo Garrone), ma in queste righe lasciamo sullo sfondo la suggestione.

Venendo agli esempi che propongo, due brevi analisi senza la pretesa di dimostrare tesi che necessitano – nel caso – di una ben più ampia esemplificazione, questa forma di insularità volontaria, di isolazionismo culturale, appare ben chiara. E che sul rap- porto tra America, Europa e Italia ha a sua volta detto cose tutt’altro che derivative Mariapia Comand6, dove ricorda alcune parole di Michelangelo Antonioni, del 1946,

sul mito hollywoodiano attraverso il quale la cultura italiana filtra la cultura america- na (Antonioni all’epoca afferma di non aver ancora voluto viaggiare in Usa per non 3 Goffredo Fofi, Prefazione, in Giuliana Muscio, Marilyn Monroe, Mondadori, Milano, 2004, pp. 6-7.

4 Sul valore intimamente sovversivo della parodia, a partire proprio da Bachtin, si è scritto molto, vedi Dan Harries, Film Parody, BFI, London, 2000, ma non sempre a ragion veduta. 5 Espongo questa tesi in Roy Menarini, La parodia nel cinema italiano, Alberto Perdisa Editore, Bologna, 2001.

6 Vedi Mariapia Comand, Roy Menarini, Il cinema europeo, Laterza, Bari-Roma, 2006. Parodie di Marilyn. La provincializzazione del mito Monroe tra cinema e televisione in Italia

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rischiare di incrinare le idee che si era fatto attraverso il cinema hollywoodiano, e dedica parole non dissimili a quelle di Fofi, nel suo caso, a Rita Hayworth, che ripor- tiamo: «È colpa nostra se il seno di Rita Hayworth ci turba: lei poverina non ha negli occhi che una sorta di ingenuità che potremmo chiamare fanciullesco-sportiva…»)7, e

ancora Soldati che in America primo amore, dove prende spunto dalla sua esperienza alla Columbia University negli anni Venti, ribalta di segno la questione e racconta dell’in- genua e totalizzante trasfigurazione degli spettatori statunitensi di fronte a horror di non squisita fattura e immagina cosa succederebbe in una sala italiana…8 Ancora più

direttamente sui rapporti tra il mito di Marilyn e la cultura, non solo cinematografica italiana, ha scritto cose molto sagge e molto informate Federica Villa, in un pezzo dedicato alla ricezione di Marilyn negli anni Cinquanta9. Qui si chiariscono, da una

parte, le pratiche critiche e giornalistiche della pubblicistica cinematografica italiana di quegli anni, sospesa tra snobismo ed esotismo. Dall’altra, attraverso un bel confron- to con in reportage giornalistici dedicati alla Monroe e alla Magnani, alcune delle caratteristiche identitarie di cui parliamo. Ecco, negli esempi che seguono ci sembra che in gioco non ci siano solamente l’americanata, la mascherata e ambiguità, bensì la parodia nella sua forma più conservatrice, di cui la festa con la sosia è solo l’ultima coda lunga.

Il primo esempio è uno spot di tortellini. Nella pubblicità di Giovanni Rana, alla fine degli anni Novanta, si ricorreva a un fotomontaggio per collocare fantasiosamen- te il re del tortellino a fianco della Monroe, in una pubblicità tanto celebre all’epoca quanto dimenticata in brevissimo tempo. Qui Rana in persona incontra Marilyn su un aereo e dialoga con lei in un montaggio di immagini abbastanza rudimentale. Alla fine dello scambio di battute, l’imprenditore si sveglia all’improvviso, durante il volo, e scopre che si trattava solamente di un sogno. In questo caso, Marilyn è fantasma e icona insieme, oltre che figura inarrivabile (solo il sogno può permettere di parlare con una morta, ovviamente) e appartenente a un’altra categoria. D’altra parte, però, il corpo di Marilyn, in controtendenza con le figure sottili e trattenute della femminilità proposta da moda e televisione, suggerisce i piaceri della carne, in tutti i sensi, com- presi quelli degli ingredienti del tortellino emiliano.

Il secondo è il recente Io e Marilyn (2009) di Leonardo Pieraccioni, in cui il fantasma cinematografico della diva infesta la vita del comico toscano. In una delle sequenze principali, il deluso comico toscano, ormai snervato dalla presenza inconsistente dello spettro nella sua vita, le chiede di chiarire la sua natura. E la Monroe, spiegando che 7 Ora in Michelangelo Antonioni, Frigida America, in Sul cinema, a cura di Carlo Di Carlo, Giorgio Tinazzi, Marsilio, Venezia, 2004, p. 102.

8 Mario Soldati, Primo amore, Bemporad, Firenze, 1935.

9 Federica Villa, “Non proibite Marilyn ai vostri ragazzi”. Quale Monroe per gli italiani anni Cinquanta, in Giulia Carluccio (a cura di), La bellezza di Marilyn. Percorsi intorno e oltre il cinema, Kaplan, Torino, 2006, pp. 177-185.

155 «nessuno se ne va mai per sempre», compie un incantesimo e mostra al protagonista che le piazze e le vie di Firenze sono in verità piene di fantasmi. Compaiono guelfi e ghibellini, garibaldini, artisti rinascimentali, cittadini degli anni Sessanta e altri ar- chetipi della storia cittadina. Finita l’epifania, anche la star scompare: come in tutti i suoi film, a Pieraccioni ora tocca il compito di maturare, grazie al ruolo simbolico della donna – e che donna, stavolta. Salvo che quella volta il pubblico ha snobbato l’intrusione cinefila del regista fiorentino.

Ma anche il cinema indipendente italiano, nel mesto e desolato Elvjs e Merilijn del 1998 di Armando Manni, mette in scena la triste storia di due sosia che, con tutta evidenza, offrono il proprio corpo alla derisione rispetto al modello. E che cosa dire della letteratura avantpop italiana – da Wu Ming a Tommaso Pincio – che tante volte ha giocato sulla falsificazione storica e sulla provocazione biografica intorno alla diva? Insomma, le “parodie di Marilyn”, analizzandone caratteristiche differenti ma atteggiamento comune, ci parlano di come Monroe rappresenti l’icona perfetta per le forme di auto-provincializzazione dell’immaginario culturale italiano. Tanto più evocata, quanto più evidentemente lontana dalla nostra cultura. La Marilyn-tortellino di Giovanni Rana o la Marilyn citrulla di Leonardo Pieraccioni sono solo l’esempio più lampante del rapporto di disagio e di incommensurabilità tra cultura italiana e divismo hollywoodiano.

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Nel documento Miti d'oggi. L'immagine di Marilyn (pagine 151-156)