Capitolo III: Tra apolide e paria: il problema di chi vive senza “un posto nel mondo”.
1. L’apolide, il senza patria.
Testimone consapevole della tragedia del proprio tempo, Hannah Arendt si è assunta il difficile compito di impegnarsi nella comprensione del male che ha fatto di lei, come di milioni di altre persone, un’esule, un’apolide, una sradicata. Per comprendere appieno la catastrofe che si abbatte su individui che hanno perso la tutela di un governo è necessario concentrarci sulla riflessione politica della nostra autrice, perché solo prestando attenzione alla condizione degli apolidi in tutta la sua
74
drammaticità, si riesce ad affrontare direttamente il problema tragico della perdita del mondo.
Il capitolo nono del testo Le origini del totalitarismo intitolato Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani risulta essere una delle parti più lette e discusse di tale opera, nella quale Hannah Arendt analizza con lucidità il periodo
che intercorre tra le due guerre mondiali103, un periodo caratterizzato, come il
nostro, dalle vaste ondate migratorie. Grandi gruppi umani furono costretti a lasciare la loro madre patria per scappare dalle sanguinose guerre civili ma, a differenza del passato, questi ultimi non troveranno nessun luogo disposto ad accoglierli. Tali individui, minoranze o apolidi che siano, non godendo più della protezione di un governo, finirono per perdere quei “diritti umani”, definiti inalienabili, che nel corso del tempo divennero addirittura sinonimo di «idealismo
ipocrita o ingenuo»104. Queste persone, una volta lasciato il proprio paese,
defraudati di quei diritti umani, che purtroppo, come vedremo successivamente, possono essere garantiti soltanto dalla cittadinanza, si trovarono ad essere come
afferma la nostra autrice «la schiuma della terra»105.
A causa del continuo afflusso di profughi, espulsi dal proprio paese
d’origine per le rivoluzioni, e della creazione, dopo i trattati di pace della prima guerra mondiale, di Stati nazionali nell’Europa orientale e meridionale al cui interno non esisteva alcuna omogeneità etnica o attaccamento alla nazione, furono costretti a vivere nello stesso territorio popoli diversi. Mentre la nazionalità dominante, che godeva della sovranità, aveva in mano l’amministrazione del paese,
103 Il periodo interbellico aveva visto il dissolvimento degli imperi russo e austro-ungarico, i trattati
di pace, e le rivoluzioni in corso nell’est Europa.
104 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 375. 105 Ivi, p. 372.
75
si presuppose che questo “popolo statale” avrebbe dato alle altre nazionalità rilevanti un ruolo nell’amministrazione del territorio, cosa che ovviamente non avvenne. Le minoranze, ovvero quei popoli troppo piccoli e sparsi per godere del diritto alla dignità nazionale, finirono per essere trattate, all’interno di questi nuovi
stati nazionali106, come dei cittadini di secondo rango, a cui vennero fatte osservare
delle norme speciali. Questo decretò ovviamente forme di oppressione ed ostilità. Per tale motivazione si pensò di protegge queste minoranze nazionali tramite dei trattati speciali, chiamati appunto i “trattati sulle minoranze”, che affidarono la tutela dei diritti di tali gruppi non ai governi interessati ma a un soggetto esterno, la Lega delle nazioni, formata da statisti che simpatizzavano con chi godeva della sovranità nazionale. Tali trattati perciò risultarono essere dei semplici compromessi tra i nuovi Stati:
I trattati sulle minoranze dicevano a chiare lettere quel che fino ad allora era stato implicito nel sistema degli stati nazionali, cioè che soltanto l’appartenenza alla nazione dominante dava veramente il diritto alla cittadinanza e alla protezione giuridica, che i gruppi allogeni dovevano accontentarsi delle leggi eccezionali finché non erano completamente assimilati e non avevano fatto dimenticare la loro origine etnica.107
106 Il primo risultato diretto della prima guerra mondiale fu la fine dei grandi imperi plurinazionali
(asburgico, zarista e in seguito ottomano). La conferenza di pace di Versailles ridefinisce il quadro geopolitico dell’Europa centro-orientale decretando la loro sostituzione con gli stati nazionali già creati: Grecia, Romania, Bulgheria e quelli di nuova istituzione: Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia, Cecoslovacchia, Polonia, Regno dei Serbi, Croati, Sloveni.
Come possiamo ben capire la mappa geopolitica dell’Europa centro-orientale venne ridesinata attorno alla figura degli stati nazionali, frutto della dottrina nazionale secondo la quale ogni nazione gode del diritto di autodeterminarsi, di essere libera di scegliere il proprio destino e perciò di svincolarsi dal dominio delle dinastie imperiali straniere, per formare un proprio Stato, che si configura appunto come stato nazionale, il quale dovrebbe godere al suo interno a livello territoriale di una presenza massiccia di un gruppo etnico e a livello politico della sovranità popolare. Ma i territori in questione non avevano alcuna omogeneità etnica e le loro condizioni politiche ed ideologiche resero difficile la convivenza dei diversi gruppi etnici nello stesso territorio.
76
Il destino di queste minoranze era in qualche modo già stato tracciato, dovevano essere assimilate dalla nazione con cui condividevano appunto il territorio, ma non la lingua e la cultura. Si sapeva fin troppo bene che l’alternativa a questa strategia assimilazionistica era l’eliminazione, perché l’esistenza di queste minoranze minacciava l’identità stessa dello stato-nazione. Gli interessi nazionali avevano preso il sopravvento sul diritto, lo stato si trasformò definitivamente in un vero e proprio strumento nazionale.
Alle minoranze si aggiunse un continuo afflusso di apolidi. Il fenomeno
dell’apolidicità è prettamente moderno, tanto che Hannah Arendt definì questi
ultimi come «il gruppo umano più caratteristico della storia contemporanea»108. La
nostra autrice infatti identifica con il termine apolidi coloro che, tra la prima e la seconda guerra mondiale, si ritrovarono sprovvisti della protezione di un Stato (minoranze, senza patria, rifugiati), coloro che, come i futuri abitanti dei campi di sterminio, saranno ridotti ad una condizione di pura “superfluità” ed in questa condizione perderanno il loro posto nel mondo. L’apolidia è perciò la condizione in cui vivono soggetti spogliati di qualsiasi tipo di cittadinanza: sono profughi immediatamente privati di quest’ultima dopo essere stati costretti, per vari motivi, ad allontanarsi dalla propria patria. Mentre il problema delle minoranze poteva ancora rappresentare un’eccezione perché riguardava solo determinati territori, la speranza che il fenomeno dell’apolidicità fosse solo momentaneo permise il crescere del loro numero. Il cambiamento del termine che indicava questa condizione è emblematico, identificando gli apolidi con il termine displaced persons si puntava all’obiettivo di ignorare l’esistenza di tali individui.
108 Ivi, p. 385.
77
Anche l’antico diritto di asilo, in base al quale una persona perseguitata nel proprio paese, per le sue convinzioni politiche o religiose, può essere protetta dall’
autorità di un territorio straniero, venne progressivamente ignorato perché venne
considerato inadeguato alle nuove condizioni dei profughi e all’elevatissimo numero dei perseguitati.
La situazione degli apolidi e dei rifugiati rappresenta una delle più grandi contraddizioni che segna questo periodo storico «un mondo proclamatosi tutore degli inalienabili diritti umani avrebbe ovunque trattato [queste persone] come
indesiderabili»109. I paesi ospitanti finirono per trattare il problema degli apolidi
solo da un punto di vista dell’ordine pubblico, le alternative risultavano essere due: il rimpatrio o la naturalizzazione. Entrambe queste soluzioni comunque andarono incontro al fallimento. Nel primo caso perché il profugo stesso rifiutava di tornare in un paese dove era stato o sarebbe stato perseguitato e lo Stato stesso non avrebbe mai accolto nuovamente il dissenziente che aveva precedentemente espulso. Anche il caso della naturalizzazione risultò non essere efficace in quanto non era applicabile su vasta scala ma solo a casi eccezionali. Il carattere di massa del fenomeno dei profughi spinse i governi a non estendere tale provvedimento, anzi a ritirarlo anche laddove era già stato applicato. Al contrario, negli anni tra le due guerre, si procedette in molti paesi europei alla snaturalizzazione, ossia alla privazione della cittadinanza, la quale permetteva di potersi “sbarazzare” al momento giusto dei cittadini che risultavano essere “sgraditi”.
L’apolide privo del diritto di residenza e del diritto al lavoro, venne a trovarsi nella condizione di violare la legge, ammesso che si potesse parlare di
109 Ilaria Possenti, L’apolide e il paria. Lo straniero nella filosofia di Hannah Arendt, Crocci editore,
78
violazione di legge per una figura che è collocata all’infuori di essa. Oppure, paradossalmente, tale soggetto, violando la legge, si metteva al riparo della legge stessa. Quella degli apolidi risulta essere una condizione addirittura peggiore rispetto a quella del criminale il quale, ancora in possesso della propria personalità giuridica, ha il diritto di essere processato per il suo crimine. L’apolide invece può essere arrestato o espulso arbitrariamente senza poter appellarsi ad alcun diritto (è una situazione molto simile a quella da noi descritta nel primo capitolo quando si parlava del processo che portava gli individui ad essere delle non-persone). Si arriva ad una vera e propria contraddizione in quanto «Solo come violatore della legge
egli [l’apolide] può ottenere protezione da essa»110. L’uomo senza Stato andrà ad
identificarsi con un fuori legge per definizione. A dispetto della inalienabilità dei diritti umani, il campo di internamento, anche negli anni trenta, divenne la soluzione pratica del problema dei senza patria, l’unico territorio in cui lo stato sovrano poteva deportare questi nuovi profughi. I campi d’internamento in pratica risultavano
essere «l’unica patria che il mondo aveva da offrire all’apolide»111.
Gli ebrei costituivano la “minoranza per eccellenza” nel periodo che intercorre tra i due conflitti. La scelta da parte di Hitler, durante la seconda guerra mondiale, di cacciarli dal territorio tedesco per la loro condizione di apolidicità e di riammetterli o come scrive meglio la Arendt «riaccoglierli accuratamente da ogni angolo d’Europa» per essere internarti nei campi di sterminio, mostra chiaramente come si potevano eliminare senza alcuna opposizione coloro che, non godendo della protezione di un governo, risultavano essere invisibili, in quanto nessuno Stato rivendicava la loro esistenza. L’apolidia non è vista dalla Arendt come un problema
110 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 397. 111 Ivi, p. 394.
79
prettamente ebraico ma come una contraddizione insita nello stato nazione, il prodotto della malsana gestione delle minoranze all’interno dei territori. Saranno proprio gli apolidi, i senza patria, a mostrare la contraddittorietà che contraddistingue lo stato nazionale. Infatti chi non ha la fortuna di possedere una nazionalità non sarà protetto da alcuno Stato, non verrà riconosciuto dalla legge e vivrà in una condizione di superfluità. Tra le due guerre mondiali lo Stato finisce per essere un semplice strumento nelle mani della nazione, invece che uno strumento di legge. La legge concepita come mediazione e patto dalla Arendt è l’unica che possa riuscire a consentire il vivere civile tra le persone e anche a tutelare anche le minoranze.
La situazione dell’apolide, affrontata in questo testo dalla nostra autrice, risulta essere molto importante per lei, non solo perché rappresenta un pezzo della propria esperienza personale, come vedremo successivamente, ma perché proprio tramite l’analisi storico-politica di questo fenomeno, riuscì ad elaborare una e vera propria critica dei diritti umani.
2. “Diritto ad avere diritti”: il diritto di cui tutti dovremmo godere. Prima di poter parlare del “diritto ad avere diritti” occorre fare un passo indietro e soffermarci sulla contraddittorietà che caratterizza lo stato nazione, appena accennata precedentemente. La concezione di uno spazio nazionale uniforme a discapito della diversità e del pluralismo è aspramente criticata dalla nostra autrice. Nel 1946, alcuni anni prima della pubblicazione de Le origini, la
80
Arendt scrisse un piccolo saggio, intitolato appunto La nazione112, nel quale mette
in risalto la nascita e le varie problematiche dello stato nazionale. Tale analisi risulta essere un passo fondamentale per capire, come afferma la Arendt, la realtà politica della propria epoca, in quanto essa è fondata sulle nazioni, ma è costantemente turbata e minacciata dall’incubo del nazionalismo. Questo fenomeno, descritto dalla
nostra autrice come «la conquista dello stato da parte della nazione»113, risulta
essere l’esito dell’identificazione progressiva, avvenuta nell’ottocento, tra questi due elementi.
La Arendt all’inizio di questo articolo mette in evidenza l’arbitrarietà con cui, nella sua contemporaneità, ma anche nel passato, si sono utilizzati spesso termini quali “popoli” o “nazioni”: proprio per questo si preoccuperà di chiarire tali nozioni. Un popolo diviene nazione, per la nostra autrice, nel momento in cui
«prende coscienza di sé alla luce dalla sua storia»114 e sviluppa quel legame forte
con il territorio proprio perché esso diventa «il suolo in cui la storia ha lasciato le
sue tracce»115. La nazione è allora quell’ambiente che unisce gli antenati al comune
destino dei loro discendenti, un territorio perciò di cui si fa parte solo per diritto di nascita. Contrariamente alla nazione che risulta essere di conseguenza una società chiusa, lo Stato è un’istituzione, che produce e garantisce la legge e si preoccupa di assicurare i diritti di coloro che vivono in un dato territorio, a prescindere dalla loro nazionalità. In quanto possessore di potere lo stato può diventare aggressivo e
112 Il saggio La nazione risulta essere una recensione all’opera di J. T. Delos La nation, un testo che
la Arendt riprenderà ed utilizzerà nella stesura de Le origini, definendolo in una nota «un’eccellente saggio sull’argomento».
113 Hannah Arendt, La nazione in Archivio Arendt. Vol. 1: 1930- 1948 a cura di Simona Forti,
Feltrinelli, Milano, 2001, p. 241.
114 Ibidem. 115 Ibidem.
81
rivendicare più territorio, al contrario della nazione, che con il suo legame ad uno specifico territorio, aveva invece posto fine alle ondate migratorie. La sovrapposizione di stato e nazione determina anche l’acquisizione da parte della nazione stessa delle caratteristiche dell’apparato statale, compresa quella di rivendicare l’espansione come diritto nazionale. È la nazione perciò che si è appropriata dello stato, processo che è iniziato con la dichiarazione della sovranità nazionale. L’identificazione della nazione con lo stato comporta inevitabilmente non solo l’identificazione del cittadino con colui che fa parte della nazione ma anche quella dei diritti umani con i diritti nazionali.
Tale riflessione viene ripresa dalla Arendt in maniera più approfondita ne Le origini del totalitarismo, e più precisamente nelle pagine iniziali del paragrafo dedicato al nazionalismo tribale. La nostra autrice descrive lo stato nazionale, che si andava sviluppando all’indomani della Rivoluzione francese, come il risultato della combinazione tra due fattori diversi tra loro, ovvero la nazionalità e l’apparato statale. Quando i popoli iniziarono a sentirsi delle entità storiche e culturali, risiedenti e stabilmente radicate in un determinato territorio, si trasformarono in quelle nazioni che avevano posto fine alle migrazioni. La coscienza nazionale rappresentava perciò un fenomeno abbastanza recente mentre lo stato e la sua struttura derivano da secoli di monarchia. La funzione dello stato che fino ad allora era stata quella di proteggere giuridicamente gli abitanti del territorio, a prescindere della loro nazionalità, entrò in conflitto con la crescente coscienza nazionale. Come conseguenza di ciò si ebbe la trasformazione progressiva dello stato da strumento
di diritto in strumento della nazione:«lo stato pretendeva – in nome della sovranità
82
per origine e nascita appartenevano alla comunità nazionale»116. L’unico vincolo
esistente fra i cittadini di uno stato-nazione, in cui è venuta meno la figura del monarca che raffigurava la comunanza dei loro interessi, era la condivisione dell’origine, che veniva manifestata attraverso il sentimento del nazionalismo. Il problema rilevante tra stato e nazione venne alla luce nel momento in cui la Rivoluzione francese aveva combinato i diritti dell’uomo con la sovranità nazionale. Detto in altri termini quelli che dovevano essere i diritti inalienabili dell’uomo andarono a coincidere con un patrimonio nazionale, in pratica «dall’ora
in poi i diritti umani vennero garantiti soltanto come diritti nazionali»117. È proprio
in questo contesto che entra in gioco il nazionalismo come «espressione di questo pervertimento dello stato in strumento della nazione, l’identificazione del cittadino
col membro di un gruppo nazionale»118.
Perciò con la dichiarazione dei diritti dell’uomo della fine del secolo diciottesimo, il genere umano si libera da ogni tipo di tutela. L’uomo «emancipato da qualsiasi autorità e vincolo, come un essere che portava in se stesso la sua dignità
senza riferimento a un ordine superiore più vasto»119 diventava per la prima volta
nella storia la fonte stessa del diritto. La dichiarazione dei diritti dell’uomo, anche se segnava una svolta storica epocale, risulta essere, per la nostra autrice, un cambiamento caratterizzato da una grande ambiguità, perché l’uomo, in questo suo essere “maggiorenne”, si riduceva ad essere un semplice membro appartenente ad un popolo. La dichiarazione dei diritti umani celebrava paradossalmente un “uomo
116 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 321. 117 Ivi, p. 322.
118 Ibidem. 119 Ivi, p. 403.
83
astratto”120 che non esisteva fisicamente e dato che «fin dai tempi della rivoluzione
francese, l’umanità era concepita come una famiglia di nazioni, si stabilì a poco a
poco che il popolo, e non l’individuo era l’immagine dell’uomo»121. L’astrattezza
di tale uomo finì per essere colmata tramite la figura dell’uomo come membro dello stato-nazione. Difatti, come abbiamo precisato precedentemente, con l’identificazione del popolo con la nazione i diritti di cittadinanza furono concessi solo ai membri della nazione stessa, in pratica chi non apparteneva al popolo- nazione non poteva godere più di tali diritti. La Arendt non ha mai negato l’importanza della Dichiarazione dei diritti dell’uomo della Rivoluzione francese, ma ha semplicemente sottolineato che tale dichiarazione risulta essere astratta se confrontata con la realtà del mondo che li circondava. Diritto di cittadinanza e diritto dell’uomo non sono per la nostra autrice opposti, ma al contrario la Arendt è perfettamente consapevole del fatto che i diritti dell’uomo possono essere difesi solo se si difendo quelli del cittadino.
Come abbiamo potuto notare con la riflessione sull’apolide, l’uomo in una condizione del genere rischia di perdere non solo il suo diritto di cittadinanza ma anche il suo status di persona. Fu presto evidente che se nessun governo si fosse occupato di tutelare i diritti umani di un individuo, questi ultimi sarebbero risultati inefficaci perché, anche se in teoria tutti gli uomini posseggono tali diritti dalla nascita, nessuno, se non uno Stato, è in grado di garantirli effettivamente. Non importa se questi diritti risultavano essere per definizione inalienabili, irriducibili e assoluti (ovvero indipendenti da ogni governo, non derivanti da altri diritti o leggi
120 Edmund Burke, politico e scrittore britannico del XVIII secolo, si oppose, a suo tempo, alla
dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, criticando l’astrattezza della nozione uomo che tale dichiarazione sottintendeva.
84
e non istituiti da nessuna autorità) in ogni caso la perdita dei diritti nazionali veniva a combaciare con la perdita dei diritti umani.
La domanda da porci allora dovrebbe essere: se i diritti umani equivalgono ai diritti nazionali, ovvero i diritti del cittadino, una volta perduta la protezione del proprio governo, all’uomo quali diritti rimangono? Quali sono i diritti umani di cui si dovrebbe godere anche con la cessazione dei diritti del cittadino? La vita, la libertà, la felicità, il diritto di proprietà, di opinione? La Arendt si preoccuperà di specificare quali siano effettivamente questi diritti perduti da coloro che si ritrovarono in una condizione di apolidicità. La nostra autrice si accorse che tali individui scappando dalla propria patria si ritrovarono, per la prima volta nella storia, nella condizione di non poterne trovare una nuova. Questo problema risultò essere esclusivamente politico, e non di spazio territoriale come potremmo inizialmente pensare:
Nessuno si era accorto che l’umanità, per tanto tempo considerata una famiglia di nazioni, aveva ormai raggiunto lo stadio in cui chiunque veniva escluso da una di queste comunità chiuse, rigidamente organizzate, si trovava escluso dell’intera famiglia delle nazioni, dall’umanità.122
Se la prima perdita combacia con l’impossibilità da parte di questi individui