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Hannah Arendt: Essere unici e differenti in un sistema che ha reso l'uomo superfluo.

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Academic year: 2021

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‘O prufissuri Guastella, colui che mi ha insegnato ad AMARE la politica.

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Indice

:

Introduzione p. 4

Capitolo I: Terrore totale.

1. Paura, angoscia ed ansia p. 9

2. Terrore-orrore. p. 21

3. Terrore ed ideologia. p. 34

Capitolo II: Comprendere il male nella sua banalità.

1. Comprendere per riconciliarci. p. 45

2. Dal “male radicale” al “male banale”. p. 51

3. La banalità del male oggi. p. 68

Capitolo III: Tra apolide e paria: il problema di chi vive senza “un posto nel mondo”.

1. L’apolide, il senza patria p. 73

2. “Diritto ad avere diritti”: Un diritto di cui tutti dovremmo godere. p. 79

3. I “nuovi” profughi. p. 89

4. Il paria e il problema dell’assimilazione. p. 94

5. Il “paria consapevole” come elogio dalla marginalità. p. 107

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1. “Perdita del mondo” come problema politico. p. 116

2. Miracolo, azione e libertà. p. 123

3. Perdono e promessa. p. 132

Conclusioni p. 138

Bibliografia p. 145

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4 INTRODUZIONE:

Il presente lavoro di tesi nasce dall’esigenza di interrogarmi su alcuni problemi che affliggono la nostra contemporaneità. Per fare ciò ho deciso di confrontarmi con una delle autrici più importanti del panorama intellettuale novecentesco: Hannah Arendt, la pensatrice che ha speso tutta la sua vita nel cercare di comprendere la propria attualità. Tale idea è nata dopo la lettura di una raccolta di saggi intitolata Il Novecento di Hannah Arendt. Un lessico politico dedicata all’attualizzazione del pensiero arendtiano, a cento anni dalla sua nascita.

L’esistenza di Hannah Arendt è costellata da tragiche vicende, come l’ascesa dei regimi totalitari, la persecuzione nazista, l’invenzione della bomba atomica ed il suo utilizzo per radere al suolo le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, la guerra fredda e la corsa agli armamenti, il Vietnam ecc. ma nonostante tutto la pensatrice di Hannover non ha mai perso la fiducia nella possibilità, tramite l’azione di concerto degli uomini, di costruire un mondo migliore rispetto a quello del passato. Fuggita dalla Germania hitleriana vive come apolide per circa dieci anni fino all’approdo in America dove le verrà data la cittadinanza. Non ha mai negato la propria identità ebraica perché convinta che essa fosse un dato indiscutibile della propria esistenza, ed è proprio dal problema della sua appartenenza all’ebraismo che incominciò ad occuparsi di politica.

Ripercorrere alcune delle tappe fondamentali del pensiero arendtiano mi ha dato la possibilità di soffermarmi sugli eventi che hanno contraddistinto il novecento e che hanno lasciato una traccia tuttora visibile nel nostro tempo.

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Il primo capitolo del mio lavoro è dedicato all’analisi di quello che Hannah Arendt definisce come “terrore totale”. Dopo un breve excursus sul concetto di paura politica, ripercorrendo il pensiero di Hobbes, Montesquieu e Tocqueville, per mettere in evidenza le basi sulle quali la nostra autrice ha elaborato questa nuova forma di terrore. Ho cercato in seguito di mettere in rilievo la “perversa parentela” tra orrore e terrore resa palese dai campi di sterminio, in questi luoghi della morte dove si rende concreto l'orrendo esperimento dell'alterazione della natura umana finalizzata alla creazione del perfetto “cittadino totalitario”, un uomo ridotto a pura fisicità, un uomo perverso ed artificiale, in quanto è stata eliminata in lui la spontaneità, ovvero la capacità insita nell’uomo di dar inizio a qualcosa nuovo. Il terrore totale si manifesta nella sua assoluta novità in quanto privo di quella che viene definita logica mezzo-fine, è un terrore inutile che ha perso di vista il proprio scopo, ovvero quello di infondere paura. Il terrore diviene essenza stessa del regime totalitario, modalità permanente di vita che trasforma gli individui assoggettati al regime stesso in individui inconsapevoli. È proprio questo che costituisce per la Arendt l’originalità del governo totalitario, la sua specifica natura costituita dall’essenza terroristica che rende gli individui artificiosi ed inadatti all’azione e dal principio dell’ideologia che crea un mondo fittizio e coerente.

Il secondo capitolo invece è dedicato al cambiamento di rotta del pensiero arendtiano avvenuto tramite l’esperienza del caso Eichmann. Il male originato dai campi di sterminio, descritto dalla Arendt come assoluto e radicale in quanto non è più riferibile a motivazioni umanamente comprensibili, viene rielaborato ne le pagine de La banalità del male. L’impossibilità di equiparare un male di questa portata al soggetto che aveva avuto il compito di coordinare l’organizzazione ed il

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trasferimento degli ebrei nei campi di sterminio, permise alla Arendt di capire che il male non è radicale, ma banale perché scaturito dall’incapacità di pensare di uomini estremamente “normali”. Tale incapacità di azionare il pensiero risiede, per la nostra autrice, nell’incapacità di formulare giudizi propri al di fuori dei condizionamenti della società. Il terrore in questo testo diviene strumento che sfrutta il desiderio degli uomini di avanzare socialmente, di fare carriera; mentre l’ideologia ha invece il compito di intorpidire la morale dei singoli individui. Il male nella sua banalità si presenta perciò nel nostro tempo con attributi come conformismo, obbedienza ed inazione. Comprendere il totalitarismo è necessario per permettere all’uomo di riconciliarsi con un mondo in cui cose come il totalitarismo sono state rese possibili.

Nel terzo capitolo ho tentato di mettere in evidenza due figure che caratterizzano la riflessione arendtiana: l’apolide ed il paria, tramite cui la nostra autrice sottolinea la problematica relativa all’esclusione e all’inclusione dalla comunità politica. La condizione di apolidia, in cui si ritrovarono gli uomini sprovvisti della protezione di uno Stato (minoranze, senza patria, rifugiati) nel periodo che intercorre tra le due guerre mondiali, risulta fondamentale per la Arendt per l’elaborazione di una vera e propria critica dei diritti umani, pensati come inalienabili, irriducibili e assoluti, si scoprono invece fittizi se non sono garantiti da uno Stato. Hannah Arendt in questo contesto elabora il “diritto ad avere diritti”, un diritto universale ad essere cittadino, ad appartenere ad una comunità politica, ovvero a vivere in una struttura in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni. Tramite la figura del paria la nostra autrice ci mette in guardia dalle strategie assimilazionistiche, dalle forme fusionali in cui può avvenire l’inclusione alla

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comunità politica, che la Arendt rende manifesta nella sua opera giovanile dedicata a Rahel Varnhagen. Il capitolo si conclude con l’elogio da parte della nostra autrice alla marginalità del “paria cosciente” ovvero colui che riesce a scoprire quel è il suo posto nel mondo, non rinnegando ciò che è, ma sottraendosi al giudizio degli altri in quanto non accetta di definire se stesso tramite esso. Una marginalità interpretata dalla pensatrice di Hannover come forma di resistenza all’esclusione o all’inclusione.

Nel quarto ed ultimo capitolo ho cercato sottolineato la problematica della perdita del mondo in cui incorrono sia il paria che l’apolide interpretata dalla nostra autrice come problema relazionale e mondano. La perdita del mondo viene intesa come perdita dello spazio che intercorre fra gli uomini che li lega ma che contemporaneamente li separa, uno spazio pubblico che permette agli uomini di apparire e di essere riconosciuti. È proprio la politica, in quanto spazio che nasce tra gli uomini, che avrà il compito, secondo la nostra autrice, di preoccuparsi di tale mondo. Hannah Arendt, difatti, pensa ad una politica che si basa sulla condizione fondamentale della pluralità degli uomini e che regoli la vita di persone diverse. Se il senso del politico risiede nella libertà questo significa che è proprio nello spazio politico che ci si può aspettare dall’uomo l’inatteso e l’imprevedibile. L’esperienza della libertà appartiene al registro dell’azione. La rivalutazione della capacità miracolosa dell’agire, proposta dalla nostra autrice, intesa come una seconda nascita in quanto inserisce l’uomo nel mondo umano, non è altro che il riconoscere la capacità umana di dar vita a qualcosa di nuovo. Hannah Arendt sottolinea la rischiosità dell’azione stessa a causa della sua irreversibilità e dell’imprevedibilità.

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Ma all’interno dell’azione stessa sono inseriti due “dispositivi di controllo” che rimediano alle aporie dell’azione, ovvero il perdono e la promessa.

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9 Capitolo I: Dalla paura al terrore totale.

1. Paura, angoscia ed ansia

La comprensione e la critica del fenomeno totalitario da parte di Hannah Arendt prende il via dall'analisi di teorie e nozioni di autori del passato, quali Montesquieu e Tocqueville, presenti anche nelle sue letture durante la stesura de Le origini del totalitarismo. Allontanandosi sempre di più dal modello della paura politica hobbesiana, la nostra autrice riuscì ad unire, nella sua riflessione, la teoria del terrore dispotico di Montesquieu e il ragionamento sull’ansia di massa di Tocqueville che, connessi ad elementi reali dei regimi totalitari, riuscirono a farle concettualizzare una nuova forma di terrore, differente rispetto al passato, da lei definita come “terrore totale”. Dato che il terrore corrisponde ad uno dei vari stadi in cui si articola la paura a seconda dell’intensità da cui viene percepita dal soggetto, prima di poter parlare di questa nuova categoria politica non possiamo non soffermarci sul concetto stesso di paura e sul modo in cui Montesquieu e Tocqueville hanno influenzato la Arendt, per poter capire meglio a quali concetti di base l’autrice faccia riferimento nell’elaborazione del suo pensiero.

«La paura» come ci ricorda Elena Pulcini «è la passione primordiale e più antica; è la risposta più emotiva e originaria che […] caratterizza in modo peculiare

la vita e l’esperienza umana»1, è una passione per noi indispensabile, universale ed

impossibile da eliminare nonché uno dei nostri migliori strumenti di difesa, che ci permette di conservarci e preservarci da un pericolo, da un male o dalla morte

1 Elena Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri,

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stessa. Tale passione non scompare nel corso della storia, ma ha la caratteristica di declinarsi in modalità e tipologie differenti, perché non si ha e non si ha mai avuto paura nello stesso modo e della stessa cosa nel corso del tempo. Ogni epoca è contraddistinta da questa passione tanto che si potrebbe perfino parlare di una storia della paura stessa.

Nel mondo moderno tale sentimento diviene il fondamento del potere politico. In questo contesto è impossibile non citare Thomas Hobbes, il più grande pensatore politico del XVII secolo, che ha fatto della paura l’elemento cardine della sua filosofia, la passione che sta all’origine della vita condivisa tra gli uomini, il principio per la costruzione artificiale dello stato. Hobbes riuscì a comprendere fino in fondo l’uso politico che si poteva fare della paura e che quest’ultima fosse uno strumento importante, nel momento in cui fosse ben indirizzata, nelle mani di chi esercita il potere. All’origine dello stato hobbesiano vi è una nuova concezione della natura umana, diversa dal pensiero generalmente diffuso fino ad allora, secondo cui l’uomo è un animale socievole dalla nascita. Al contrario, per Hobbes la natura umana è fondamentalmente egoistica, in quanto composta dal desiderio naturale, che spinge gli uomini a richiedere l’uso esclusivo delle cose comuni, e dalla ragione naturale, la quale ci comanda di sfuggire alla morte violenta come il più grande dei

mali. L’autore inglese era allora persuaso dall’idea che il conflitto fra i singoli

individui fosse un dato naturale. Infatti il modello hobbesiano si fonda sulla “paura reciproca”, ovvero una paura derivata dalla condizione di uguaglianza tra gli uomini nello stato di natura, uno stato di guerra continua perché gli individui sono portati sempre ad affermare il proprio diritto naturale cioè la possibilità di ricorrere, per evitare la morte e conservare la propria sicurezza, ad ogni mezzo possibile;

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considerato che, in questo stato prepolitico, i mezzi posseduti dagli uomini sono per tutti gli stessi, gli individui tenteranno di sopraffarsi a vicenda, mettendo in atto una sorta di aggressione preventiva, dato che nello stato di natura la speranza che ogni uomo possiede nelle proprie forze e nelle proprie capacità è più forte del timore di soccombere. È appunto la paura della morte violenta, come paura razionale, che permette all’uomo di capire che la nostra vita, il nostro massimo bene, può essere preservata solo con l’uscita da questo stato di guerra tutti contro tutti. Dunque è

proprio grazie a questa «passione ragionevole»2 che gli uomini costruiscono la

società civile e politica, la quale avrà il compito di preoccuparsi della loro sicurezza e della loro incolumità. La costruzione dello stato, difatti, poggia sul passaggio dallo stato naturale allo stato civile, che corrisponde al passaggio da una “paura reciproca” ad una “paura comune” ovvero dall’aver paura dell’altro che minaccia costantemente la mia vita, all’aver paura, o ancor meglio terrore, dello stesso soggetto politico, il quale rende certe le sanzioni e le punizioni che seguono immediatamente dopo le trasgressioni delle leggi. Tramite un patto tra tutti gli uomini, nel quale ognuno cede il proprio diritto naturale ad un terzo soggetto, che diventerà l’unico depositario di tale diritto, si crea la figura del sovrano-leviatano a cui ogni cittadino si sottomette totalmente. La paura si configura allora come elemento imprescindibile, che caratterizza non solo lo stato di natura ma anche la vita collettiva ed è proprio dal sovrano assoluto che questa passione deve essere generata, alimentata ed indirizzata.

La paura che noi prenderemo in esame non è il sentimento prodotto dalle nostre esperienze personali, come lo può essere quella derivata da un evento

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particolare della vita di un uomo (per esempio la paura che io ho dei serpenti, che riguarda solo la mia sfera privata). È necessario concentrarsi, invece, su un altro tipo di paura che si definisce come politica. Per paura politica intendo, riprendendo la definizione fatta da Corey Robin:

l’espressione e il timore che la gente ha di vedersi infliggere un vulnus al proprio benessere collettivo […] nonché l’intimidazione esercitata dai governi o da altri gruppi strutturati nei confronti di uomini e donne», infatti questo tipo di paura «nasce dai conflitti all’interno di una società e tra società diverse.3

Perciò tale paura proviene dalla società ed ha ripercussioni su quest’ultima. Ciò che per la nostra indagine sarà fondamentale, è la comprensione profonda di questo sentimento: la paura può essere sì una passione ambivalente la quale può produrre effetti positivi o negativi, ma soprattutto essa, nel corso del tempo, ha avuto un ruolo fondamentale come strumento di potere. Concentreremo allora la nostra analisi sul nesso che esiste tra la paura e la politica. Secondo l’interpretazione di Corey Robin, la maggior parte dei pensatori moderni pur criticando la paura politica, in quanto nemica della libertà e della ragione, ne ammette l’utilizzo. Analizzando il pensiero di filosofi come Hobbes, Montesquieu, Tocqueville ma anche della stessa Arendt, per quanto riguarda la sua riflessione iniziale, si accorse che questi autori sono accomunati dal ritenere che la paura sia una fonte di energia rigenerativa indispensabile all’interno del settore politico perché è proprio tale passione che «ci

insegnerebbe la vera sostanza di determinati valori politici»4. Una volta minacciati

questi principi fondamentali, quali per esempio la sovranità della legge o l’importanza della democrazia, le generazioni future, non colpite direttamente dal pericolo di non godere di tali valori, ma impauriti dal rischio che una minaccia del

3 Corey Robin, Paura. La politica del dominio, trad. di G. Mangialaio, EGEA, Milano, 2005, p. 2. 4 Ivi, p. 5.

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genere si presenti in un futuro, dovrebbero adottare provvedimenti appropriati per tenere lontani questi mali dal loro presente. È proprio la paura di una catastrofe politica che, secondo questi pensatori moderni, dovrebbe spingere gli uomini all’azione perché senza nessun pericolo all’orizzonte, che generi tale passione, gli individui non riescono a perseguire gli ideali politici essenziali su cui dovrebbero riuscire ad erigere la politica stessa.

Secondo il pensiero hobbesiano, come abbiamo detto precedentemente, la paura risulta essere non solo il prodotto della complessa mediazione esistente fra passione e intelletto, ma anche l’elemento strutturale della vita collettiva degli uomini. Montesquieu ripenserà la tematica della paura politica in modo diverso rispetto al pensiero hobbesiano. La paura non verrà più concepita, dal noto pensatore francese, come passione ragionevole, che permette agli uomini di uscire da uno stato per loro distruttivo e di generare un’organizzazione politica che sarà garante della loro sicurezza, ma essa verrà reinterpretata come “terrore dispotico” privo di ogni tipo di fondamento razionale. Tale terrore non è altro che la risposta alla violenza del despota, il quale ha come solo scopo quello di soddisfare i propri desideri. La paura politica con Montesquieu diviene il risultato dell’espressione squilibrata della psiche del tiranno, difatti viene descritta da Corey Robin «come una passione corrosiva, che riduceva l’individuo a pensare esclusivamente al

pericolo della propria distruzione fisica»5. È un terrore, dunque, che si nutre di

individui spersonalizzati, di persone private del proprio sé e separate dal mondo. Al centro del regime dispotico vi è un “io distrutto” che non possiede più alcuna vita interiore perché privato di ogni tipo di impulso, spogliato della propria volontà ed

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individualità, espropriato perfino della sua capacità razionale. La persona in preda ad un terrore di questo tipo era privata perciò di tutte le peculiarità che permettono agli uomini di distinguersi gli uni dagli altri. Il terrore cosi delineato risulta essere un’esperienza totalmente spersonalizzante che non lasciava alcuno spazio alla differenza e alla pluralità. In pratica la vittima del terrore «Privata di obiettivi, fini, desideri autonomi […] spogliata di ogni peculiare relazione e condizione che ne

definisse l’identità personale» diventava «una creatura ridotta a pura fisicità»6. Il

terrore dispotico rappresentato da Montesquieu era legato ad un ambiente determinato e lontano dall’Europa. Era proprio questo distacco, la lontananza da quella paura politica, che doveva permettere agli uomini a lui contemporanei di puntare sugli ideali liberali grazie ai quali sarebbero riusciti a tenere a bada il distante ma reale spettro del terrore dispotico.

Montesquieu, come sottolineato in precedenza, influenzò molto il pensiero arendtiano. Per l’autrice il più grande merito di questo filosofo è stato l’aver spostato l’attenzione dalla questione della natura delle forme di governo, ovvero dal chiedersi che cosa rende un determinato governo ciò che è, al cercare di conoscere, invece, che cosa facesse agire un governo in un determinato modo piuttosto che in un altro, cioè al domandarsi quali siano le motivazioni, riguardanti le azioni umane, che riescano a mettere in moto uno specifico sistema politico e che possano servire anche a trasformarlo. Montesquieu fu il primo a riconoscere che un governo, oltre ad avere una propria struttura ed una propria natura, ha anche uno

6 Ivi, p. 69.

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specifico “principio di azione”7 che lo mette in moto e che regola sia le azioni dei

governati che quella dei governanti. Il filosofo francese indicò tre principi di azione, che riguardavano i tre tipi di governo degli uomini: il principio che muove la repubblica è la virtù, la quale viene identificata con l’amore per l’uguaglianza; quello della monarchia è invece l’onore, ovvero la passione per la distinzione; ed infine la paura che è il principio d’azione della tirannide. Montesquieu si rese conto che nella sfera pubblica le azioni degli uomini sono stabilite da determinati principi. Un’altra intuizione di questo autore, sulla quale la Arendt riflette, riguarda l’elemento comune che caratterizza i governi, il quale diviene insieme fondamento, struttura ed origine dei regimi politici. Montesquieu, nel suo pensiero, si sofferma sull'uguaglianza come elemento comune della democrazia, e sulla distinzione per la monarchia; però, pur avendo specificato il principio di azione nella tirannide, non si è preoccupato di specificare quale fosse il fondamento comune che caratterizza questa tipologia di governo. La Arendt si inserisce, allora, proprio all’interno di questo discorso per colmare tale lacuna, nel saggio La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione. La nostra autrice riflette sulla tematica della paura come principio d’azione e ne rileva il legame intrinseco con il sentimento dell’angoscia, passione che noi tutti proviamo quando ci sentiamo in una condizione di completo isolamento. Questo ci dovrebbe far notare come la nostra condizione umana sia legata alla gioia che proviamo nello stare insieme ai nostri simili e soprattutto

quanto abbiamo bisogno dell’altro per realizzare il nostro potere8. Questa angoscia

7 Il principio d’azione in Montesquieu è la passione umana che fa agire e muovere un determinato

governo, ovvero i moventi psicologici che inducono i membri di un determinato Stato ad obbedire alle leggi e quindi a consentire allo Stato stesso di sussistere e di durare nel tempo.

8 Da precisare che per Hannah Arendt il potere è la capacità umana di agire insieme, che può

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si trasforma in disperazione nel momento in cui comprendiamo che l’uomo da solo non ha alcun potere, difatti Hannah Arendt definisce, in questo saggio, la paura come «disperazione che nasce da un senso d’impotenza individuale in coloro che,

per qualsiasi ragione, si sono rifiutati di “agire di concerto”»9. Il suo ragionamento

ci spinge poi a dedurre che pensare alla paura come principio d’azione sia una contraddizione, perché «la paura», come abbiamo detto, «è esattamente la

disperazione che deriva dall’impossibilità di agire»10. Tutt’al più si può considerare

la paura come qualcosa di distruttivo e di antipolitico; infatti la tirannia viene rappresentata dalla nostra autrice come l’unica forma di governo che portava dentro di sé i semi della propria distruzione. L’isolamento è il fondamento comune su cui poggia questo tipo di governo ed è proprio dall’isolamento che nasce la paura stessa: «la tirannia, che si basa sull’impotenza esistenziale di tutti gli uomini una volta che siano stati isolati gli uni dagli altri, è il tentativo presuntuoso e insolente

di essere investiti individualmente del potere, in completa solitudine»11.Una delle

prime preoccupazioni del regime tirannico sarà il creare isolamento, che è l'inizio del terrore, il suo terreno più fertile ed il suo risultato ultimo. Ciò che caratterizza questo governo è perciò soprattutto l'impotenza degli individui stessi. In queste condizioni vengono interrotti i legami politici tra gli uomini, ma non tutti i contatti, basti pensare che la vita privata rimane intatta. La paura è sempre connessa all’isolamento: quando l’uomo è abbandonato o separato dagli altri ha sempre comunque uno spazio di interazione con i suoi simili, seppur limitato, cosa che

9 Hannah Arendt, La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione in Antologia. Pensiero,

azione e critica nell’epoca dei totalitarismi a cura di Paolo Costa, Giangiacomo Feltrinelli, Milano,

2011, p. 136.

10 Ibidem. 11 Ivi, p.137.

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invece non avverrà nei regimi totalitari, come vedremo successivamente. Secondo la Arendt Montesquieu sarebbe riuscito a comprendere non solo che la tirannia si basa sull’isolamento, del tiranno dal popolo e dei cittadini fra loro, ma soprattutto che l’isolamento stesso riesce a contraddire la condizione umana essenziale, ovvero la pluralità e di conseguenza l’“agire di concerto” degli uomini, è proprio per questo che la tirannide impedisce lo sviluppo del potere, inteso appunto come capacità di agire insieme.

Hobbes e Montesquieu hanno interpretato la paura politica come strumento utilizzato da chi detiene il potere (il monarca per Hobbes e il despota per Montesquieu). La loro idea venne modificata dal filosofo Alexis de Tocqueville, che, scrivendo dopo la rivoluzione francese, visse in un mondo caratterizzato dal costante mutamento, e per questo decide di sottolineare le ansie che tormentarono la sua generazione. Quest’autore si rese conto che a guidare gli episodi storici del suo tempo non erano più i singoli attori ma le masse ed in base a questa osservazione che ridefinì la paura politica come qualcosa che non proveniva più dall’alto, come lo era per i pensatori precedenti, ma dal basso, dalla psiche della massa stessa. Tocqueville trasformò il significato e la funzione della paura politica ridefinendola in termini di “ansia”. In questa condizione emotiva, non esiste un oggetto reale di cui aver paura, si ha timore invece delle inclinazioni psicologiche del nostro io, che pur di rimediare ad un senso di mancata coesione è disposto a conformarsi alla massa. In un mondo caratterizzato dal cambiamento e dall’insicurezza, come quello di Tocqueville, l’individuo è pervaso da un sentimento di smarrimento che genera ansia, uno stato psichico che, diversamente dalle paure politiche analizzate precedentemente, non poggia su minacce certe, come le punizioni del leviatano

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hobbesiano o le torture del dittatore di Montesquieu. Questa volta non esiste nulla di reale e di tangibile di cui avere paura. A causa della continua incertezza e dell’ansia perenne che ne segue, l’uomo, perciò, tenderebbe secondo Tocqueville, ad uniformarsi alla massa, non a causa della repressione dello Stato, ma per la propria debolezza psicologica, in modo tale da poter trovare sicurezza nell’unione con i suoi simili. È proprio questo tipo di ansia che nasce non dai governanti, ma dalla condizione esistenziale dell’uomo che verrà ripresa dalla Arendt, seppur in modo differente. La ridefinizione in termini di ansia della paura operata da Tocqueville permette di considerare questa passione non più come «uno strumento

del potere» ma piuttosto come «condizione psichica permanente della massa»12.

Come ci fa notare Corey Robin, nel corso del tempo si erano andati deteriorando i legami che contraddistinguevano le società premoderne. Le gerarchie davano all’uomo un senso profondo e stabile di coesione e a causa dell’assenza di queste ultime gli individui diventavano sempre più insicuri di se stessi e dell’ambiente che li circondava. Tali vincoli potevano costituire delle enormi limitazioni, ma generavano sentimenti di forte aggregazione ed all’interno di esse, gli uomini non potevano sentirsi mai soli. A causa dell’uguaglianza generata dalla mancanza di questi legami sociali si viene a rafforzare in essi il senso di isolamento e di insicurezza; era compito dello Stato fronteggiare tale situazione ed essere garante della creazione di una solida struttura che permettesse all’uomo di non sentirsi solo. L’ansia difatti era la condizione generale della solitudine di uomini e donne prodotta da uno stato di uguaglianza. Hannah Arendt quando cominciò a indagare le ragioni

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del fascino di Hitler e Stalin sulle masse, «ripartì proprio da qui, sostenendo che era

stata l’ansia delle masse a spingerli al potere»13.

Hannah Arendt riprese allora da Montesquieu l’idea che la paura rendesse l’io più piccolo perché limitato dal terrore e da Tocqueville la rappresentazione di un “io ansioso” che, a causa della propria debolezza psicologica, era pronto ad uniformarsi alla massa e a sottomettersi ad essa. Difatti, la nostra autrice, ne Le origini del totalitarismo, descrive la massa non come un gruppo politico o sociale, ma come una disposizione patologica della personalità, una massa, che come i suoi componenti, era priva di interessi ed obiettivi:

Il termine massa si riferisce a gruppi che […] non possono inserirsi in un’organizzazione basata sulla comunanza di interessi […] Potenzialmente, essa esiste in ogni paese e forma la maggioranza della folta schiera di persone politicamente neutrali che non aderiscono mai ad un partito e fanno fatica a recarsi alle urne.14

Ciò di cui parla la Arendt, come possiamo ben capire dalla sua descrizione, è una massa apolitica in quanto gli individui che la compongono sono spinti ad una organizzazione collettiva pur non avendo alcuna attitudine comune. Allora, la domanda che potremmo porci è come mai questa massa riesce a generare quelli che verranno definiti movimenti totalitari? La risposta è semplice, l’uomo di massa, caratterizzato da un repentino isolamento, era attirato da tali movimenti perché solo questi ultimi riuscivano a dare una risposta all’ansia che nasceva dall’isolamento dell’uomo stesso. È l’ansia della massa a produrre movimenti politici che sostenevano il terrore totalitario; infatti, come afferma la nostra autrice: «I

13 Ivi p. 92.

14 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. Amerigo Guadagnin, Einaudi, Torino, 2009,

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movimenti totalitari mirano a organizzare le masse […] essi fanno leva sulla nuda

forza numerica»15, dato che i regimi che si istaureranno sono possibili solo in quei

luoghi dove è presente un’abbondanza di masse umane che potevano essere sacrificate senza effetti demografici devastanti. Hannah Arendt riprese la tesi di Tocqueville sull’ansia, modificandola per poterla applicare al suo contesto storico, ovviamente diverso rispetto a quello di Tocqueville. L’ansia della massa arendtiana non nasce dall’uguaglianza, ma poggia le sue basi su sentimenti quali lo sradicamento e l’isolamento, che lei chiamerà rispettivamente superfluità e solitudine. Tali sentimenti appaiono più radicali rispetto al passato perché, nell’epoca della produzione di massa, gli individui soffrono dell’umiliazione di non sentirsi più indispensabili, in quanto ridotti al semplice lavoro anonimo della catena di montaggio o addirittura alla disoccupazione. È la superfluità che genera, nei componenti della massa arendtiana, il sentimento di solitudine. La solitudine è diversa dall'isolamento perché quest'ultimo nasce dall’eliminazione della nostra capacità di agire nella sfera politica (abbiamo detto l'agire di concerto). Invece gli uomini soli, contemporanei alla nostra autrice, non riuscivano neppure a fare

esperienza della realtà che li circondava.Le masse, come ci ricorda la Arendt:

Si formarono dai frammenti di una società atomizzata, in cui la struttura competitiva e la concomitante solitudine dell'individuo erano state tenute a freno soltanto dall’appartenenza ad una classe. La principale caratteristica dell’uomo di massa non era perciò né la brutalità, né la rozzezza ma l’isolamento e la mancanza di relazioni sociali.16

Ed è proprio dall’analisi di questa tipologia di massa che la Arendt darà vita alla sua tesi, originale, sul totalitarismo e sul terrore totale.

15 Ivi p. 427.

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21 2. Terrore-orrore

Dopo esserci occupati, nel paragrafo precedente, delle basi su cui poggia il pensiero arendtiano, si rende necessario approfondire la riflessione dell’autrice sul concetto di terrore totale. Per far ciò, sarà per me fondamentale concentrarmi sull’analisi del termine “terrore”. Questo mi permetterà di mettere in evidenza la differenza che esiste tra i governi terroristici del passato ed i regimi totalitari e di conseguenza capire perché Hannah Arendt abbia dovuto introdurre un nuova categoria nel suo lessico politico per parlare di terrore all’interno di tali regimi.

Il vocabolo terrore, che indica una forte sensazione di paura incontrollata,

deriva dai verbi latini terreo e tremo, i quali hanno origine, a loro volta, dai verbi

greci tremo e treo. Entrambi contraddistinti dalla radice ter, che indica il tremare, riguardano lo stato fisico della paura, perciò il corpo che, in preda al terrore, è scosso e si muove. Questa definizione pone l’accento sulla nostra reazione corporea, derivata dalla paura, dinanzi ad un dato pericolo; ci riferiamo, in questo caso, alla nostra risposta fisiologica, involontaria e perciò fuori dalla portata del nostro controllo di fronte a qualcosa di reale o immaginato che ci minaccia. Il tremare però non si riferisce solo a un tipo di movimento prettamente locale, ma allude anche al moto del fuggire, dello scappare dal pericolo stesso. Il termine terrore denota insieme infatti il tremare e l'allontanarsi dal pericolo; per dirla con le parole di Adriana Cavarero: «Fra molti modi dell’esperire la paura […] il terrore indica quello che agisce immediatamente sul corpo, facendolo tremare e

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spingendolo ad allontanarsi con la fuga»17. Ci riferiamo, infatti, a una minaccia che

ci riguarda, un rischio a cui cerchiamo di sottrarci scappando per aver salva la vita, per sopravvivere, per preservarci dal rischio di una morte violenta.

Il terrore, oltre ad essere una reazione fisiologica che proviamo di fronte ad un pericolo, è stato utilizzato dai governi come strumento politico, a scopo intimidatorio, per indurre le persone alla sottomissione. Esso si è manifestato nel corso della storia in modi profondamente differenti e forme notevolmente variegate. È la stessa Hannah Arendt che, nel saggio Umanità e terrore, elenca le varie tipologie di regimi terroristici che la storia ha conosciuto. La nostra autrice, sempre in questo saggio, si preoccuperà di sottolineare che sarà proprio compito della scienza politica cercare di capire le differenze esistenti fra tali tipi di regimi e comprendere in che modo questi ultimi hanno assegnato al terrore funzioni diverse. Impiegato, di solito, per annichilire le capacità di reazione degli individui e per eliminare ogni forma di socializzazione tra i membri di una data comunità, il terrore ha avuto lo scopo di diffondere la paura e gestirne gli effetti. Difatti, per esempio, il terrore utilizzato nelle tirannie dopo aver eliminato la vita pubblica, trasformato i cittadini in individui privati di ogni legame tra loro, isolandoli gli uni dagli altri (si veda il terrore di cui parla Montesquieu) arriverà alla sua conclusione proprio quando riuscirà ad imporre al paese una pace innaturale; lo stesso vale per il terrore rivoluzionario il quale viene impiegato per eliminare le opposizioni ed una volta soppresse queste ultime anche tale terrore giungerà al suo termine. Ciò che accomuna queste forme di governo terroristiche non è, come si potrebbe pensare,

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l’elevato numero di vittime, ma il fatto che il terrore, una volta raggiunto un determinato scopo, si esaurisce definitivamente. Il terrore è in questi casi una strategia politica che mira a trasmettere paura, canalizzare verso un fine preciso i propri effetti ed arrivare ad uno scopo prefissato. In quanto contraddistinto dal suo utilizzo per raggiungere un determinato esito, possiamo dire che questo tipo di terrore politico si inserisce in quella che potremmo definire la logica mezzo-fine. Ed è proprio a questo punto che diventa evidente la diversità del terrore totalitario rispetto ai terrori del passato, perché ciò che manca al terrore totale, elaborato dalla Arendt, è proprio questa logica utilitaria. Abituati come siamo a pensare dentro a determinati schemi strumentali, non riusciamo a comprendere il terrore totale proprio per la mancanza di tale logica. Il totalitarismo si distingue dagli altri regimi proprio perché il terrore viene utilizzato solo inizialmente per eliminare avversari politici o per mettere a tacere l’opposizione, ma diverrà all’interno di questi regimi

lo strumento permanente con cui governare masse assolutamente obbedienti. In

passato, il terrore si basava sull’impiego della forza al di fuori della sfera della legge, che aveva invece il compito di difendere la libertà e i diritti dei cittadini, nei regimi totalitari non sarà più così. Data questa assoluta novità, allora la questione del terrore all’interno di tali regimi deve essere posta in maniera totalmente differente rispetto al passato perché anche se, come i vecchi governi terroristici, esso è stato inizialmente impiegato con lo stesso scopo, il vero terrore totale si instaura solo dopo aver sterminato ogni tipo di concorrenza ed opposizione, è proprio in quel momento che, secondo la Arendt, il terrore raggiunge la sua apoteosi e diventa totale: «Il terrore autenticamente totalitario, si instaura solo quando il

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regime non ha più nemici da arrestare o torturare sino alla morte e anche diversi

gruppi di sospettati sono stati eliminati».18

Il terrore perciò resta attivo anche dopo l’eliminazione dei dissidenti, l'annientamento delle opposizioni attive e passive, perché è utilizzato, nei regimi totalitari, continuamente per governare. Soltanto dopo l’eliminazione dei nemici, reali e potenziali, inizia la caccia dei “nemici oggettivi”, ovvero coloro che saranno avversari del regime per definizione ideologica, la cui identità sarà determinata dall’orientamento politico del governo stesso quindi, in quanto scelti a discrezione della volontà del leader totalitario, capo ed interprete della volontà del movimento, quest’ultimo potrà decidere di cambiare “nemico” in base alle esigenze del regime.

Il terrore in queste condizioni non è più uno strumento politico, ma essenza19 stessa

del regime totalitario. Diminuendo l’opposizione anche il terrore dovrebbe diminuire invece si intensifica dirigendo la sua bussola verso vittime innocenti che sono a tutti gli effetti inconsapevoli dei motivi per cui sono perseguitate. Il metodo utilizzato per l’eliminazione di sei milioni di vite umane, condannate a morte nella completa impotenza, è stato quello dell’accumulazione del terrore che terminò con la creazione delle fabbriche della morte, dove si cessava di vivere come individui gli uni diversi dagli altri in quanto, all’interno dei lager, le persone venivano ridotte «al minimo comun denominatore della vita organica stessa, sprofondati nell’abisso

18 Ivi p. 98.

19 L’essenza di un governo è stata definita fin dagli arbori del pensiero politico occidentale secondo

la categoria della legalità/illegalità, legalità nel senso di governo di diritto (monarchia) o governo costituzionale (repubblica), invece illegalità, arbitrarietà nel senso di regimi del terrore (tirannidi/dispotismi e totalitarismi). Per la Arendt il totalitarismo ha fatto saltare l’alternativa stessa su cui si sono basate, fino a questo punto, le definizioni della natura del governo. Perché il regime totalitario è illegale in quanto sfida il diritto naturale, ma non è arbitrario perché esegue la legge della Natura o della Storia, come vedremo in seguito.

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più profondo e cupo dell’uguaglianza originaria»20. Questo tipo di terrore si attua

quando viene superato il primo stadio di ordinaria violenza, quando quest’ultimo uscito dalla logica tradizionale dei mezzi-fini non ha più alcuno scopo. Come sottolinea Adriana Cavarero, la Arendt con «la categoria di terrore totale, va a individuare il punto di divaricazione, ma anche di perversa parentela, fra terrore ed orrore»21.

Ma cos’è l’orrore? Come abbiamo già fatto per il termine terrore, ricerchiamo l’etimologia di tale parola. Il vocabolo orrore denota un forte sentimento di ribrezzo, provocato da ciò che appare crudele e ripugnante ed indica uno stato di paralisi fisica. Ricollegandoci al terrore, possiamo notare come quest’ultimo abbia una logica totalmente diversa, potremmo dire opposta, a quella dell’orrore perché, ricordiamolo ancora, il terrore ci fa tremare e ci spinge a scappare mentre l’orrore, al contrario, ci blocca e non ci fa agire. Questo vocabolo deriva dal termine greco horreo che si riferisce alla sensazione fisica che fa accapponare la pelle (la cosiddetta pelle d’oca) e rizzare i capelli. Data tale definizione possiamo dedurre che l’orrore più che riguardare la sfera della paura appartiene invece alla logica della ripugnanza, del ribrezzo che noi proviamo di fronte alla violenza, la quale non solo uccide il corpo, ma ne distrugge l’unicità. «Ciò che è in gioco», dice Adriana Cavarero, «non è la fine di una vita umana, bensì la condizione umana stessa in quanto incarnata nella singolarità dei corpi

vulnerabili»22. L’unicità dell’uomo, per la Arendt, risiede nella sua nascita perché

con ogni nascita viene alla luce un essere unico, completamente diverso dagli altri.

20 Hannah Arendt, L’immagine dell’inferno in Antologia, cit., p. 50.

21 Adriana Cavarero, op., cit., p. 57. 22 Ivi, p. 15.

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In questo contesto non parliamo però di nascita fisica, ma trattiamo di quella nascita che ha luogo quando l’individuo con la parola e l’azione si inserisce nel mondo

umano23. Ogni persona che nasce è perciò per la nostra autrice unica e nel momento

in cui si espone agli altri mostra anche la sua vulnerabilità: è proprio questa esposizione all’altro a renderci unici.

La parola orrore viene utilizzata, nelle opere della Arendt (anche se non ce ne dà mai una vera definizione), nelle situazioni riguardanti i campi di sterminio. L’orrore estremo che proviamo quando sentiamo parlare dei lager o vediamo immagini che li riguardano, è suscitato in noi dall’enorme macchina costruita per lo sterminio di massa, al cui servizio venne impiegato un intero popolo, nel caso del totalitarismo nazista. Chi ebbe un ruolo determinante nell’organizzazione di tale

massacro fu Heinrich Himmler24. Ma chi era effettivamente quest’uomo? Non era

né un maniaco, né una persona folle o sadica, come potremmo pensare, ma un uomo semplice e diligente. Proveniva da un’ordinaria famiglia borghese bavarese, studiò all’università, riuscì a diplomarsi, ma, a causa delle condizioni precarie dell’immediato dopo guerra, quando le prospettive lavorative erano scarsissime, Himmler divenne un uomo frustrato, alla deriva, insicuro, alla ricerca di un senso e uno scopo nella vita, che ottenne grazie all’adesione al partito nazista. È proprio ad un uomo semplice e rispettabile che si deve «la creazione di un’organizzazione terroristica senza precedenti, diffusa in tutto il paese» e formata «per lo più da

23 Ci troviamo dinanzi alla categoria, importantissima nel pensiero arendtiano, della natività.

Indispensabile come vedremo successivamente nel suo pensiero politico.

24 Heinrich Luitpold Himmler capo delle SS dal 1929, comandante della polizia dal 1936 e delle

forze di sicurezza (RSHA) dal 1939. Nel 1943, venne nominato ministro dell'Interno del Reich. Catturato dalle forze inglesi per essere giudicato come criminale di guerra dal Tribunale militare internazionale di Norimberga, si suicidò con del cianuro il 23 maggio 1945.

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lavoratori e onesti padri di famiglia»25. Nel corso del tempo, il buon pater familias,

interessato solo alla sicurezza della sua cerchia privata, si è trasformato, a causa delle condizioni economiche, in un individuo capace di qualsiasi cosa, disposto a sacrificare le proprie convinzioni, il proprio onore e anche la propria dignità, pur di trovare un posto di lavoro e di salvaguardare la tranquillità della propria famiglia. Ci troviamo dinanzi ad un individuo capace anche di uccidere se sgravato da ogni responsabilità dei propri atti. Tali uomini, pur avendo collaborato allo sterminio, all’accusa di omicidio rispondono di non aver fatto nulla, di non aver mai ucciso un uomo e l’aspetto orribile di tale vicenda è, come afferma la Arendt nel saggio Colpa organizzata e responsabilità universale, che le cose stanno esattamente così. Mi piacerebbe citare, in questo contesto, l’esempio riportato dalla nostra autrice proprio in questo saggio, del corrispondente americano Raymond A. Davies, il quale fu il primo a fornire una testimonianza dal campo di sterminio di Maidanek:

D. Avete ucciso delle persone nel campo? R. Si. D. Le avete uccise col gas? R. Si.

D. Le avete sepolte vive? R. È capitato.

D. Le vittime provenivano da tutta Europa? R. Penso di si

D. Lei personalmente ha ucciso delle persone? R. Assolutamente no. Ero solo l’ufficiale pagatore del campo.

D. Quale era la tua opinione su ciò che stava avvenendo intorno a lei? R. Inizialmente è stata dura, poi ci siamo abituati.

D. È consapevole del fatto che i russi la impiccheranno? R. (Scoppiando in lacrime) ma perché? Che

cosa ho fatto?26

Himmler rappresenta l’uomo di massa che si mette completamente a disposizione come strumento di qualunque orrore, dato che l’unica responsabilità che riesce a percepire è quella nei confronti della sua famiglia, avendo separato totalmente la propria vita privata da quella pubblica: «quando il suo lavoro lo

25 Hannah Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale in Antologia, cit., p. 45. 26 Ivi, p. 44.

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costringe a uccidere delle persone non si considera un assassino perché non agisce secondo la propria inclinazione, ma si limita a svolgere le mansioni assegnategli.

Se fosse per lui non farebbe male a una mosca»27. Come possiamo definire, in

questo contesto, chi è veramente colpevole? Il totalitarismo è stato in grado eliminare i confini esistenti tra criminali e persone normali, tra colpevoli e innocenti, ma per la Arendt non ha alcun senso parlare di “colpa collettiva” perché affermare che tutti sono colpevoli equivale a dire che nessuno lo è davvero. L’unica cosa che abbiamo la possibilità di fare è ricercare nei singoli casi la responsabilità individuale di ogni persona.

Dopo che i regimi totalitari hanno sconvolto il mondo intero, non è più possibile utilizzare normalmente la categoria del terrore. C’è bisogno di una nuova categoria più adeguata alle esigenze poste da tale fenomeno storico. È proprio questo passaggio da “terrore” ad “orrore” a cui ci riferiamo, quando parliamo di terrore totale all’interno dei campi di sterminio. Dato che il terrore non si esaurisce con l’eliminazione dell’opposizione, anzi aumenta, cresce e si dirige verso e contro persone totalmente innocenti, perciò contro milioni di vittime scelte con totale arbitrarietà, dal momento in cui il terrore ha completamente perso di vista il proprio scopo, ovvero quello di infondere paura alle persone, la Arendt decide di introdurre all’interno del suo lessico politico la nuova categoria del terrore totale: «si tratta di un terrore non più utile, anzi, al limite, inutile, controproducente. E, in questo senso,

dal punto di vista della storia stessa del terrore, inspiegabile»28. È proprio questo

27 Ivi, p. 47.

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tipo di terrore che andrà a coincidere con la forma più estrema di orrore, un terrore che si tradurrà, perciò, in un orrore estremo.

Per comprendere meglio il concetto di “terrore totale” risulta necessario rinviare la nostra analisi al paragrafo dedicato ai campi di concentramento contenuto ne Le origini del totalitarismo. Come sappiamo, i campi di

concentramento non sono stati un’invenzione dei regimi totalitari29 e vennero

utilizzati in un primo momento da questi ultimi, per accogliere i cosiddetti sospettati, coloro che non potevano essere condannati dato che non avevano commesso alcun reato (elementi indesiderabili o persone in custodia preventiva). I campi di concentramento si basano sul principio del “tutto è permesso”, ma sono ancora legati a logiche utilitarie oppure ad interessi dei governanti stessi. Lo spostamento all’orrore estremo avviene invece nei campi di sterminio, dove gli individui vengono ridotti a mera eccedenza, a vera superfluità. I campi di sterminio vengono descritti dalla Arendt come i “laboratori” in cui si vuole rendere reale il principio secondo cui “tutto è possibile”. Sebbene questi campi inizialmente abbiano svolto la funzione di centri di terrore politico, il regime dei lager non può più essere definito entro schemi terroristici, perché non è più un regime di semplice terrore ma di vero e proprio orrore; difatti all'interno di questi laboratori la violenza e la tortura non potevano più essere percepite dalle vittime perché «i lager servono […] a compiere l’orrendo esperimento di eliminare […] la spontaneità stessa […]

e di trasformare l’uomo in oggetto»30.

29 I campi di concentramento apparvero per la prima volta durante le guerre boere o guerre

anglo-boere che ebbero luogo in Sudafrica, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, e videro la contrapposizione tra gli inglesi e i coloni sudafricani di origine olandese, detti boeri.

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La realtà dei campi di sterminio è servita a dimostrare che l'uomo, annientate prima le sue varie personalità, è riducibile ad un “fascio di reazioni”: ciò che resta sono “sinistre marionette dai volti umani”. La Arendt li paragona al cane dell’esperimento di Pavlov, il quale era stato ammaestrato ad avere fame solo quando suonava la campana, era, in pratica, un animale pervertito, un animale che in natura non sarebbe mai esistito: «il cane di Pavlov, esemplare umano ridotto alle reazioni più elementari, eliminabile o sostituibile in qualsiasi momento con altri fasci di reazione che si comportano in modo identico, è il cittadino perfetto di uno

stato totalitario»31. Solo nei campi questi esperimenti divengono possibili,

completamente isolati dall'esterno per preservare il loro mondo surreale, riescono a creare artificialmente un uomo che in natura non potremmo mai trovare. Nei lager i prigionieri sono già “cadaveri viventi”, tagliati completamente fuori dal mondo dei vivi (sottratti anche alla loro vista e di conseguenza alla loro protezione) perché, come ricorda la nostra autrice, questo tipo di terrore impone il completo oblio, l’eliminazione dell’esistenza, anche precedente, dei deportati. L’intento era quello di produrre una massa di cadaveri, ancora vivi, indistinguibili l’uno dall’altro tanto che all’interno di questi campi «l’omicidio» divenne «impersonale quanto lo

schiacciamento di una zanzara»32. Ciò che per noi è intollerabile, ciò che non

riusciamo proprio a comprendere è questa, apparente, aperta inutilità dei campi, tanto incomprensibile che ci dà l’impressione che tutta questa impresa sia soltanto una folle irrealtà.

31 Ivi, p. 624.

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Dell’orrore estremo fanno parte anche tutti quei processi che portano alla creazione di cadaveri ambulanti. Il processo di “spersonalizzazione” dell’uomo, che porterà al suo dominio totale, viene ricostruito dalla Arendt nelle pagine de Le origini del totalitarismo ed inizia ancor prima della deportazione nei lager. Si assiste dapprima all'annientamento della personalità giuridico-politica, poi alla soppressione della personalità morale ed infine all'eliminazione dell'individualità unica e singolare che caratterizza ogni uomo. La negazione della personalità giuridica risulterà il primo passo fondamentale per il dominio assoluto della persona stessa. L’eliminazione del soggetto di diritto è stata eseguita tramite la creazione di condizioni che resero possibile il porre una determinata schiera di persone al di fuori dalla protezione della legge, tramite per esempio la snazionalizzazione o l’eliminazione di ogni status giuridico, compreso anche quello di criminale, tanto che gli arrestati venivano condannati senza aver fatto nulla né di giusto né di sbagliato; il passaggio successivo prevedeva la soppressione della personalità morale, attuata rendendo anonima la morte ed impotente la coscienza, gli uomini erano costretti a non poter scegliere tra bene o male, ma solo tra un male ed un altro. Costoro non potevano preferire neppure la morte perché il suicidio di un singolo corrispondeva alla soppressione di altre vite umane, venivano cosi coinvolti nel crimine che stava per essere commesso contro di loro. Come potrebbe mai decidere un uomo in una condizione del genere? «Il terrore totalitario» come dice la Arendt «ottenne il suo più terribile trionfo quando riuscì a precludere alla personalità morale la via d’uscita individualistica e a rendere le decisione della coscienza

assolutamente problematiche e ambigue»33. L’ultimo gradino per arrivare al

33 Ivi, p. 619.

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dominio totale dell'uomo, era l’eliminazione della peculiare identità degli individui, ottenuta tramite l’eliminazione della spontaneità, della capacità di pensiero ed azione degli uomini. L’annientamento dell’individualità avveniva dal trasporto nei lager: gli individui venivano stipati in vagoni come bestie per giorni, continuava all’arrivo nei campi con la rapatura e la divisa “grottesca” e finiva con torture che non uccidevano il corpo rapidamente (la morte era evitata o rimandata indefinitamente), in modo tale che quest’ultimo potesse essere manipolato in tutte le infinite possibilità di sofferenza. «Il vero orrore cominciò», afferma la nostra autrice, quando si realizzò la «distruzione assolutamente fredda e sistematica di

corpi umani, intesa per annullare la dignità umana»34. La concentrazione degli

esseri umani, ammassati e legati solo dal vincolo del terrore, distrugge ogni tipo di relazione, ogni distinzione dell’uno dall’altro, e, soprattutto, elimina l’individualità; «distruggere l’individualità» equivale a «distruggere la spontaneità stessa, la

capacità di dare inizio con i propri mezzi a qualcosa di nuovo»35. Nei lager non

moriva nessuna persona specifica, nessuna identità inconfondibile, ma un esemplare della specie homo sapiens, indistinguibile dagli altri. Questo va al di là dell’orrore suscitato dall’uccisione di milioni di vite umane, in quanto l’orrore riguarda piuttosto, come abbiamo detto, l’uccisione dell’unicità umana. Si tratta, secondo la Arendt, di un vero attacco «alla materia ontologica che, trasformando

esseri unici in una massa di esseri superflui, toglie ad essi anche la propria morte»36.

Nei lager viene a cessare quella distinzione fondamentale tra il vivere e il morire, è

per questo che viene ripresa l’immagine dell’inferno37, nel suo senso tradizionale,

34 Ivi, p. 621.

35 Ivi, p. 623.

36 Adriana Cavarero, op., cit., p. 60.

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ovvero un posto in cui si vive da morti in una continua ed infinita agonia e sofferenza. Ma, per percepire la realtà di questi luoghi della morte, dobbiamo andare oltre la figura classica dell’immagine degli inferi: per esempio nell’inferno dantesco ogni uomo mantiene la propria singolarità, invece nell’inferno dei campi di sterminio questa individualità viene progressivamente eliminata fino ad arrivare ad annientare ogni peculiarità che contraddistingue ogni uomo.

I lager svolgono la funzione non solo di sterminare e degradare gli individui, ma soprattutto di mettere in atto, di rendere reale l’eliminazione della spontaneità umana, in modo tale da creare un uomo artificiale, un uomo oggetto. Determinati risultati richiedono altrettante premesse: per costruire una simile realtà c’è bisogno di un completo distacco rispetto al mondo esterno ai lager. Difatti, gli internati riusciti a sopravvivere non sono stati in grado di far comprendere agli altri il vero orrore di cui sono stati resi protagonisti anche perché, come dice la Arendt, questo tipo di orrore estremo non può mai essere integralmente descritto. I sopravvissuti che erano riusciti a ritornare nel mondo comune tendevano a ricordare i campi come se avessero confuso un incubo per realtà. Il superstite non è il “testimone integrale” di cui parla Primo Levi, perché chi ha scoperto il nucleo dell’orrore più profondo dei campi non ha fatto più ritorno. L’orrore del campo di sterminio non può mai essere descritto pienamente da chi ne fa ritorno e questo per la Arendt è il sintomo che un nuovo tipo di crimine è stato commesso. Con i regimi totalitari il mondo intero si è accorto che esistono crimini che non possono essere né puniti, né perdonati:

Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva essere più compreso e spiegato con i malvagi motivi dell’interesse egoistico,

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dell’avidità, dell’invidia del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità non poteva sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire.38

3. Terrore ed ideologia.

Hannah Arendt ci ha fornito dunque una nuova tipologia di terrore politico che, non essendo più uno strumento nelle mani dei governanti, diviene una modalità di vita, una passione percepita indistintamente da tutti coloro che sottostanno al regime totalitario poiché si viene ad annullare definitivamente quella distinzione, operata da Montesquieu, tra terrorizzato e terrorizzante (il tiranno che terrorizza ed i sudditi che sono succubi di questo terrore). Il terrore totale trasforma entrambe le parti in soggetti inconsapevoli e soprattutto passivi di fronte un destino che è già stato predeterminato. Questa tipologia di terrore, che non ha alcuno scopo e si dirige verso persone innocenti, diviene all’interno del regime totalitario essenza, come abbiamo già detto, del governo stesso; infatti, come afferma la Arendt, «se la legalità è l’essenza del governo non tirannico e l’illegalità quella della tirannide, il

terrore è l’essenza del potere totalitario»39 e tale essenza viene ritenuta dalla nostra

autrice dinamica di per sé dato (dato che, come vedremo successivamente, il terrore è ciò che darà accelerazione al movimento della Storia e della Natura). Il terrore non può fungere da principio d’azione perché, all’interno del regime totalitario, tali principi perdono completamente la loro utilità proprio perché gli uomini sono stati resi incapaci d’agire. Difatti anche la paura, dato che il terrore sceglie le sue vittime nella totale arbitrarietà, risulta inefficace in quanto non riesce a dirigere i comportamenti degli uomini in modo tale da poter evitare un pericolo imminente o

38 Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 628. 39 Ivi, p. 639.

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la morte stessa. C’è bisogno, allora, non di un principio che ispiri e guidi le azioni dei cittadini all’interno di questo governo, ma di un principio che regoli i loro comportamenti, il quale non appartiene più al regno dell’azione umana. Per questo viene introdotto dalla Arendt, fin dall’inizio della sua analisi, un’altra componente essenziale che contraddistingue il totalitarismo e che assieme al terrore ne comporrà la sua natura. Si tratta di qualcosa che sostituisce l’inefficace principio d’azione, che ha il compito di rendere ciascun suddito adattabile sia al ruolo di vittima che di carnefice. Questo è proprio lo scopo dell’ideologia, un principio interamente nuovo e dinamico. Vi è un nesso importantissimo tra terrore ed ideologia che permette una totale estraneazione dell’uomo dalla realtà e dall’esperienza: difatti, mentre l’ideologia risulta indispensabile per la creazione di un mondo coerente e fittizio, che riesca a prendere il posto della realtà effettiva, il terrore è fondamentale per mantenere nel tempo questo mondo tramite il dominio totale dell’uomo, rendendo gli individui artificiosi e prevedibili, inadatti ed incapaci ad ogni abilità umana che riguarda il pensiero o l’azione. Il terrore diviene, all’interno del totalitarismo, non più qualcosa di cui la gente deve avere paura, ma un modo di vivere che dà per scontato l’impotenza degli individui stessi. Sia le vittime che i carnefici, come fasci di reazione interscambiabili, infatti, sono assoggettati al terrore perché, come dice la Arendt, nessuno è immune a quest'ultimo.

Il totalitarismo, come possiamo ben capire dall’elaborazione del pensiero arendtiano, è una forma di governo assolutamente nuova, che non ha precedenti nel passato e non può essere assimilata ai vecchi regimi terroristici, non solo per la sua diversità (basti pensare alla differenza nell’utilizzo del terrore), o per la radicalità che lo contraddistingue (i regimi totalitari non si limitano a isolare l’uomo dalla vita

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pubblica, ma eliminano anche il tessuto delle relazioni private dell’uomo, estraniandolo così dal mondo e dal proprio io), ma soprattutto perché il totalitarismo ha una sua specifica natura che è costituita dalla sua essenza terroristica e da un nuovo principio, questa volta, di movimento ovvero il pensiero ideologico. La novità del regime totalitario non sta nella sua apparente arbitrarietà o nella sua illusoria assenza di leggi. Al contrario, il totalitarismo pretende di obbedire ed attuare le leggi della Storia o della Natura senza però doverle applicare ai comportamenti individuali degli uomini, non esercita il potere nell’interesse di questi ultimi bensì è disposto a sacrificarli in nome di qualcosa di più importante, l’intera umanità. Tale governo non si ispira più a principi quali giustizia o ingiustizia, che devono fare i conti con la condotta imprevedibile del singolo individuo, ma alla legge della natura o della storia che sarà applicata direttamente a tutto il genere umano, data, ricordiamolo sempre, la pretesa di dominazione di questi regimi non territoriale ma globale. Dichiarando di obbedire a tali leggi il totalitarismo fa a meno di qualsiasi consensus iuris perché libera la legge stessa dalla volontà dell’uomo e della sua azione. Non esiste più una distanza tra le leggi e le azioni umane ma, in questi regimi, legge ed uomo coincidono. Le leggi positive, che ricavavano la loro autorità dalla propria permanenza nel mondo rispetto alle azione umane, nei regimi totalitari vengono sostituite dal terrore e diventano così “leggi di movimento”. Storia e natura non sono più fonti di autorità, come accadeva per le leggi positive, ma divengono anche queste ultime dei movimenti e finiscono per perdere la loro funzione stabilizzatrice. Difatti nei governi totalitari analizzati dalla Arendt si può notare come rispettivamente:

Alla base della credenza nazista nelle leggi razziali vi è l’immagine darwiniana dell’uomo come prodotto più o meno accidentale dell’evoluzione naturale - un’evoluzione che non ha

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necessariamente il suo termine nella specie umana cosi e com’essa ci è nota. Alla base della credenza bolscevica nella classe vi è la nozione marxiana degli uomini come prodotti di un gigantesco processo storico che avanza verso la fine del tempo della storia - un processo, cioè, che tende a negare se stesso.40

Le leggi totalitarie perciò non hanno nulla a che fare con la ragione o con la stabilità. Il termine legge, che indicava nel passato il perimetro stabile entro cui le azioni umane potevano avere luogo, cambia di significato per divenire espressione del movimento stesso. L’esito finale di tali leggi non è altro che l’eliminazione di individui che il movimento stesso indica come nemici del regime, ovvero coloro che ostacolano il moto del processo stesso, e sarà proprio il terrore ad avere il compito di tradurre queste leggi in realtà. Il terrore in quanto essenza stessa di tale sistema, contraddistinto dalla sua completa avversione ad ogni scopo utilitarista, mira a rendere superflui gli esseri umani distruggendo la loro spontaneità e a rendendoli completamente prevedibili. Immobilizzando gli individui in un “vincolo di ferro”, il terrore li spinge gli uni contro gli altri, non diminuendo soltanto lo spazio della libertà, come faceva il terrore dispotico, ma distruggendo ogni tipologia di spazio esistente tra di essi, così da renderli un unico uomo, in modo tale che singolarmente essi siano impossibilitati a dare inizio a qualcosa di nuovo che potrebbe ostacolare non solo il terrore totale ma il regime stesso:

Il terrore immobilizza gli uomini per lasciar spazio al movimento della Natura o della Storia; elimina gli individui per il bene della specie; sacrifica gli uomini per il bene dell’umanità – non solo coloro che alla fine diverranno le vittime del terrore, ma di fatto ogni uomo, nella misura in cui questo movimento […] può essere ostacolato solo da quel nuovo inizio e da quella fine individuale che la vita di ogni uomo effettivamente rappresenta.41

40 Ivi, p. 140.

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Questa possibilità di essere un nuovo inizio, tratteggiata nelle pagine de Le origini del totalitarismo, si riferisce a quella facoltà insita nell’uomo di poter essere capace di introdurre un elemento di novità nel mondo, ossia di agire in modo differente rispetto a quello che normalmente ci si aspetterebbe da loro: il nuovo inizio di cui parla la Arendt è inerente alla nostra capacità d’agire il che significa che ogni nostra azione rappresenta un nuovo inizio a sua volta. Ma il terrore, nei regimi totalitari, interviene proprio in questo ambito eliminando i confini tracciati dalla legge, che servivano a preservare proprio questa capacità umana e a garantirne la potenzialità, avrà lo scopo di eliminare ogni ostacolo che si pone dinanzi allo sviluppo delle leggi di movimento. In tali governi il colpevole è semplicemente colui che si trova innocentemente sulla via che ostacola il movimento della storia o della natura, ma, oltre che eliminare il nemico oggettivo, il terrore avrà il compito, non solo di liberare le forze della storia e della natura, ma soprattutto di accelerare il movimento del processo stesso. Il terrore perciò darà più velocità al moto delle leggi della Natura o della Storia, e questo lo chiarisce molto bene Hannah Arendt quando afferma:

È stato trovato uno strumento capace non solo di liberare le forze storiche e naturali, ma di accelerare fino a una velocità che non avrebbero mai raggiuto se lasciate a se stesse. In pratica ciò significa che il terrore esegue sul posto le sentenze di morte che, a quanto suppone, la natura avrebbe pronunciato contro razze e individui “inadatti a vivere” o la storia contro “le classi morenti”, senza attendere processi lenti e meno efficaci della natura o della storia.42

Mentre il terrore si occuperà di eliminare i legami esistenti tra gli uomini, l’ideologia verrà impiegata per distruggere tutto ciò che collega l’individuo, soggetto al regime totalitario, alla realtà stessa.

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Possiamo considerare l’ideologia un fenomeno relativamente recente nella

storia43, legata alla fase finale della modernità. Il termine “ideologia” risulta

estremamente ambiguo, dato la rapida perdita del suo significato originario di analisi scientifica del pensiero, delle idee e degli stati dell'animo, definisce attualmente quel complesso di idee e di principi che caratterizza una classe o un gruppo in una data epoca (im)ponendosi tuttavia come valore universale, a scopo di legittimazione di un potere. Anche l’ideologia, come il campo di concentramento, non può essere perciò considerata un’invenzione dei regimi totalitari, ma di certo tali governi hanno saputo sviluppare a pieno le potenzialità di quest’ultima, perché solo grazie ai regimi totalitari le ideologie diventeranno il cuore pulsante che metterà in atto le azioni politiche.

Come ci ricorda Corey Robin, Hobbes aveva sperato che la riflessione sulla paura da lui elaborata potesse essere utilizzata come arma contro i fanatici del suo tempo, i quali riuscivano ad ignorare la paura della morte violenta in nome di valori per loro eroici. Perciò l’autore inglese aveva ben presente, durante l’elaborazione del suo pensiero, dove potesse condurre l’ideologia e proprio per questo aveva elaborato la sua riflessione sulla paura, per rispondere all’irrazionalità di coloro che andavano felici incontro alla morte, in quanto vittime di passioni quali l’onore e la gloria, mettevano a repentaglio il loro bene primario, la vita stessa. Ma nonostante tutto questo Hobbes non avrebbe mai potuto comprendere i discepoli dell'ideologia descritti dalla Arendt, perché mentre i contemporanei di Hobbes rischiavano la propria vita in quanto attratti da idee che rendessero il loro io più grande, i fanatici

43 Il termine ideologia fece la sua comparsa per la prima volta nell’opera francese Mémoire sur la

faculté de penser (1796) quando il filosofo Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy se ne servì per denominare una nuova scienza, il cui scopo era quello di studiare l’origine delle idee.

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