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Dal “male radicale” alla “banalità del male”.

Capitolo II: Comprendere il male nella sua banalità.

2. Dal “male radicale” alla “banalità del male”.

Con il fenomeno totalitario entra a far parte della storia un nuovo tipo di male, del tutto originale, che la Arendt definirà, nella sua opera del 1951, come

“male radicale”67. Il male radicale è un male assoluto, non più riferibile a

motivazioni umanamente comprensibili, che, sprigionato nello stadio finale del totalitarismo, è riuscito a mostrarci come l'uomo, in determinate condizioni (sgravato dalle responsabilità dei propri atti e preoccupato per la propria sicurezza personale e familiare), è in grado di compiere qualsiasi atto, in quanto nessun valore o principio indirizza il suo comportamento. La nostra autrice, nella sua analisi, si limiterà ad indicare solo il luogo in cui questo male assoluto ebbe origine e pieno sviluppo, ovvero i campi di sterminio. Nei lager, come abbiamo precisato più volte, si rende concreto l'orrendo esperimento, fino ad allora solo ipotizzato, dell'alterazione della natura umana finalizzata alla creazione del perfetto “cittadino totalitario”, un uomo ridotto a pura fisicità di cui il potere si serve a propria discrezione. Lo scopo infatti di questi luoghi dell'orrore era la realizzazione di un essere umano perverso, caratterizzato dal sentimento di superfluità, privato di

66 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. LXXX. Tale citazione fa parte della prefazione

della prima edizione de Le origini del totalitarismo scritta nell’estate del 1950.

67 La terminologia di “male radicale” indica qualcosa che non può essere né distrutto né estirpato,

ma che è radicato nella stessa esistenza dell'uomo e che fa parte della sua stessa natura. È stata usata per la prima volta da Kant nell’opera La religione entro i limiti della sola ragione pubblicata nel 1793 poi riutilizzata dalla Arendt.

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quella peculiarità fondamentale che è l’imprevedibilità umana. Tale qualità, già insita nella capacità di agire, ha sempre permesso all’uomo di sfuggire alla catena dell’infinita ripetizione, per dar luogo a qualcosa di nuovo ed inaspettato. È proprio tale spontaneità che nei campi di sterminio si cerca disperatamente di eliminare, per far in modo che l'accelerazione del processo della natura o della storia non sia mai ostacolato da quel nuovo inizio da noi citato già più volte. La Arendt non darà mai, nei suoi testi, una definizione esatta di tale male e in nessun caso indicherà quale

sia la sua reale natura. In una lettera inviata a Karl Jaspers68, datata4 marzo 1951,

ella affermerà:

Il male si è dimostrato più radicale di quanto non si fosse previsto. […] Che cosa sia realmente oggi il male nella sua dimensione radicale, non lo so, ma mi sembra che esso in un certo modo abbia a che fare con i seguenti fenomeni: la riduzione di uomini in quanto uomini ad esseri assolutamente superflui, il che significa non già affermare la loro superfluità nel considerarli mezzi da utilizzare, ciò lascerebbe intatta la loro natura umana e offenderebbe soltanto il loro destino di uomini, bensì rende superflua la loro qualità stessa di uomini. Ciò avviene quando si elimina qualsiasi

unpredictability, quella imprevedibilità che è nel destino e la quale corrisponde, negli uomini, la

spontaneità.69

È il terrore totale, concretizzato nei lager, concepito proprio per sopprimere nell'uomo ogni traccia di libertà e di responsabilità individuale, che sprigiona questa forma di male tanto assoluto e radicale da essere imperdonabile e impunibile. Un male di questa portata non è più riconducibile a nulla di razionale, a nulla di comprensibile al “cuore” umano. Collocare però, come ha fatto Hannah Arendt, il male al di là della capacità di comprensione umana significa contemporaneamente dargli una sorta di aurea ultraterrena, per dirla con le parole utilizzate dal maestro

68 Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco, incontrò Hannah Arendt quando quest’ultima si trasferì

all'Università di Heidelberg. Sotto la sua guida la nostra autrice preparò e portò a termine nel 1929 la propria ricerca di dottorato “Der Liebensbegriff bei Augustin” (Il concetto di amore in Agostino.

Saggio di interpretazione filosofica).

69 Hannah Arendt, Karl Jaspers, Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, a cura di Alessandro Dal

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Jaspers in una lettera indirizzata alla nostra autrice, «una grandezza satanica»70 che

avrebbe reso i crimini nazisti talmente mostruosi da non essere più concepibili dal punto di vista giuridico o morale incorrendo cosi nel pericolo (di cui la nostra autrice si rese conto solo in un secondo momento e che aleggia in tutto il testo de Le Origini), di rendere inutili nozioni fondamentali come quelli di colpa e responsabilità.

Proprio a causa della radicalità che caratterizza questo male la Arendt riterrà estremamente necessario andare a ricercare un nuovo fondamento che servisse da incipit per scrivere un nuovo capitolo della storia umana, e quale stimolo più forte per la rinascita, se non la paura che quell’estremo orrore potesse ripresentarsi in futuro, difatti è proprio questa paura che doveva aiutare gli uomini, secondo la nostra autrice, a costruire insieme una nuova umanità. La Arendt aveva presupposto che un male di questa portata, comparso in un sistema che aveva reso gli uomini superflui, potesse rappresentare il punto finale da cui poter ripartire per dare inizio ad una nuova moralità politica. Un fondamento che scopriremo in seguito risulterà fallace.

Difatti, la nostra autrice, dieci anni dopo la pubblicazione de Le origini, rielaborò il proprio pensiero sul male, perché si rese conto della falsità della sua radicalità. Lo scopo della Arendt fu ridare alla paura politica, scaturita dal male totalitario, una connotazione terrena, proprio perché tale passione fa parte del mondo di essi, in quanto ha origine e dipende dalle relazioni che si stabiliscono fra gli uomini. La Arendt cercherà di dissolvere ogni parvenza di aura sacrale, che

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aveva fin allora osservato nella paura politica, per non correre il rischio di

demonizzare i crimini nazisti e di conseguenza renderli ingiudicabili.L'analisi che

riuscì a compiere sui campi di sterminio (ricordiamo soprattutto il saggio Colpa organizzata e responsabilità universale71) le permise di riflettere su alcuni dei temi che occupano un posto di rilievo nello scambio epistolare con il maestro Jaspers, soprattutto l’argomento della colpa e della responsabilità Ma l’esperienza che concretamente più di tutto fece ritornare la nostra autrice su i suoi passi fu l'osservazione, in prima persona, di colui che, per l'immaginario collettivo rappresentava il mostro per antonomasia, ovvero il regista della “soluzione finale”

della questione ebraica, Adolf Eichmann72. Nel momento in cui la Arendt apprese,

dai giornali, la notizia della cattura (o per essere più precisi del rapimento73) di questo ipotetico demonio, non poté perdersi l'opportunità di essere presente al processo che lo riguarderà in prima persona. Per questo motivo chiese al settimanale New Yorker di essere inviata come reporter di tale udienza a Gerusalemme. Il resoconto delle 120 sedute del processo Eichmann, seguite dalla Arendt nel 1961,

71 In questo saggio Hannah Arendt evidenzia come i tanto venerati padri di famiglia, a cui Himmler

diede il compito della gestione dei lager, si resero protagonisti delle peggiori atrocità del secolo passato, pur non sentendosi totalmente responsabili per ciò che avevano commesso.

72 Otto Adolf Eichmann è stato un paramilitare e funzionario tedesco, considerato uno dei maggiori

responsabili dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista. Era stato responsabile della sezione competente degli affari concernenti gli ebrei, dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), organo nato dalla fusione, voluta da Himmler, del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, inclusa la polizia segreta o Gestapo. Eichmann non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma, per l'ufficio ricoperto, aveva svolto una funzione importante, su scala europea, nella politica del regime nazista: aveva coordinato l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio.

73 Israele, diventato uno Stato dopo la seconda guerra mondiale, si riserverò il diritto di rapire il capo

nazista (il quale nel frattempo si era rifugiato a Buenos Aires dopo esser riuscito a sfuggire al processo di Norimberga) e di trasferirlo a Gerusalemme per farlo processare e giudicare dal Tribunale distrettuale per i crimini commessi contro il popolo ebraico. Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962.Il cadavere fu cremato e le sue ceneri vennero caricate su una motovedetta della marina israeliana e disperse nel Mar Mediterraneo al di fuori delle acque territoriali israeliane.

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fu pubblicato in 5 articoli sul noto giornale e poi successivamente dato alle stampe, nel 1963, in un unico saggio dalla forma più ampia, intitolato Eichmann in Jerusalem- A Report on the Banality of the Evil74, il quale diventerà non solo il suo libro più letto ma anche quello più criticato, a causa del quale la nostra pensatrice perse anche alcune delle sue amicizie più intime. Tale evento rappresentò, per tutta l'opinione pubblica, l'occasione per confrontarsi a sangue freddo con "l'incarnazione del male totalitario". Per la Arendt essere presente in prima persona a questo processo fu un’esperienza necessaria, anche se dolorosa, grazie alla quale riuscì a capire che non era più sufficiente indagare sulle origini e sul funzionamento del sistema totalitario. Era necessario andare oltre il sistema ideologico e politico della Germania nazista, perché in questo caso di fronte alla nostra autrice e soprattutto davanti alla corte siede un singolo imputato, un uomo “in carne e ossa”, che deve essere giudicato per i crimini da lui commessi. Fu tale udienza, ormai lontana dai forti sentimenti dell’immediato dopoguerra, che consentì alla Arendt di concentrarsi sulla responsabilità personale dell’imputato, il che permise alla nostra autrice di assumere una nuova prospettiva teorica.

Il punto centrale, sfuggito alla nostra autrice durante la stesura de Le origini del totalitarismo, risultò essere evidente nel momento in cui fu costretta a fare i conti con la realtà: coloro che si misero a disposizione del sistema totalitario restavano comunque degli esseri umani che andavano giudicati per la loro condotta individuale e per questo dovevano affrontare un processo ed una sentenza. Anche se ne Le origini questi uomini diventavano delle marionette nelle mani del potere

74 In Italia verrà pubblicato l’anno successivo, nel 1964, con il titolo La banalità del male. Eichmann

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totalitario singolarmente, in quanto individui, dovevano fare i conti con ciò che avevano commesso. La Arendt non poteva correre il rischio di deresponsabilizzarli. I cittadini del regime totalitario hanno compiuto una scelta del tutto ragionata aderendo, in cambio di benessere e sicurezza, ai crimini nazisti. Con la loro decisione si sono resi complici di tale sistema e per questa motivazione nulla impedisce di considerarli colpevoli e punibili. Ovviamente il contesto in cui erano inseriti questi soggetti condizionava il loro comportamento e le loro azioni, ma tale situazione non eliminava la loro capacità di scelta in quanto non determinava l’annullamento delle loro colpevolezza e non cancellava le loro responsabilità.

Ciò che Hannah Arendt si trovò dinanzi, in quel processo del 1961, era però molto diverso da quello che la nostra autrice si aspettava. Osservare Eichmann, colui che doveva rappresentare l’incarnazione del male totalitario, in quella gabbia di vetro fece notare alla nostra autrice che il lui non vi era nulla di inquietante o di disumano, niente che potesse andare al di là della nostra capacità di comprensione. La Arendt fu estremamente colpita dall'assoluta “normalità” di questo individuo che di terrificante aveva, effettivamente, ben poco. Le azioni compiute da Eichmann sotto il regime nazista erano mostruose in sé stesse, ma risultavano criminose solo se guardate retrospettivamente. Chi le compì era, in quel contesto, un uomo ligio al dovere e fedele alla legge, come tanti altri tedeschi all’interno del sistema totalitario tedesco. Il soggetto che si occupò dell’organizzazione della strage ebraica, colui che aveva coordinato l'organizzazione del trasferimento degli ebrei nei vari campi di internamento e di sterminio non aveva perciò nulla di demoniaco o di mostruoso. Eichmann era una persona comune, ordinaria, la cui personalità, data l’accurata descrizione fatta dalla Arendt in tale testo, rasentava la mediocrità. Questo

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ovviamente non diminuiva però l’aspetto inquietante di questa persona. Eichmann era un uomo privo di iniziativa, di spessore culturale e morale, che non riusciva ad andare oltre i condizionamenti che gli erano stati dati dalla società.

La spaesante conclusione a cui la Arendt pervenne, tramite l’osservazione dell’imputato durante il processo, fu che Eichmann non era l’incarnazione di un mostro orripilante, un essere "non umano" che uccideva per il gusto di uccidere: al contrario, egli né uccideva né odiava gli ebrei, e su questo punto l’imputato si

soffermò più volte durante il processo75. Eichmann si limitava semplicemente a

svolgere le mansioni che gli venivano affidate: all’imputato, durante il regime nazista, era stato dato il compito di organizzare il trasporto ferroviario degli ebrei, e questo ciò che fece effettivamente Eichmann, senza curarsi minimamente del carico presente all’interno di questi vagoni. Proprio per questo non si sentiva responsabile di ciò che sarebbe successo a questi esseri umani una volta arrivati nei campi di concentramento, perché occuparsi di ciò che a questi uomini sarebbe avvenuto in seguito al loro trasporto esulava dalle sue competenze.

La mentalità burocratica di Eichmann e il suo richiamo costante al dovere, alla legge e all’obbedienza non rappresentavano per la Arendt una strategia usata dall’imputato per difendersi dalle accuse che gli erano state mosse, ma erano il segno evidente della sua “incapacità di pensare”. Questa incapacità di azionare il

75 Eichmann affermò durante l’udienza che all’interno della sua famiglia vi erano degli ebrei a cui

era perfino riconoscente, dato che lo avevano aiutato a trovare un posto di lavoro in un momento di grave crisi, prima dell’avvento del nazismo: «accenno a questi fatti per mostrare come personalmente non odiassi gli ebrei, giacché tutta l’educazione che avevo ricevuto da mia madre e da mio padre era quella cristiana; mia madre, che aveva parenti ebrei, aveva idee diverse da quelle che dominavano negli ambienti delle SS». Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a

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pensiero non era prerogativa di una persona stupida, difatti per la nostra autrice Eichmann «non era uno stupido; era semplicemente un uomo senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo

predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo»76. È proprio

questa totale assenza di pensiero che catturò l’attenzione della nostra pensatrice. Se per la Arendt l’attività del pensiero è l’abitudine, che noi tutti abbiamo, di riflettere su tutto ciò che accade intorno a noi, e il non pesare equivale alla mancanza di giudizio critico su ciò che in quel momento avviene, allora Eichmann rappresenta colui che vive privandosi per scelta dell’esercizio dello spirito critico, un uomo privo di capacità immaginativa, che non elabora convinzioni proprie e non formula giudizi da solo, proprio perché il non pensare insegna agli individui a sottostare a regole già prescritte, abituandoli, così facendo, a non prendere mai una decisione autonoma.

Con Eichmann il male diventa perciò prerogativa di una vita priva di pensiero e di valori. Ciò che la Arendt scorgeva nell’imputato era un non pensare legato all’aver sempre agito all'interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Non pensando, Eichmann non era in grado di produrre dei giudizi morali su ciò che stava facendo: è proprio quest'incapacità di distinguere il bene dal male che ha permesso a uomini ordinari di commettere azioni malvagie di eccezionale portata. Tali atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere definita come una cieca obbedienza. Chiamato a difendersi di fronte alla corte suprema Eichmann dichiarerà animosamente di avere sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana del dovere, senza rendersi conto che questa escludesse

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a priori la cieca obbedienza, in quanto si basa sulla facoltà di giudizio dell’uomo. Arendt sottolinea con la forza del suo sarcasmo e della sua ironia che, in un’epoca di crimini legalizzati dallo Stato, quale era quella hitleriana, l’imputato, di fronte alla decisione della “soluzione finale” distorse la formula kantiana, per lui non più applicabile, in: «agisci in maniera tale che, se il Führer conoscesse le tue azioni, le

approverebbe»77. Insomma, per Eichmann, la volontà del Führer, veniva a sostituire

l’imperativo categorico, la sua volontà diventava "legge morale". Eichmann collaborò all’attuazione della soluzione finale compiendo con zelo il proprio dovere ed agendo contro le proprie inclinazioni. La Arendt nel testo del La banalità del male ci dona l’immagine di un uomo qualunque, privo però di quell’immaginazione che ci consente di immedesimarci nell’altra persona, che permette l’incontro/scontro con l’altro.

A questo punto, data l’innegabile discrepanza esistente tra la mediocrità dell'uomo e l'orrore delle azioni da lui commesse, possiamo ben capire come la teoria della “radicalità del male” non poteva essere più applicabile. Eichmann

divenne, per la nostra pensatrice, il sentore di un male definito da lei “banale78”,

come affermerà ella stessa nella lettera indirizzata aGershom Scholem nel 1963:

Ho cambiato idea e non parlo più di «male radicale». […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai «radicale», ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. […] Esso «sfida», come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità.79

77 Hannah Arendt, La banalità del male, cit., p. 143.

78 Il testo La banalità del male aveva suscitato un uragano di proteste e controversie. Tale problema

sorge anche dal significato quotidiano che si attribuisce al termine “banale” dato che possiamo intendere con questa parola sia qualcosa che non gode di un valore autentico sia qualcosa che non ha alle spalle delle cause profonde.

79 Hannah Arendt, “Eichmann in Gerusalemme”. Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e

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. Fu il maestro Karl Jaspers a far capire alla Arendt che era necessario «ricondurre le cose alla loro pura e semplice banalità e alla loro piatta nullità» difatti, continua il maestro in una delle sue innumerevoli lettere, «i batteri provocano epidemie capaci di annientare intere popolazioni, eppure restano batteri

nulla più»80. Sostenendo la “banalità del male” la nostra autrice desiderava

eliminare quella profondità che aveva caratterizzato il male de Le origini del totalitarismo. L’impatto con il processo Eichmann le permise di capire che il male, precedentemente pensato dall’autrice come estremo, radicale ed assoluto era invece un male privo di radici e spessore.

Ciò che rese possibile l’ascesa al potere del regime totalitario nazista fu il collasso della capacità di giudizio personale degli individui. È proprio questo che la Arendt voleva sottolineare con il testo de La banalità del male. La nostra autrice voleva mettere in primo piano la crisi dei valori che investì la sua epoca. Il male che ha caratterizzato il XX secolo, come sottolinea Corey Robin nella sua riflessione, nasce da istituzioni ordinarie delle società quali il carrierismo e il posto di lavoro. Nei regimi totalitari la paura diviene non solo mestiere ma soprattutto “carriera”: «le persone venivano pagate per fare questo mestiere, e promosse se lo

facevano bene»81. Dato che, in questi regimi, regnava il terrore c’era, di

conseguenza, la necessità di un agente che riuscisse a incutere tale passione, e