Capitolo III: Tra apolide e paria: il problema di chi vive senza “un posto nel mondo”.
5. Il Paria consapevole come elogio alla marginalità.
Fin dalle parti finali del libro dedicato a Rahel, la Arendt si concentra su figure che hanno fatto della loro marginalità uno strumento per la comprensione della propria epoca. Molti dei saggi della nostra autrice parlano di persone reali: amici, filosofi, intellettuali, poeti, che hanno in comune un rapporto estremamente complicato con il loro mondo. Tali personaggi, scrittori e poeti ebrei, rappresentano dei paria che hanno preferito rimanere nella marginalità e che hanno difeso con le unghie e con i denti la loro identità ebraica, sottraendosi alla possibilità di diventare un parvenu. Al posto di scegliere la via del conformismo, hanno deciso di coltivare la propria differenza. Queste figure raccontate dalla Arendt narrano l’ “eccentricità”
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di cui sono caratterizzati tutti i paria consapevoli, «un’eccentricità che lungi dal compiacersi di se stessa o dal venir ricercata assume quasi l’irreversibilità di un evento naturale. Un’eccentricità, dunque, che non significa tanto originalità, quanto
piuttosto marginalità»172, una marginalità che Hannah Arendt vuole a tutti i costi
celebrare.
Un paria che prende coscienza della propria condizione è appunto ciò che la Arendt definisce un “paria consapevole”, una figura che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente col racconto dell’anziana Rahel, rivendica la propria origine. Tale analisi prende il via dalle pagine dedicate dalla nostra autrice alla figura del
francese Bernard Lazare,critico letterario, giornalista politico, strenuo difensore di
Dreyfus e degli ebrei perseguitati. Lazare rivendicò non il diritto degli ebrei di
crearsi uno stato autonomo, come fece Theodor Herzl173, ma illoro diritto di vivere
in Europa possedendo eguali diritti senza dover rinunciare però alla propria identità ebraica. Detto in altri termini, reclamò il diritto del popolo ebraico di vivere in quanto tale nella società europea, sollecitando la loro coscienza di popolo paria. La Arendt afferma di lui in un saggio «non appena si trovò di fronte alla crescente ostilità della folla in tumulto, si rese immediatamente conto che da quel momento in poi sarebbe stato un reietto e accettò la sfida. Unico tra i sostenitori di Dreyfus,
svolse il proprio compito di ebreo consapevole»174. Lazare aveva capito fin
dall’inizio che non si poteva arrivare alla conquista dell’uguaglianza giuridica tramite l’omologazione e l’eliminazione delle differenze. Bernard Lazare infatti per la nostra autrice incarnava in pratica la trasformazione decisiva del “paria” in “paria
172 Hannah Arendt, Il futuro alle spalle, cit., p. VIII. 173 Theodor Herzl è il fondatore del movimento sionista.
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cosciente” perché nella sua vita aveva raggiunto la consapevolezza di essere ebreo e paria allo stesso tempo ed aveva fatto in modo che questa consapevolezza fosse un arma di resistenza con cui difendere la propria marginalità.
Le riflessioni fatte precedentemente sulla condizione dell’apolide e del paria hanno mostrato il problema di essere esclusi o inclusi nella comunità politica. Nei due saggi scritti dalla nostra autrice nel 1944, dedicati alla figura di K., protagonista di alcune delle più belle opere kafkiane, il paria cosciente si trasforma nello straniero, colui che si contrappone alla società e riesce a conservare la distanza che
separa il proprio sé dal mondo.Nell’interpretazione arendtiana dell’opera di Kafka
Il castello K. affronta tutti i problemi classici di un paria ebreo, in quanto vive nel mondo comune pur essendo un forestiero. Il protagonista, che non ha un’identità ben definita, vive all’interno della comunità del villaggio ma non per questo ne fa parte totalmente, è in qualche modo, come asserisce Ilaria Possenti, «straniero ma
non estraneo alla comunità in cui vive»175. Come afferma Kafka nella sua opera K.
non “è niente” perché non è classificabile in quanto non appartiene né al castello né al villaggio. Ma il protagonista, nonostante gli venga sempre rinfacciata la sua superfluità, richiede a voce alta il diritto di avere un posto nel mondo, esigendo soltanto ciò che dovrebbe spettare ad ogni persona: una casa, un lavoro, una famiglia, la possibilità di essere membro di una comunità, anche se essendo un forestiero lui non può godere della tutela dei diritti essenziali dell’uomo. K. rappresenta la storia di quei paria ebrei che pensano inizialmente di poter realizzare i propri sogni tramite l’assimilazione. Nel racconto di Kafka K. è il solo in questa condizione, il suo desiderio di essere indistinguibile dagli altri rappresenta per la
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nostra autrice il destino dell’ebreo che per vivere con gli altri doveva isolarsi dai suoi simili, difatti la volontà del protagonista di essere completamente anonimo rappresenta tutto ciò che il mondo si aspetta dagli ebrei: «il suo isolamento non è altro che la conseguenza del luogo comune che l’assimilazione possa realizzarsi senza traumi alla sola condizione che esistano dei singoli ebrei, che gli ebrei non si
raccolgano in combriccole».176
K. lotterà per i propri diritti rinunciando perfino alle varie “grazie” concessegli dai potenti del Castello. È proprio la sua volontà di stare al di fuori dei giochi di potere, il suo preferire una vita reale nel villaggio piuttosto dell’accontentarsi di una vita fatta di sole apparenze nel castello, che non viene compreso da gli abitanti del villaggio. Ma nel tempo K. si accorgerà che quella “normalità” da lui tanto desiderata, quei diritti dell’uomo che dovevano essere garantiti in quanto naturali, in realtà non esistevano neppure per gli abitanti del villaggio. Il protagonista era allora alla ricerca di qualcosa che secondo la sua idea doveva essere scontata, perché innata nell’uomo, ma che effettivamente risultava essere un’eccezione. Tutto ciò che appartiene all’uomo era stato sottratto loro dall’ “alto” del castello per essergli restituito come un dono.
Il protagonista capisce che la strada dell’assimilazione non può permettergli di realizzare i suoi diritti umani e tenta la strada della fuga interiore. K. proverà a rimediare alla sua mancanza di appartenenza con una libertà illusoria che lo allontana dall’unica libertà che interessa veramente alla Arendt, ovvero quella che si può avere nel mondo politico. La libertà del paria non ha senso perché tramite essa non è possibile realizzare qualcosa nel mondo comune: «in essa non ci sono
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aspirazioni, né spazio per il desiderio umano di realizzare qualcosa sulla terra, fosse
anche il solo organizzare la sua vita privata»177. Chi si sente lontano dalle regole
semplici e fondamentali dell'umanità, o chi sceglie di vivere in uno stato d'emarginazione, anche se costrettovi perché vittima di una persecuzione, non può vivere una vita veramente umana.
K. alla fine della sua vita muore senza aver raggiunto ciò che desiderava, ma la sua esistenza non risulterà essere un completo fallimento. La lotta per l’affermazione dei sui diritti senza alcuna intercessione dall’alto ha aperto gli occhi agli abitanti del villaggio, ha insegnato loro che vale ancora la pena lottare per i propri diritti e che l’autorità, qualunque essa sia, può essere contestata.
K. risulta estraneo alla comunità del villaggio perché rivendica i suoi diritti in quanto tali. L’intenzione di realizzare i diritti dell’uomo va oltre la semplice possibilità di una singola persona. Nella società contemporanea le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una carriera, ma non a soddisfare il bisogno elementare di vivere un'esistenza umana. Lo sforzo dell'agrimensore sarebbe coronato pienamente solo nell'ambito di un'esistenza politica. Manca un'esperienza comune nella quale K. o ogni uomo di buona volontà possa creare un cambiamento. Per Hannah Arendt, il protagonista rivendicando i suoi diritti, «dimostra di essere l’unico ancora in grado di concepire una semplice esperienza
umana sulla terra».178
La strada mostrata da K. rende palese che l’individuo non può vivere da solo
177 Ivi, p. 18.
112 perché:
Solo nell’ambito di un popolo l’individuo può vivere come un uomo fra gli uomini senza rischiare di morire per mancanza di forse. E solo un popolo in comunità con gli altri popoli può contribuire a costruire sulla terra un mondo umano creato e gestito dalla collaborazione fra tutti gli uomini.179
I personaggi costruiti da Kafka, pur muovendosi in una società in cui ognuno ha un ruolo ben definito, non hanno alcuna identità e scoprono nella realtà di tutti i giorni un mondo anormale. A Kafka, come ad Hannah Arendt, interessa un mondo determinato dalle azioni umane degli uomini, e non da una legge sovrannaturale, un mondo retto dalle leggi create dalla cooperazione degli uomini e non da forze misteriose. È di un mondo creato dagli uomini stessi che Kafka come paria consapevole vorrebbe far parte. Per questo, secondo Hannah Arendt, attraverso i suoi romanzi Kafka non fa altro che iniziare la distruzione di questo mondo, e dalle sue rovine fa emergere l’immagine di un individuo che con la sua buona volontà può costruire mondi nuovi. I personaggi kafkiani sono anonimi, secondo la nostra autrice, proprio per dare la possibilità ad ognuno di noi di essere quell’ “uomo di buona volontà”. I personaggi dei romanzi di Kafka diventano così per la nostra pensatrice l'incarnazione letteraria della lotta contro ogni concezione deterministica delle sorti umane e del mondo. Solo nel mondo plurale l'esistenza propria dell'uomo può manifestarsi come realmente libera. Gli eroi delle opere kafkiane sono l’espressione della libertà umana. E solo grazie alla presenza degli altri l'azione può sfuggire alla mortalità degli uomini.
179 Ivi, p. 21.
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I paria consapevoli sono persone che riescono a illuminare quelli che la
nostra autrice definisce i “tempi bui”, prendendo spunto dalla poesia di Bertold
Brecht A quelli dopo di noi180. Proprio a Brecht la Arendt dedicherà un saggio
scritto nel 1966 dal titolo Brecht: il poeta e il politico. Tale saggio è caratterizzato da una grande nostalgia, non solo per un grande amico ormai scomparso, ma soprattutto per la grandezza di un uomo che come pochi seppe parlare della sua esperienza di miseria ed esclusione senza però farne mai una lode. Nonostante le varie vicende drammatiche che costellano la vita di Brecht, dalle trincee della prima guerra mondiale fino all’esperienza di profugo a causa del totalitarismo hitleriano, lui rimane grato «per le meraviglie della vita al di là di ogni civiltà, per tutto quello
che la terra sa offrire con la sua semplice esistenza»181. È proprio nel saggio
dedicato a Brecht che scopriamo che quel ritrarsi dal mondo, interpretato dalla Arendt come una colpa del paria, permette a quest’uomo di creare le parole poetiche più belle, proprio perché la sua marginalità lo rende distante da tutti i vincoli e ruoli sociali. Brecht gode della capacità, di cui sono propri solo i grandi poeti, di saper condensare tutto in poche parole creando nuovi mondi difatti, Hannah Arendt è convinta che la poesia dei paria sia la più pura. I problemi del protagonista di questo saggio iniziano nel momento in cui decise di dedicarsi alla politica e di non essere più soltanto un poeta. È proprio in nell’attimo in cui Brecht rientrò nel mondo reale ed ebbe esperienza della sua attuale realtà politica che come dice la Arendt mancò a lui la voce del poeta.
La figura del paria cosciente rappresenta, per la nostra autrice, la via alternativa percorribile tra la possibilità di contrapporsi al mondo o di assimilarsi
180 In questa poesia Bechet identifica i tempi oscuri con il tempo dell’esperienza totalitaria. 181 Hannah Arendt, Brecht: il poeta e il politico in Il futuro alle spalle, cit., p. 127.
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ad esso. Il paria cosciente rappresenta un uomo dotato contemporaneamente di coraggio ed umiltà, un uomo che riesce a scoprire quel è il suo posto nel mondo, non rinnegando ciò che è, ma sottraendosi al giudizio degli altri in quanto non accetta di definire se stesso tramite esso. L’ebreo come paria cosciente perciò non è solo un reietto della società ma il “ribelle”, come si definisce alla fine della sua vita la stessa Rahel, che non accetta di subire passivamente l’oppressione sociale e riesce a trovare in questa situazione la spinta per una rivoluzione personale, riuscendo a trasformare questa forma di prevaricazione nei suoi confronti in una questione politica e, rivendicando la sua identità ebraica, lotta per la sua appartenenza al genere umano in quanto ebrea. Il paria consapevole è colui che, pur essendo posto ai margini dalla società, riscopre la sua posizione come una nuova possibilità, una possibilità di libertà. Il paria consapevole risulta essere colui che, come Lazare, chiede per il suo popolo eguali diritti, colui che ha capito che non può esistere libertà nell’assimilazione e che questa è soltanto una falsa strada per l’emancipazione.
Come abbiamo potuto notare in alcuni dei sui saggi Hannah Arendt ha messo in evidenza il suo elogio alla marginalità del paria cosciente, che non corrisponde ovviamente ad un’esaltazione della sofferenza o delle umiliazioni. Per la Arendt il paria è una figura prettamente politica. Incentrarsi su quest’argomento nell’epoca della seconda guerra mondiale significava, come afferma Enzo Traverso nel suo saggio Tempi bui, «toccare l’epicentro della crisi europea» e riflettere sulle
«aporie dell’assimilazione»182 in quanto proprio nel 1933 la condizione del popolo
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ebraico tornava ad essere, come nel periodo della vita di Rahel, quella di popolo paria.
La domanda da porci a questo punto, riprendendo Ilaria Possenti nel suo libro L’apolide e il paria, è come facciamo a vivere contemporaneamente da cittadini e da stranieri? come fare in modo che questa posizione del paria cosciente sia politicamente rilevante? Come si fa ad essere liberi pur continuando a stare dentro una comunità senza essere inclusi in una rigida identità collettiva o come si fa a star fuori senza però essere esclusi totalmente? Come all’interno di una comunità possiamo mantenere il lusso di essere stranieri?
Vivere con gli altri che hanno interessi ed idee diverse dalle nostre è una condizione imprescindibile della politica e pensare ad un mondo uniforme significa pensare un mondo senza politica. È proprio dalla condizione ebraica che Hannah Arendt inizia la sua riflessione sulla politica e la scoperta di non poter pensare all’infuori di essa.
Resta comunque costante nel pensiero arendtiano questa posizione ambivalente perché se da un lato la nostra autrice lottava per uno Stato che riuscisse a tutelare i diritti di tutti coloro che abitano un determinato territorio, compresi perciò gli ebrei stessi, dall’altro però è presente nella sua riflessione un continuo elogio alla marginalità come occasione di resistenza all’inclusione.
116 Capitolo IV: Il miracolo dell’azione.
1. “Perdita del mondo” come problema politico.
Come abbiamo precisato nel capitolo precedente, la riflessione arendtiana sulla politica nasce in un periodo determinato della vita della nostra autrice, più precisamente nell’anno 1933 quando, dopo l’incendio del Reichstag e l’avvio della cosiddetta custodia preventiva, come lei stessa afferma nell’intervista rilasciata a
Günter Gaus: «l’indifferenza non era più possibile»183. Ciò che lasciò una traccia
indelebile nella vita della Arendt, come del resto nella vita di ogni ebreo risiedente in Germania in quel periodo, non riguardava l’ascesa al potere di Hitler, che fu un avvenimento grave dal punto di vista politico ma non personale, ma l’assistere
inermi alla creazione di una sorta di «spazio vuoto»184 intorno a gli ebrei, come
conseguenza dell’allineamento politico185 da parte della popolazione, e soprattutto
dei propri amici, al potere nazista. Detta in altri termini la questione ebraica divenne una problematica politica dal momento in cui ciò che risultava essere in qualche modo politico divenne invece una faccenda personale. In quel periodo la Arendt era una giovane studiosa di filosofia e teologia immersa nell’ambiente intellettuale tedesco e tale esperienza le permise di capire che era giunto il momento di chiedersi che cosa lei, in quanto ebrea, poteva fare in una situazione come quella. Per questo decise di intraprendere un’attività pratica a favore degli ebrei. Una volta arrivata in
183 Hannah Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua. Una conversazione con Günter Gaus in
Antologia, cit., p. 4.
184 Ibidem.
185 Hannah Arendt utilizza il termine tedesco Gleichschaltung indicando con esso appunto
l’uniformazione politica all’inizio del periodo nazista motivata in genere dalla volontà di preservare il proprio posto di lavoro o dal bisogno trovare un impiego.
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Francia186 difatti collaborò con un’organizzazione sionista che si occupava di far
emigrare dei giovani ebrei di età compresa tra i 13 e i 17 anni in Palestina.
Il rapporto della nostra autrice con il movimento sionista risulta essere abbastanza ambiguo e complesso. Hannah Arendt seppe comprendere la forza innovatrice di tale movimento, infatti negli anni trenta intravedeva in esso l’unica possibilità da parte degli ebrei di poter diventare, per la prima volta nella storia, un soggetto politico pronto a rivendicare i propri diritti e a difendersi
dall’antisemitismo187. Ma a metà del 1940 al posto di un rapporto caratterizzato da
dialogo e collaborazione subentrò una presa di distanze da parte della nostra pensatrice, che iniziò ad assumere una posizione critica nei confronti del
movimento. La Arendt non divenne mai un’antisionista ma scelse la strada del
dissenso nel momento in cui quest’ultimo cominciò a lottare per la costruzione di uno stato israeliano basato sulla sovranità nazionale ebraica che, secondo il pensiero arendtiano, avrebbe prodotto inevitabilmente delle gravi ingiustizie nei confronti delle minoranze presenti in quel territorio. Lo stato ebraico creato in Palestina, secondo la Arendt, avrebbe portato, come difatti avvenne, solo a soluzioni disastrose. Nel 1951 ne Le origini del totalitarismo essa dichiarava: «dopo la guerra la questione ebraica […] venne in effetti risolta con la colonizzazione e la conquista di un territorio; ma lungi dal risolvere il problema delle minoranze e degli apolidi
186 Hannah Arendt fu arrestata per la prima volta a Berlino nel 1933, per poi essere rilasciata dopo
un breve periodo, a causa di una sua collaborazione con un’organizzazione sionista. Proprio in questo caso le fu chiesto di fare una raccolta di tutte le affermazioni antisemite che erano ricorrenti negli ambienti ordinari. Dopo tale avvenimento decide di lasciare la Germania, raggiunse il confine francese oltrepassandolo ovviamente illegalmente.
187 Negli anni trenta, è opportuno ricordarlo, la Arendt pensava ad una nazione ebraica, senza
territorio, appartenente ad un’Europa federata. La fiducia nell’idea di federazione che caratterizza il pensiero arendtiano risiede nella speranza che questo tipo di Stato avrebbe potuto eliminare le forme di nazionalismo ed affrontare il problema dell’apolidia.
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[…] tale situazione produsse una nuova categoria, i profughi arabi».188 In questo
passo la nostra autrice fa coincidere la fondazione di Israele con la nascita di una
nuova categoria di paria, ovvero i paria palestinesi189. Per la Arendt il paria risulta
difatti essere una condizione storica mutevole che ha bisogno di una soluzione politica190.
Abbiamo sottolineato in precedenza la posizione ambigua della Arendt per quanto riguarda la figura del paria, perché pur celebrandone la marginalità in molti dei suoi saggi, riesce a cogliere gli elementi negativi che caratterizzano tale condizione: l’esclusione dalla vita politica, l’invisibilità pubblica e di conseguenza la mancanza di diritti. La condizione di paria, come avvenne per il popolo ebraico, se persiste nel tempo corre il rischio di tramutarsi in quella che la Arendt definisce
come «reale acosmia»191 ovvero una radicale “perdita del mondo”.
Prima di concentrarmi su cosa la nostra autrice intenda con tale espressione vorrei cercare di mettere in chiaro la nozione arendtiana di mondo. Tale categoria