Capitolo III: Tra apolide e paria: il problema di chi vive senza “un posto nel mondo”.
3. Perdono e promessa.
Proprio all’interno del capitolo di Vita Activa dedicato all’azione si trovano due paragrafi non molto lunghi, ma densi di significato, dedicati al potere del perdono e della promessa. Tali capacità per la Arendt sono gli unici rimedi alle aporie che caratterizzano l’azione stessa ovvero l’imprevedibilità e l’irreversibilità. Sia il perdono che la promessa non scaturiscono da forze superiori, ma sono dalle potenzialità dell’azione stessa e perciò sono legate anch’esse inevitabilmente alla condizione umana della pluralità, alla presenza degli altri, dato che ovviamente non possiamo perdonarci da soli o fare delle promesse a noi stessi.
La Arendt definisce il perdono come «la redenzione possibile dall’aporia
dell’irreversibilità»216. L’azione, nel momento in cui entra nel mondo delle cose
umane, si dirama in modo tale che l’attore non può più controllare i suoi effetti e
215 Ivi, p. XI
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non può disfare ciò che ha fatto anche in modo non consapevole. Essere perdonati perciò equivale all’essere liberati dalle conseguenze dell’azione da noi prodotta. Come abbiamo ricordato in precedenza, l’uomo come agente è per definizione un nuovo inizio e dato che esiste al plurale il suo futuro si presenta a noi inevitabilmente come un “oceano di incertezze”. Nel dare avvio ad un’azione l’uomo è condannato ogni volta a farsi carico delle conseguenze di ciò che fa, anche se tali conseguenze non dipendono dal singolo individuo. L’agente che non può controllare lo sviluppo delle proprie azioni si dovrebbe, ogni volta che agisce, accollare un fardello di responsabilità insostenibile. È proprio in questo contesto che si introduce il perdono, perché l’uomo solo con quest’azione può liberare chi agisce dal fardello della colpa ristabilendo così le condizioni adatte per l’azione stessa.
Il primo a scoprire la potenzialità della facoltà del perdono, come tutti sappiamo, fu Gesù di Nazareth, il quale pose l’accento sulla natura prettamente umana di tale risorsa spirituale. La Arendt ci ricorda che, anche se tale scoperta fu fatta in un ambiente religioso, è di vitale importanza anche in ambito mondano. Ciò che preme sottolineare alla nostra autrice è che per Gesù il potere di perdonare non risiede esclusivamente in Dio, anzi Dio perdona solo nel momento in cui gli uomini perdoneranno a vicenda:
È decisivo, nel nostro contesto, che Gesù sostenga in primo luogo […] che non solo Dio ha il potere di perdonare e, in secondo luogo, che questo potere non deriva da Dio - come se Dio soltanto perdonasse, attraverso la mediazione degli esseri umani - ma al contrario va praticato dagli uomini gli uni verso gli altri prima che essi possano sperare di essere perdonati anche da Dio. La formulazione di Gesù è anche più radicale. Nel Vangelo non si suppone che l'uomo perdoni perché Dio perdona, ma possiamo leggere che, “se perdonerete con il cuore”, “anche” Dio perdonerà217.
217 Ivi, p. 177.
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Il perdono rappresenta per Hannah Arendt una delle condizioni fondamentali per la politica perché gli uomini sono condannati a non sapere mai quello che fanno, dato che l’azione stessa si stabilisce in relazioni ad altre innumerevoli azioni prodotte da innumerevoli attori. L’uomo solo grazie a questa capacità prettamente umana può liberare il suo simile dalla colpa e come agente può essere libero nuovamente di agire.
Il collegamento tra azione e perdono è reso ancora più evidente dal fatto che
il perdono, come l’azione, rivela il “chi” dell’agente218, difatti il singolo perdona
l’atto compito per amore di chi lo ha fatto, perdoniamo perciò gli atti commessi dall’agente per l’amore che proviamo per l’agente stesso. Qui si rileva il legame intrinseco tra l’amore ed il perdono. È proprio l’amore che ci permette di discernere, come dice la nostra autrice il “chi” dal “che cosa”, ovvero l’agente dai fatti che sono stati compiuti da esso:
l’amore sebbene sia uno degli avvenimenti più rari nelle vite umane, possiede un insuperato potere autorivelazione e permette una visione eccezionalmente chiara per discernere il chi proprio perché è indifferente […] a ciò che la persona amata può essere, alle sue qualità ai suoi limiti , come pure alle sue realizzazione, fallimenti e trasgressioni.219
Ricordiamo che per Hannah Arendt l’amore è una passione impolitica, addirittura la nostra autrice la definisce come una delle più potenti forze umane antipolitiche, perché distrugge lo spazio intermedio, l’infra che ci mette in relazione gli uomini e contemporaneamente li separa. Equivalente all’amore, sotto questo punto di vista, è il rispetto: un’amicizia come la nostra autrice senza intimità e vicinanza. Il perdono può essere prodotto anche dall’amicizia, intesa come philia
218 Il chi dell’agente viene definito dalla nostra autrice come l’unicità della nostra identità personale. 219 Hannah Arendt, Vita activa, cit., p. 178.
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politke, ovvero il legame che unisce i membri della comunità politica. Il rispetto di cui stiamo parlando in questo contesto è il riguardo che noi abbiamo per una persona nella distanza che il mondo mette tra noi, il rispetto che si realizza indipendentemente dalle qualità della persona o dalla stima che proviamo per lui.
Il perdono come virtù strettamente politica ha in sé una natura miracolosa che spiega il suo legame con la libertà umana. Una particolarità essenziale dell’azione del perdono è che non può essere mai prevista «è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata e che quindi ha in sé, pur essendo una reazione,
qualcosa del carattere originale dell’azione»220, perdonare difatti è una reazione che
agisce in maniera nuova e non prevedibile.
Il perdono può essere esercitato solo nei confronti di colpe punibili ed individuali per questo la Arendt afferma che non vi è posto per il perdono del totalitarismo che invece può essere solo compreso e giudicato. Non possiamo perdonare quegli atti che non possiamo punire, come abbiamo specificato nel caso Eichmann. La capacità umana di saper perdonare non è perciò una risorsa illimitata, ricordiamo che nei capitoli precedenti abbiamo sottolineato come sia impossibile perdonare il male radicale che ha avuto origine nei capi di concentramento, dato che l’azione di redenzione può avvenire solo nei riguardi di ciò che non supera i confini dell’umano.
L’attività del perdono è connessa a quella della promessa come rimedio all’imprevedibilità dell’azione: se da un lato il perdono riesce a smantellare i gesti del nostro passato e di conseguenza liberare l’agente dal peso delle conseguenze di
220 Ibidem.
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ciò che ha compiuto, la promessa introduce un’oasi di sicurezza nel nostro futuro caratterizzato dall’incertezza. La promessa, contrastando la radicale insicurezza del futuro, fa in modo che gli uomini si leghino reciprocamente mantenendo la parola data, creando perciò una sorta di reciprocità perché una volta mantenuta io tengo fede a me stesso tramite non l’autodominio, ma la relazione che istauro con l’altro.
L'imprevedibilità che l'atto di promettere almeno in parte dissolve è di duplice natura: scaturisce da quella che la Arendt descrive come “oscurità del cuore umano”, ovvero il fatto che l’uomo non può mai garantire ciò che sarà domani o prevedere in qualche modo le conseguenze di un atto in una comunità di uomini eguali possessori tutti della stessa facoltà di agire:
L'impossibilità per l'uomo di fare affidamento su se stesso o di avere una completa fede in sé […] è il prezzo che gli esseri umani pagano per la libertà; e l'impossibilità di rimanere unico padrone di ciò che fa, di conoscere le conseguenze dei nostri atti, e di contare sul futuro è il prezzo che l'uomo paga per la pluralità e la realtà, per la gioia di abitare insieme con gli altri un mondo la cui realtà è garantita per ciascuno dalla presenza di tutti221.
L’unico rimedio all’imprevedibilità dell’azione è la capacità umana di fare e mantenere delle promesse, tale capacità è nota alla tradizione politica e fin dai tempi più antichi gli uomini facendo promesse cercano di dominare l’incertezza che caratterizza il futuro.
L’attività del perdono come quella della promessa sono le soli che non dipendono da una facoltà superiore a noi perciò una facoltà imposta dall’esterno, ma dipendono dall’azione stessa. Queste capacità umane nascono dalla volontà degli uomini di vivere insieme e vengono definite dalla Arendt come dei
221 Ivi, p. 180.
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«dispositivi di controllo inseriti nella facoltà di dar inizio a nuovi e interminabili
processi»222. Se non fossimo capaci di perdonare e di rispettare i patti la realtà
diventerebbe un luogo di azione e reazione perciò una catena causale, un luogo in cui non vi è libertà proprio perché non potrebbe esistere alcuna novità, è proprio perdonando e mantenendo le promesse che diamo inizio a qualcosa nuovo.
Senza l’azione, la natalità, la capacità di perdonare e di mantenere delle promesse finiremmo tutti vittime del processo legato alla necessità. È la nostra capacità umana di dare inizio a qualcosa di nuovo che interrompe il corso automatico della vita quotidiana e che si inserisce per dare l’avvio all’imprevedibile. La facoltà di dare inizio a qualcosa, ovvero la una facoltà inerente all'azione stessa ricorda agli uomini ogni giorno che «non sono nati per morire ma
per incominciare»223.
222 Ivi, p. 181.
138 CONCLUSIONI:
In un’epoca come la nostra caratterizzata dall’individualismo, dall’opportunismo, dal ritrarsi nella tranquillità della sfera privata e di conseguenza da ogni responsabilità politica ci potrebbe sembrare assurdo rifarci al pensiero di un’autrice che ha speso tutta la sua vita nel tentativo di comprendere i fatti e le idee politiche che hanno contraddistinto il novecento e che ora nel 2015 potrebbero sembrarci lontani anni luce dai problemi che affliggono la nostra contemporaneità. Per me invece è stato fondamentale ripercorrere alcuni degli snodi cruciali del pensiero arendtiano per tentare di capire i “tempi bui” in cui attualmente siamo precipitati. Il nostro periodo storico è segnato da una condizione di insensatezza e miseria politica che si manifesta palesemente in ogni vicolo cieco in cui si arena ogni questione politica importante e non riusciamo ad immaginare una soluzione soddisfacente a tale situazione. È proprio in questo contesto che il pensiero arendtiano corre in nostro aiuto e si manifesta in tutta la sua contemporaneità. La Arendt ci suggerisce che un cambiamento di rotta è possibile solo tramite una sorta di miracolo che ci dia la possibilità di sperare in un futuro migliore e non determinato.
La riflessione di Hannah Arendt sul senso della politica e sulla conseguente necessità di riabilitare l’attività umana per eccellenza, ovvero l’agire, risulta fondamentale in un periodo di estrema crisi politica come il nostro. La nostra autrice tenta di metterci in guardia dal pericolo insito nella “perversione” della capacità di agire in un semplice fare, messa in atto nella modernità. L’agire, come abbiamo già specificato, porta in sé il rischio dell’illimitatezza e dell’imprevedibilità, creando
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un mondo fragile e contingente, proprio perché dopo che l’uomo, in quanto agente, innescata l’azione non può prevederne l’esito, dato che l’atto stesso si interseca con altre azioni di altri innumerevoli soggetti. Ciò vuol dire che l’uomo agendo non può sapere realmente cosa sta facendo, la Arendt infatti afferma:
Siamo tutti avvezzi a dire: Signore, perdonali, perché non sanno quello che fatto. Ciò vale per ogni azione. Le cose stanno così: semplicemente non possiamo sapere. Per questo parliamo di rischio. E vorrei aggiungere che questo rischio è possibile solo laddove c’è fiducia tra le persone, una fiducia - difficile da esprimere ma fondamentale - in ciò che vi è di umano in tutti noi. Altrimenti un simile rischio sarebbe impossibile.224
L’invito della Arendt è allora quello di accettare i rischi insiti nell’azione stessa che provengono dalla condizione umana della pluralità. Solo con l’azione e il discorso, ovvero quelle modalità che ci permettono di apparire insieme nello spazio pubblico, possiamo mostrarci nella nostra unicità e pluralità, ovvero come esseri unici e plurali. Unici perché tramite queste modalità mostriamo il nostro “chi”, cioè riveliamo l’unicità della nostra identità personale e facciamo la nostra apparizione nel mondo umano, ma questa capacità rivelatrice insita nell’agire e nel parlare è possibile solo se stiamo con gli altri ed è proprio per questo che la nostra condizione è plurale:
Nello spazio pubblico della libera azione discorsiva, gli individui hanno la possibilità di mostrare attivamente «chi», e di ricevere dagli altri, che li vedono e li ascoltano, il riconoscimento della loro identità; confermando così, allo stesso tempo, la realtà del proprio se unico e singolare, e la realtà del mondo nella sua pluralità.225
Il problema fondamentale della modernità risiede nel fatto che l’uomo non sia riuscito a sopportare la fragilità di cui è composto il nostro mondo, una fragilità
224 Hannah Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua. Una conversazione con Gunter Gaus in
Antologia, cit., p. 25.
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che deriva dalla condizione umana per eccellenza sulla quale tutto si basa, anche la politica stessa, ovvero la pluralità. L’uomo terrorizzato dalla contingenza del mondo creato dalla pluralità decide di fossilizzarsi su delle attività che lo isolano degli altri, in modo tale da rimanere padrone di ciò che fa dall’inizio alla fine, privandosi dalla pluralità stessa, il che significa rinunciare alla sfera pubblica. Gli uomini così facendo danno il via alla perversione della azione che ridotta al “fare” da effetti irreversibili, mettendo appunto in pericolo la loro stessa esistenza. Nasce
così ciò che la Pulcini definisce homo creator226il quale perdendo il senso del
proprio agire finisce per ledere i propri interessi e a mettere in pericolo l’esistenza non solo degli uomini, ma anche del mondo umano e della terra stessa. L’homo creator crea processi nel mondo che senza gli uomini non sarebbero mai esistiti, dando appunto origine a processi irreversibili e senza ritorno. L’esempio eclatante della perversione dell’agire in fare è la creazione della bomba nucleare. Con la scoperta dell’energia nucleare non vengono scatenati processi naturali ma vengono avviati sulla terra processi che derivano dall’universo, e tali forze hanno in sé la potenzialità di distruggere la natura della terra. Quest’esempio testimonia la rottura del precario equilibrio esistente tra fabbricazione e distruzione dato che ciò che l’uomo produce è incommensurabilmente superiore a lui e quest’ultimo finisce per perdere il controllo, che pensava di avere inizialmente, sugli apparati tecnici da lui creati che addirittura in questo contesto lo rendono vittima. Difatti la Arendt afferma in uno dei frammenti che compone Che cos’è la politica:
226 Homo creator ovvero l’io creatore insieme all’io spettatore e consumatore che si delineano in
corrispondenza delle sfide globali e della globalizzazione economica, caratterizzati da indifferenza ed atomismo, costituisco quello che la Pulcini definisce come io globale.
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Quando le prime bombe atomiche caddero su Hiroshima, ponendo fine alla seconda guerra mondiale, il mondo fu scosso da un sentimento di orrore. Quanto quell’orrore fosse legittimo, all’epoca non era ancora dato saperlo. Infatti, quell’unica bomba atomica che rase al suolo una città ottenne in pochi minuti ciò che in precedenza richiedeva l’impiego sistematico di massicci attacchi aerei per settimane o mesi.227
L’orrore di cui sta parlando la Arendt nasce proprio dalla forza sovrannaturale (proprio perché viene dall’universo) di tale strumento di violenza, che fin dalla sua nascita ha portato con se morte e distruzione in proporzioni enormi rispetto al passato. Quest’orrore poi si mescolò con l’indignazione derivata dalla sperimentazione di una tale energia su città abitate. Tale sdegno è stato in grado di mettere in evidenza una cosa che solo molti anni dopo sarebbe stata ovvia, cioè che dopo la seconda guerra mondiale la guerra non si potrà più concludere con un trattato di pace, ma la vittoria potrà essere raggiunta solo con la distruzione del nemico, con lo sterminio degli sconfitti:
Qui è in gioco qualcosa che per sua natura non potrebbe mai diventare oggetto di trattative: la nuda esistenza di un paese o di un popolo. Soltanto in questo stadio, in cui la guerra non dà più per scontata l’esistenza delle parti nemiche […] la guerra ha davvero cessato di essere uno strumento della politica e comincia, come guerra di sterminio a erodere i confini imposti dal politico e perciò a distruggerlo. Questa guerra è oggi detta totale.228
La Guerra totale, come guerra di sterminio, ha avuto la sua origine con i regimi totalitari che imposero inevitabilmente il loro modo di agire a tutto il mondo. Quanto afferma la Arendt è facilmente dimostrabile dal fatto che la prima bomba atomica non fu sganciata contro la Germania hitleriana, per la quale fu fabbricata, ma contro il Giappone che non era affatto una potenza totalitaria.
Ciò che accomuna l’orrore e lo sdegno percepiti dagli uomini dopo l’utilizzo della bomba atomica fu l’aver realizzato il vero significato di questa nuova modalità
227 Hannah Arendt, Che cos’è la politica, cit., p. 63. 228 Ivi, p. 68.
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di guerra: essa non riguardava solo le forze belligeranti ma il mondo intero. Per la prima volta è stato superato come afferma la Arendt il limite dell’agire violento: secondo il quale la distruzione tramite gli strumenti di violenza può avvenire solo su un numero di vite umane limitate e uno spazio circoscritto. Il massacro in questo caso invece riguarda interi popoli o statuti politici, i quali addirittura non sono mortali per definizione. In tale contesto la violenza non si estende solo agli artefatti umani che possono essere ricostruiti, ma ciò che viene distrutto questa volta è il mondo delle relazioni umane, il mondo nato dall’agire e dal parlare, dalla potenza dei molti, che agiscono di concerto. Solo la violenza se diventa totale può eliminare il mondo delle relazioni umane. Se viene distrutto un popolo o uno Stato viene distrutta una parte del mondo collettivo, un aspetto sotto cui il mondo si mostra, ed è questo l’infra che non si forma con la fabbricazione ma con l’agire comune degli uomini.
Con l’esempio della bomba nucleare risulta ormai chiaro che l’incremento degli strumenti di violenza posti nelle mani degli Stati possono mettere a repentaglio l’intera umanità. Proprio in questa situazione ci potrebbe sembrare forviante pensare alla politica come libertà umana, quando è proprio la politica stessa a mettere in discussione la nostra esistenza in quanto uomini. Il problema sotto questo punto di vista non riguarda il progresso tecnologico ma la trasformazione dello spazio pubblico-politico in un luogo di violenza reale. Abbiamo detto nei capitoli precedenti che il potere viene creato da soggetti che agiscono insieme e tale agire comune, ormai lo sappiamo, può avvenire solo in uno spazio politico. Il problema perciò risiede nel fatto che tale spazio si sia arenato in uno spazio dominato dalla violenza. La Arendt in molte delle sue opere mette in
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chiaro la differenza esistente tra il potere e la violenza. La violenza contrariamente al potere è un fenomeno che riguarda il singolo o pochi uomini e quando si combina al potere cresce a spese del potere stesso. La violenza precisa la nostra autrice nel
testo Sulla violenza229si distingue dal potere per il suo carattere strumentale:
«fenomenologicamente, è vicina alla forza individuale, dato che gli strumenti di violenza, come tutti gli altri strumenti, sono creati e usati allo scopo di moltiplicare
la forza naturale»230. La generazione che è cresciuta all’ombra della bomba atomica
ha avuto come prima reazione a tale forza sovraumana l’adesione alla politica della non violenza, tale generazione come afferma la nostra autrice è caratterizzata da una sorprendente capacità di agire e dalla fiducia della possibilità del cambiamento essendo però sempre consapevole che un progresso tecnologico senza limiti