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Il paria e il problema dell’assimilazione.

Capitolo III: Tra apolide e paria: il problema di chi vive senza “un posto nel mondo”.

4. Il paria e il problema dell’assimilazione.

Se l’apolide rappresenta nella riflessione arendtiana quella figura che ci permette di capire che c’è davvero bisogno dell’inclusione in uno spazio pubblico per non perdere quella condizione mondana e relazionale che caratterizza l’esistenza umana, tramite la figura del paria, che intrattiene un rapporto problematico con il mondo, la Arendt mette in guardia dalle modalità fusionali con cui può avvenire l’inserimento in una comunità politica. Tramite il paria la nostra autrice mette in evidenzia la questione relativa all’inclusione, quando si realizza tramite l’assimilazione come forma di fusione tra l’io e il mondo. La critica a tale strategia percorre tutto il pensiero arendtiano.

143 Ilaria Possenti, op., cit., p. 37.

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L’amarezza con cui la Arendt descrive la condizione dei profughi costretti all’integrazione, come unica alternativa fallace per continuare la loro vita, è già presente nei suoi testi giovanili seppur in maniera differente.

La nostra autrice, fin dagli anni trenta del novecento, prima di trasferirsi a Berlino, decise di focalizzare la propria attenzione sulla storia di Rahel Varnhagen, un’ebrea prussiana vissuta a cavallo tra due secoli, settecento e ottocento, in un periodo di estremo cambiamento per il popolo ebraico in cui finalmente

quest’ultimi riuscirono a conquistare la parità giuridica144, il che fece aumentare

paradossalmente discriminazione ed antisemitismo nel popolo. La biografia che ne scaturì risulterà essere la storia di un’identità ebraica ritrovata, Rahel divenne allora la protagonista di un celebre scritto giovanile arendtiano intitolato appunto Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea. Tale testo narra la vita di una donna, che dopo innumerevoli tentativi di assimilazione, cercando in ogni modo di eliminare tutte le tracce di quella che ella stessa definisce come “nascita infame”, riuscirà solo alla fine della sua vita a riconciliarsi con il suo essere ebrea. Hannah Arendt ripercorre il pensiero e la vita della protagonista, attraverso i suoi carteggi, cercando di mettere in primo piano la continua lotta di Rahel con la propria identità ebraica. È proprio

144 La rivoluzione francese proclamando ideali quali l'uguaglianza di tutti gli uomini, diede anche

agli ebrei una speranza di integrazione sociale, ma questo processo alimentò invece una sempre più viva aggressività nei loro confronti, un'ostilità non di natura spirituale ma fisica. Fu con l'emancipazione che, per un apparente paradosso, i fondamenti dell'esclusione e della persecuzione assunsero le nuove forme rigide dell'antropologia scientifica e della filosofia della storia. La differenza e l'inferiorità divennero irriducibili, la discriminazione avveniva a causa di un'essenza invisibile, insita nell'ebreo stesso, che nessuno poteva eliminare. Soprattutto alla fine dell'Ottocento, con l'affermarsi del nazionalismo, gli ebrei furono considerati elementi esterni alla nazione, la loro affidabilità venne messa costantemente in dubbio e la loro integrazione o emancipazione venivano viste come un pericolo. Proprio in Germania, in questo periodo, nasce la parola “antisemitismo” per indicare l'ostilità di matrice politico-sociale e razzista verso gli ebrei. Il termine contiene in sé sia l'antigiudaismo teologico, sia le discriminazioni portate avanti grazie all'uso delle nuove scienze. Questa ideologia, come sappiamo, toccò il suo l'apice nella prima metà del novecento con l'avvento del nazismo.

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dal termine della vita della protagonista, dall'accettazione di quella “nascita infame”, anzi, dall'entusiasmo con cui la protagonista finalmente rivendica la propria origine, che Hannah Arendt fa iniziare il suo scritto:

«Che storia! - Sono una profuga dall'Egitto e dalla Palestina e trovo qui aiuto, amore e cura da parte Vostra! Con entusiasmo sublime penso a questa mia origine e alla trama del destino in cui si uniscono le più lontane distanze di spazio e di tempo: le più antiche memorie del genere umano, allo stato più recente delle cose. Quello che, per tanto tempo della mia vita, è stata l’onta più grande, il più crudo dolore e l’infelicità, essere nata ebrea, non vorrei mi mancasse ora a nessun costo»145.

Rahel rappresenta la vittima, non tanto innocente agli occhi dell’autrice, della strategia assimilazionistica. Difatti il libro che la vede protagonista narra il problema dell’essere una donna ebrea in un’epoca in cui per entrare a far parte della società si doveva essere disposti anche ad assimilarsi all’antisemitismo stesso. Essa esprime l’atteggiamento di un soggetto debole che, pur di trovare un posto nel mondo, anche se falso, è disposto a sacrificare la propria identità. La possibilità di integrazione in cambio della cancellazione della propria identità storica e culturale non rappresenta, per la nostra autrice, un’alternativa sana e possibile all’esclusione, in quanto risulta essere una forma di oppressione che viola quel diritto alla diversità e al pluralismo che la Arendt rivendica continuamente.

Il soggetto assimilato trascorre la propria vita cercando di inseguire «il

sogno di essere “come gli altri”»146, e pensa di trovare, integrandosi, il suo posto

nel mondo. La Arendt pur ammettendo la grande difficoltà che si incontra nel cercare di inserirsi in un ambiente ostile, in cui non si è riconosciuti, critica la protagonista che trascorre la sua vita nel costante tentativo di assimilarsi senza capire che con tale atteggiamento si incorre nel rischio di perdere il proprio sé.

145 Hannah Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, Mondadori, Milano, 1988, p.11. 146 Ilaria Possenti, Paria in Il Novecento di Hannah Arendt, cit., p. 94.

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Rahel inizialmente lotta per assimilarsi alla società ritenendo che elementi come tradizioni o religioni fossero superabili facendo riferimento all’universale natura umana, ma per la nostra autrice l’assimilazione viene a coincidere con la negazione dell’alterità, della possibilità di distinguersi.

Arendt è riuscita nell’intento di delineare attraverso la vita di una singola persona la storia collettiva di un popolo. Difatti gli ebrei prima di diventare dei senza patria, degli apolidi, furono un “popolo paria”. Il termine paria in origine indicava i fuori casta, gli “intoccabili”, gli oppressi, del sistema sociale indiano, ovvero coloro che vivevano ai margini della comunità. Gli ebrei sono definiti dalla Arendt popolo paria, non negativamente come aveva fatto Nietzsche nella Genealogia della morale, dove i paria sono descritti come degli individui fondati sulla morale del risentimento e dell’ipocrisia, ma facendo riferimento alla descrizione fatta da Max Weber in Economia e società. Weber rappresenta il popolo ebraico come modello di “popolo-ospite” che ha vissuto sempre come uno straniero rispetto all’ambiente che lo circondava. Un popolo, come gli intoccabili delle caste indiane, che non ha una fisionomia politica e vive nell’esclusione sociale fondando la propria identità di comunità non su un legame politico, ma sull’esclusione dalla comunità dominante. La Arendt riprende tale paragone per sottolineare che il popolo ebraico come popolo paria vive nell’esclusione, privato di diritti e di quell’infra politico che permette di non essere invisibili, di essere notati. Il popolo

ebraico appunto vive nel mondo ma contemporaneamente ne è escluso. Tale

modello comunitario è pericolosamente impolitico: il popolo ebraico paga il prezzo di una forte coesione interna e della speciale humanitas che li caratterizza, con la

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perdita del mondo. Il paria è perciò l’ebreo escluso dalla società europea che pur vivendo nell’esclusione sociale e politica non perde le sue qualità morali.

La nostra autrice ritorna a parlare di quell’humanitas che caratterizza i

popoli paria anche nel saggio L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing147. Nei

“tempi bui”, secondo la Arendt, si sviluppa un particolare tipo di umanità, un’umanità molto più profonda rispetto quella natura umana unitaria a cui siamo abituati a pensare. Rousseau, credeva, nel secolo diciottesimo, che questa natura comune agli uomini fosse la compassione, ovvero la ripugnanza che tutti gli uomini provano quando vedono un proprio simile soffrire: «un affetto naturale […] che

colpisce involontariamente ogni persona normale alla vista della sofferenza»148.

Questa tipologia di umanità, che caratterizza anche il popolo ebraico è molto frequente in tutti i popoli paria. Il problema sottolineato da Hannah Arendt in questo saggio risiede nel fatto che l’altro lato della medaglia di questo estremo calore prodotto dalla fratellanza, che si manifesta all’interno di tali comunità e permette loro di sopportare ogni sopruso, è la perdita di quello spazio intermedio fondamentale che permette agli uomini di mantenere la distanza tra loro, eliminando così il rischio di sopprimere le diversità che permettono a gli uomini di distinguersi l’uno dall’altro, quel “fra” indispensabile che la Arendt è solita chiamare mondo.

La reciproca solidarietà che caratterizza queste comunità, un legame prodotto dal patire una stessa ingiustizia o uno stesso male, tende ad includere in

147 Il 28 settembre 1959 Hannah Arendt pronunciò il suo discorso L’umanità in tempi bui in

occasione del conferimento del premio Lessing di Amburgo, il primo riconoscimento ufficiale insignito alla Arendt.

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quel calore solo coloro che sono accumunati da tale sofferenza, difatti, come afferma la nostra autrice, «l’umanità creata dalla fraternità si adatta difficilmente a

chi non appartiene al novero degli umiliati e degli offesi»149. Il calore del ritrovarsi

vicini affettivamente nel suo pieno sviluppo può generare degli aspetti assolutamente positivi «una bontà e una gentilezza di cui altrimenti gli esseri umani

sono difficilmente capaci»150, ma l’essere legati a causa dalla condivisione di un

maltrattamento si paga, come abbiamo visto, a caro prezzo. La compassione perciò potrebbe essere la base di un sentimento che spingerebbe gli uomini a considerarsi fratelli, ma purtroppo questo tipo di umanità viene percepita solo all’interno del cerchio dei perseguitati ed impedisce di costruire ponti tra chi è dentro e chi invece sta fuori. Chi fa parte di queste comunità evita ogni tipo di confronto con chi è diverso perché tali individui «desiderano per quanto è possibile avere a che fare

solo con persone con cui non possono trovarsi in conflitto»151. Ma è proprio il

conflitto, secondo la Arendt, che porta al confronto con ciò che è differente da noi. La fraternità è una strategia comprensibile, per la nostra autrice, ma estremamente rischiosa perché ha un carattere egualitario che distrugge la pluralità. La compassione rende sopportabile l’umiliazione, ma in termini politici è completamente irrilevante perché si cerca «nel calore dell’intimità il sostituto della

luce e della visibilità che solo la sfera pubblica può procurare»152.

Il paria, non godendo di diritti perché escluso dalla vita pubblica, dovrebbe

intraprendere una strada differentepercorribile non solo dai popoli paria, ma da tutti

i popoli.È proprio per questo che la Arendt contrappone alla nozione di fraternità

149 Ivi, p. 221

150 Ivi, p. 219. 151 Ivi, p. 233. 152 Ibidem.

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il concetto di amicizia politica. Siamo abituati a interpretare l’amicizia come un fenomeno che appartiene esclusivamente alla sfera privata dell’uomo e per questo

non riusciamo a comprenderne l’importanza politica153. L’amicizia è una relazione

discorsiva tra pari che richiede differenza e pluralità delle prospettive, viene

interpretata dalla nostra autrice come relazione libera e orizzontale che attraverso il dialogo non perde di vista il mondo comune proprio perché «il mondo non è umano perché è fatto da esseri umani», ma «diventa umano […] solo quando è diventato

oggetto di discorso»154. Le cose del mondo diventano umane solo se ne parliamo

con i nostri simili: «Noi umanizziamo ciò che avviene nel mondo e in noi stessi

solo parlandone, e in questo parlare, impariamo a diventare umani»155. Dunque è su

questo sfondo politico che dobbiamo focalizzare la nostra attenzione, su questo occuparsi del mondo umanizzandolo, facendolo diventare costantemente oggetto di discorso tra le persone. La disponibilità di godere di un mondo comune con gli altri uomini veniva chiamata dai greci filantropia, come specifica la Arendt, ma nel corso del tempo questo concetto cambiò ed ampliò il suo significato, soprattutto con l’influsso romano, perché a Roma si riunivano persone di diverse culture che avevano la possibilità di prendere la cittadinanza romana potendo così partecipare al dialogo, al mondo comune, con gli altri uomini. È questo “sfondo politico” che distingue l’amicizia dalla fraternità: mentre la prima valorizza le distinzioni ed apre al dialogo, la seconda annulla ciò che ci differenzia e induce al non confronto, in

153 I primi a dimostrarci il valore politico dell’amicizia furono i greci, i quali credevano che l’essenza

stessa dell’amicizia fosse il discorso.

154 Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing in Antologia, cit., p. 228. 155 Ibidem.

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pratica la fraternità chiude le porte allo spazio pubblico, nel quale solo gli uomini si riconoscono come tali, e ricaccia gli umiliati e gli offesi nell’invisibilità.

Rahel rappresenta proprio la tragedia del popolo ebraico che vive nell’invisibilità pubblica perché non gode di un posto nel mondo ed ha vissuto nell’assimilazione attraverso la carriera o nell’isolamento nella vita intellettuale fino al tragico esito dell’olocausto.

Nel corso della narrazione della vita della protagonista si può facilmente notare la severa intransigenza da parte dell’autrice nella descrizione di Rahel, che cerca di uscire individualmente dall’ebraismo (accettando il battesimo cristiano e rinunciando persino al suo nome col matrimonio) solo per inserirsi nella società del suo tempo ed intraprendere quell’ascesa sociale che la condizione di parvenu

sembra garantire. Nel penultimo capitolo intitolato appunto Fra paria e parvenu156,

al paria si contrappone questa nuova figura, che, scambiando l'eguaglianza dei diritti con i privilegi personali, ha perso la possibilità di comprendere ciò che non

riguarda la propria ascesa sociale.La Arendt definisce parvenus infatti «coloro che

sono obbligati a entrare con astuzia o l’inganno in una società, uno stato, una classe

cui non appartengono»157. Il parvenu rappresenta per la nostra autrice l’ebreo che

tenta di sfuggire alla sua condizione di marginalità identificandosi con i suoi oppressori.

Il parvenu, per diventare tale, deve necessariamente rinunciare a

quell’umanità che caratterizza il popolo ebraico perdendo così tutte quelle qualità158

156 Anche la dicotomia paria/parvenu è stata ripresa dalla Arendt dalla riflessione weberiana. 157 Hannah Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, cit., p. 204.

158 Le qualità del paria sono elencate anche nel testo Le origini del totalitarismo p.92: anche in

questo caso la figura del paria è contrapposta a quella del parvenu il quale per arrivare in alto deve possedere qualità quali: «inumanità, avidità, insolenza, strisciante servilismo e determinazione nel farsi strada».

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che contraddistinguono il paria: la gentilezza, la bontà, la gratitudine, la libertà dal pregiudizio, la sensibilità all’ingiustizia. Il parvenu deve rinunciare a tali qualità, che la protagonista della biografia definisce come “errori inconfessabili”, per avere anche solo una minima possibilità di accesso alla società, per avventurarsi nella scalata verso il successo. Il parvenu costretto a vivere nella menzogna «in

un’esistenza di sole apparenze»159, tradisce il suo popolo barattando la giustizia per

alcuni privilegi personali e «paga la perdita delle qualità di paria con l’incapacità definitiva di comprendere la totalità, di riconoscere i nessi, di interessarsi a qualche

cosa di diverso dalla propria persona»160. Durante la sua ascesi il parvenu potrà

contare solo sulle sue forze e l’essere cosciente di non dover essere riconoscente a nessuno per i propri successi, lo porterà a sentirsi un “superuomo”, estremamente sicuro di se stesso. Al contrario la figura del paria è caratterizzata da una profonda riconoscenza nei confronti di un mondo dal quale, proprio a causa della propria storia, non si aspetta nulla, per questo «si sente legato e grato anche per una parola

rivolta casualmente, per un gesto amichevole compiuto quasi distrattamente»161. La

Arendt sottolinea continuamente il suo «riguardo eccessivo per il viso umano»162.

È proprio la sua humanitas che lo distingue dal parvenu, il capire, in tutte le situazioni, che ogni persona ha una dignità che va rispettata.

Come tutti gli ebrei anche Rahel vive nella costante lotta tra paria e parvenu, tra l’esclusione e la marginalità o un posto in società a discapito della propria origine. Nonostante ambedue le strade siano caratterizzate dalla completa solitudine

159 Hannah Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, cit., p. 230. 160 Ivi, p. 219.

161 Ivi, p. 218. 162 Ivi, p. 219.

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Rahel scelse consapevolmente la via del paria. Ella abbracciando alla fine della sua vita la sua ebraicità decise di non voler rinunciare ai propri “difetti” di paria ebrea:

Rahel […] essendo ebrea, si trovava sempre al di fuori della società; era un paria e ha scoperto, alla fine, suo malgrado e tristemente, che si entra in società soltanto a prezzo della menzogna […] ha scoperto che il parvenu […] è costretto a sacrificare tutto quanto è normale, a dissimulare ogni verità, approfittare di ogni amore e non solo a reprimere ogni passione, ma ancora peggio, usarli come strumenti dell’ascesa sociale.163

Rahel rifiuta le lusinghe dello status di parvenu rivendicando il suo essere paria, in quanto non è disposta a pagare qualsiasi prezzo per essere accettata dalla società. La protagonista si rende conto che la sua assimilazione era soltanto apparente, prende consapevolezza della propria condizione e da questo dato di fatto riesce ad accettare la propria storia.

Il paria essendo costretto a risiedere ai margini della società riesce a guardare il mondo e la vita nella sua totalità, riesce a capire che anche se «Essere

stranieri fa bene»164 è impossibile rinunciare a ciò che ci determina.

Il capitolo conclusivo del testo intitolato Dall’ebraismo non si esce è forse per noi il più importante per capire ancor meglio il pensiero arendtiano

sull’appartenenza all’ebraismo.La presa di distanza dell’autrice da Rahel è più netta

rispetto al capitolo precedente perché per la Arendt è chiaro che in quanto problema personale la questione ebraica è irrisolvibile. Trasformare il problema di un intero popolo in una questione privata, il cui destino è ormai apparentemente separato da quello collettivo, è un tentativo fallace perché:

163 Ivi, p. 213.

164 Ivi, p. 78. «immergersi, non essere nessuno, non avere un nome, nulla che ricordi qualcosa; e

sperimentare, tentare quello che procura piacere; non lasciarsi aggredire; essere senza pretese, perdersi in tutte le cose belle del mondo».

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Solo nell'ambito di un popolo l'individuo può vivere come uomo fra gli uomini senza rischiare di morire per mancanza di forze. E solo un popolo in comunità con altri popoli può contribuire a costruire sulla terra un mondo umano creato e gestito dalla collaborazione fra tutti gli uomini165.

La storia e la tradizione non possono essere interpretati come una questione privata, ma rappresentano invece una realtà con cui fare i conti, con cui è necessario entrare in rapporto. Anche andando in una città straniera, allontanandosi dalla propria comunità, il problema non si elimina ma si trasforma da destino storico in un difetto personale. È proprio la protagonista ad affermare che non è possibile liberarsi dall’ebraismo, in quanto dato naturale della propria esistenza, «per Rahel

l’ebraismo è inseparabile come, per il paralitico, la gamba troppo corta»166. La

Arendt perciò descrive, nell’ultima parte del suo libro, l’ebraicità della protagonista come la gamba di un paralitico: questo è sì un difetto di natura, ma in quanto inseparabile dalla propria persona rappresenta ciò che lo rende diverso dagli altri. Non è detto perciò che quella “gamba troppo corta” sia per forza un male. Vivere questa diversità come un dato di fatto, come una differenza insuperabile, sarà un elemento indispensabile per dimorare con gli altri su questa terra. Esisterà sempre il desiderio, nell’essere umano, di evadere in luoghi stranieri dove la propria identità non è conosciuta da nessuno: «l’essere umano […] non è se stesso se non in luoghi

stranieri; a casa deve sempre rappresentare il proprio passato»167. Si corre però

sempre il rischio di “portare una maschera” nel presente lontano da casa. Per essere accettati e accolti, si rischia di essere talmente assimilati da dimenticare il proprio passato.

165 Hannah Arendt, Kafka: l’uomo di buona volontà in Il futuro alle spalle a cura di Lea Ritter