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Riassunti e Apparato

I 35 Apollo accoglie, nella pubblica udienza del giovedì, le istanze che gl

vengono via via sottoposte (ne vengono descritte ben ventiquattro) e le risolve con risposte in cui brilla la sua acutezza.

A due ambasciatori che gli chiedono se fosse possibile supplicare Dio di dispensare il genere umano dal doversi procurare il cibo, per dedicare invece tutto il tempo agli studi, Apollo risponde che proprio quella necessità costringe gli uomini a lavorare la terra che altrimenti rimarrebbe una selvaggia «stanza degna di orsi, di lupi e di altre fiere, piuttosto che commoda abitazione per gli uomini» (1). A Menenio Agrippa che si offre di tentare di metter pace fra i Paesi Bassi e gli Spagnoli con una «bellissima favola», Apollo risponde che neppure le tragedie fatte rappresentare dagli spagnoli in quella «scena» per più di cinquant‟anni avevano potuto far recedere quei popoli dal loro proposito di conquistare la libertà o morire (2). È la volta di Paolo Vitelli, condottiero della repubblica fiorentina, di cui Apollo fa riesaminare la sentenza di morte emessa in terra, concludendo per la sua innocenza (era stato decapitato a seguito di un giudizio

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precipitoso); quando però il Vitelli gli chiede di procedere con qualche misura contro i fiorentini, Apollo replica che suo figlio, dopo la morte del duca Alessandro aveva già avuto modo di vendicare abbondantemente (andando ben oltre i limiti della «tutela incolpata») l‟esecuzione del padre (3). All‟analoga querela del Carmagnuola contro la decapitazione inflittagli dalla repubblica veneziana, Apollo risponde invece di rassegnarsi in quanto le sentenze emesse dal senato veneziano non solo non potevano essere rinviate in appello, ma neppure sottoposte a revisione, «per la violente presunzione ch'egli avea di altrui amministrar esattissima giustizia» (4). Ricevuto in dono da un africano, a nome di Annibale, un leone così perfettamente addomesticato, col sempre «abbondantemente pascerlo», da sembrare un cagnolino che faceva vezzi al suo signore, Apollo si rivolge ai principi proponendolo come esempio da seguire per essere ben accetti ai sudditi naturali e stranieri, ovvero non gravarli con «soverchie angherie poste sopra le cose necessarie al vitto umano» (5). A due fantaccini che gli chiedono, a nome dell‟università dei soldati, di mitigare l'immanità delle moderne leggi militari che li condannavano a morti indegne anche solo per colpe leggerissime o reati di omissione, Apollo risponde che nessuno li aveva obbligati ad abbandonare le loro case e «cambiar le leggi umanissime» con le quali erano nati «con le crudelissime che si praticano alla guerra» (6). Alcuni stampatori (Sebastiano Grifo, Guglielmo Ruillo da Leone, Cristofano Plantino d'Anversa, i Giunti da Firenze, il Giolito, il Valgrisi e altri molti da Venezia) per mezzo di Aldo Manuzio propongono ad Apollo di introdurre a loro spese anche in Parnaso la stampa, ritenuta la più importante far le invenzioni moderne: Apollo nega risolutamente, dal momento che la stampa aveva reso le biblioteche «più numerose che buone» - ed egli non voleva ammettere in Parnaso «il rompicollo dei letterati troppo ambiziosi» -, e troppo accessibili le «fatiche divine» dei grandi autori, che così erano finiti nei banchi dei librai, «vituperati dalle mosche» (7). Seneca cita in giudizio Publio Suilio che l‟aveva diffamato per le molte ricchezze acquisite in poco tempo, e si difende attribuendole non alla propria cupidigia ma alla liberalità di Nerone, chiedendo di esser giudicato piuttosto in virtù dei suoi scritti: Apollo però respinge la sua istanza dichiarando inevitabile che un arricchimento repentino fosse accompagnato da una cattiva reputazione e contestandolo nella pretesa di esser giudicato solo per il suo lascito intellettuale («l'unico paragone che al mondo faceva conoscere la vera lega del genio degli uomini, erano l'opere, non le parole»), ritenendo del tutto nefasto il suo esempio, fecondo di imitatori (8). Lucrezia chiede ad Apollo una degna collocazione, ritenendosi, per la violenza subita, la causa dell‟origine della repubblica romana, ma Apollo ridimensiona la sua importanza: i Tarquini in realtà avevano perduto il regno perché con palese imprudenza politica si erano resi odiosi tanto alla plebe quanto alla nobiltà (9). Anche Caterina Sforza chiede di poter avere in Parnaso un luogo confacente alla sua dignità, ricordando l‟animosità che seppe dimostrare durante la congiura che le uccise il marito, quando, pur di difendere la rocca della città, con gesto audace,

103 alzatesi le vesti, spregiò le minacce rivolte ai figli lasciati in ostaggio, dicendo ai congiurati «che de‟ suoi figliuoli facessero a voglia loro, ché a lei rimaneva la stampa di rifarne degli altri»; Apollo acconsente alla richiesta della Riario, considerando condotta positiva nelle donne private la modestia, nelle principesse che si trovassero in gravi frangenti, la virilità; Cino da Pistoia a sua volta interviene affermando che era un bene che fosse visto da tutti «quel luogo» da dove era uscito Giovan de' Medici, padre del grande Cosimo, fondatore della «floridissima monarchia toscana» (10). Un notaio fa sapere che Pico della Mirandola per volontà testamentaria aveva destinato una somma considerevole ad opere di pietà, a discrezione di Apollo: questi decide di utilizzare il lascito per fabbricare uno «spedale degl‟incurabili» affetti dal morbo dell‟ambizione (11). Mecenate chiede e ottiene che il «titolo tanto glorioso» da lui derivato venga usato a proposito e non «scialacquato da vili e affamati letteratucci, per picciolissima mercede che ricevevano da‟ prencipi» (12). «Il gran Tamerlane scita» chiede di esser spostato dalla classe «de‟ capitani famosi» in quella «de‟ fondatori dei regni grandi», ma non lo ottiene poiché, come spiega Apollo, c‟è una considerevole differenza fra lo «scorrere con gli eserciti armati numero grande di regni» e il «fondar un imperio» (lo stesso Alessandro il Magno si era vista negare quella sede poiché in Asia aveva fatto razzie come capo di masnadieri, piuttosto che soggiogarla da grande re con l‟arte militare) (13). Il Vellutello presenta i propri Commentari al canzoniere di Petrarca ma Apollo, informatosi sul tipo di commento, lo respinge perché troppo vile e non sottile, cogliendo nel segno la “medietà” della lingua petrarchesca, a fronte dell‟inarrivabilità dello stile: «egli amava quei commentatori de' poeti, che al lettore scoprivano l'artificio usato dall'autore nella tessitura del poema, che mostrava in quai cose stava posta l'eccellenza del verso, quali erano i colori, quali le figure e le altre bellezze poetiche: e che le poesie italiane, per loro stesse chiarissime, non aveano bisogno di quei commentatori, che alle genti grossolane e ignoranti solo facevano il vil ufficio di interpretar le parole» (14). Ad un tale che, già governatore della Panfilia (probabile allusione a Sigismondo Bathory), aveva rinunciato all‟incarico e vantava di averlo fatto per moderazione, Apollo risponde che avrebbe fatto esaminare da vicino la questione, acconsentendo a destinargli adeguata stanza in Parnaso «tra quelli altri semidei, che ai pericoli del regnare aveano preposta la tranquillità della vita privata» solo se si fosse potuto escludere il caso di una defezione «per inezia di genio vile», per incapacità a sostenere «il grave peso del regnare», perché la vera moderazione si dimostrava nel tollerare con cuore franco i casi avversi (15). Il duca di Rodi, uomo notoriamente pieno di vizi, chiede ad Apollo un rimedio ai pessimi costumi del suo popolo e gli viene risposto che avrebbe ottenuto il suo intento solo correggendo prima i propri, «non potendo esser di meno che i popoli non fossero scimmie de‟ prencipi loro» e «non essendo possibile che un prencipe che viveva con costumi da demonio, non avesse i suoi sudditi tanti diavoli, tutti peggiori di lui» (16). Un giovane si lamenta d‟esser stato cacciato dalla setta degli stoici nel

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bel mezzo del suo noviziato; richiesto da Apollo dei motivi di ciò, Epitteto spiega che proprio la modestia, il comportamento ineccepibile e l‟apparente mancanza di difetti del giovane avevano destato il sospetto che occultasse «vizi affatto diabolici» (17). Giacomo Buonfadio si lamenta per esser stato ucciso dai genovesi a causa delle verità anche scomode che aveva pubblicate scrivendo la storia della città; Apollo, pur riconoscendo la falsità dei pretesti addotti per giustiziarlo (sulla scia dei sodomiti danteschi, si direbbe, era comparso nella sala delle udienze «dal fuoco tutto brustolito»), lo rimprovera per aver scritto in tempi ancora troppo vicini ai fatti, cose pregiudizievoli dell‟onore dei potenti, anche se vere, imprudenza inammissibile negli storici, che dovevano imitare «i vendemmiatori e gli altri accorti collettori de' frutti» nel «lasciar che il tempo conducesse i fatti e le cose passate alla perfezione loro» (18). Apollo, di fronte a Zenone che, in partenza per un‟ambasceria, si congeda, reagisce prendendosela coi principi - che si servono degli stoici come emissari per non spendere e soprattutto per poter ingannare più facilmente - e cogli stoici stessi - che in apparenza rifiutano l‟ambizione e la mondanità, ma in realtà non disdegnano negozi di stato anche empi (19). Alcuni principi, abituati alla comodità di ottenere a sera ciò che desideravano la mattina e per nulla allenati alla fatica necessaria negli studi, chiedono ad Apollo di agevolare loro la difficile via che conduce ad apprendere le scienze e le arti liberali: Apollo suggerisce di innamorarsi del sapere e considerare le impervietà alla stregua dei sollazzi e degli spassi, e addita l‟esempio di Francesco Maria della Rovere, «il più universale, il più fondato letterato in tutte le più scelte scienze che avesse il presente secolo»: così avrebbero potuto raggiungere la cima del monte come se ci fossero arrivati in carrozza (20). Luca Gaurico si lamenta delle «cinque altissime strappate di fune» che gli avevano «stroppiata la riputazione», ricevute per aver predetto a Giovanni Bentivoglio che sarebbe stato cacciato dalla signoria di Bologna; Apollo irride l‟astrologia giudiziaria in quanto arte falsissima - come dimostrava quell‟episodio, in cui gli avrebbe predetto le sciagure altrui ma non le proprie - e suggerisce semmai la via dell‟adulazione per ingraziarsi i principi: essendo l‟astrologia infondata, «con l'ardita sfacciatezza di predire a' prencipi, gelosissimi della vita e buona fortuna loro, vicina morte e altri accidenti miserabili altri malignamente mostrava di desiderar loro tutti gl'infortuni che pronosticava» (21). Il conte di San Paolo si lamenta per il tradimento del re Lodovico undecimo che dopo avergli promesso il perdono l‟aveva fatto decapitare, ma Apollo lo rimprovera per la grossolana imprudenza commessa nel credere a un signore contro il quale si era armato, di cui avrebbe dovuto diffidare «come di una fune affatto fracida», perché «non altra più vergognosa cosa vedendosi in uno stato, quanto che vi passeggi chi aveva machinato contro la vita e lo stato del suo signore, i prencipi tutti minor vergogna loro stimavano mancar di parola, che viver con fregio tanto vergognoso al volto» (22). A Giovanpaolo Lancellotto che gli presenta un autocommento agli

Instituta canonica, Apollo rimprovera l‟opera di divulgazione del testo,

105 materie delle quali si scrive, con l‟usare con sommo artificio «una molto ristretta e succosa brevità») significa guadagnare in reputazione, poiché si lascia intendere di aver facilità a comprendere ciò che agli altri pare oscuro e ostico, e di rivolgersi a destinatari competenti; senza contare che l‟omissione lascia aperta la strada al seguito delle chiose altrui - col che però Apollo prende il destro per satireggiare i commenti che spesso finiscono col far dire agli autori «cose esquisitissime e dal suo autore non mai immaginate», come era accaduto ad Aristotile con l'«eminentissimo ingegno» di Averroe e a Omero coi suoi «felicissimi commentatori» (23). Claudio vorrebbe punire Agrippina per la sua infedeltà (dopo essersi avveduto che quella «fino aveva amati gli abbracciamenti del vilissimo suo servo Pallante»), come già aveva fatto con Messalina, e chiede ad Apollo di stanarla dalla casa di Talia dove la donna si era rifugiata come in un porto franco; Apollo non lo asseconda e anzi lo caccia, infiammato di sdegno perché non meritava di essere aiutato chi dopo aver avuto una moglie impudica ricadeva per la seconda volta nello stesso errore (24).

A Agrippa Menenio, console nel 503 a.C.;

Bonfadio Giacomo (n. prima del 1509-giustiziato il 19 luglio 1550): di Salò, umanista e storiografo a Genova [nota F];

Bussone Francesco, detto Carmagnola (1380 ca-1432); Cino da Pistoia (1270 ca-1336 o ‟37);

Claudio (al potere dal 41 al 54); duca di Rodi;

editori [nota F]: Sebastiano Greyff di Reutlingen (1493-1556), attivo a Lione; Guglielmo Roville di Tours (1518-1589), attivo a Lione (genero del precedente); Cristoforo Plantin di St. Avertin in Turenna (1514-1589), attivo ad Anversa; Giunti, di Firenze; Gabriele Giolito de' Ferrari da Trino (m. 1581), attivo a Venezia sotto l‟insegna della Fenice; Vincenzo Valgrisi, attivo a Venezia; Aldo Manuzio (1450-1515);

Epitteto (50 ca-130 ca);

Gaurico Luca (1476-1558): salernitano, matematico e astronomo [nota F];

Lancellotti Giovan Paolo (1522-1590), con il commentario Institutionis iuris canonici: perugino, docente di diritto canonico a Perugia (Boccalini fu suo allievo) [nota F];

Lucrezia romana (sec. VI a.C.);

Luigi di Lussemburgo, conte di Saint Pol (1418-1475) [nota F]; Mecenate (70 ca-8 a.C.);

Louis di Lussemburgo, conte di Saint Pol (1418-1475); Seneca (8 ca-65);

Sforza Riario Caterina (1463 ca-1509), figlia illegittima ma riconosciuta di Galeazzo Maria, moglie di Girolamo Riario, nipote di Sisto IV e signore di Imola e Forlì; detta la “Madonna di Forlì”; Tacito (55-120 ca), da Annales IV, XI, XIII: citato Publio Suilio, già questore di Germanico, visse con alterne fortune sotto Tiberio, Claudio e Nerone [nota F];

Tamerlano (1336-1405), conquistatore mongolo;

Vellutello Alessandro (n. ultimo quarto sec. XV), con la sua Spositione a Le volgari opere del

Petrarca: lucchese [nota F];

Vitelli Paolo (decapitato a Firenze il primo ottobre 1499): condottiero [nota F]; Zenone (333/2-263 a.C.).

B Agrippina, moglie di Claudio; Alessandro Magno (356-323 a.C.);

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Annibale (247-183 a.C.); Aristotele (384-322 a.C.); Averroè (1126-1198);

Bentivoglio Giovanni II (1443-1509), signore di Bologna [nota F]; Cesare (102-44 a.C);

Cicerone (106-43 a.C.);

Della Rovere Francesco Maria II (1548-1631), duca di Urbino, ultimo erede della dinastia; Elena, pers. mit.;

Ferramondo: potrebbe essere adattamento di Fieramonte, personaggio del Morgante, o forse si tratta di qualche personaggio a lui ispirato presente in qualche poema cinquecentesco;

Giovanni dalle Bande Nere (1498-1526): figlio di Caterina Sforza Riario e padre di Cosimo I de‟ Medici, capo della fanteria italiana della Lega di Cognac (1526);

Luigi XI, re di Francia dal 1461 al 1482;

Medici Cosimo I de‟, duca di Firenze dal ‟37 al ‟69, granduca di Toscana dal ‟69 al ‟74; Messalina, moglie di Claudio;

Omero (secc. VIII-VII a.C.);

Osman I (plausibilmente: nel testo Ottomano) (1299 ca-1326), fondatore della dinastia ottomana; Pallante, servo di Agrippina;

Pico della Mirandola Giovanni (1463-1494); Romolo, fondatore di Roma;

Talia, pers. mit.;

Tarquinio il Superbo (sec. VI a.C.); Virgilio (70-19 a.C.);

Vitelli Alessandro (decapitato a Firenze il primo ottobre 1499): condottiero, figlio di Paolo [nota F]; Principe di Cnido, pers. d‟invenzione (Zenone a suo servizio).

C Allusione (2° episodio) alla rivolta dei Paesi Bassi: cfr. I 23.

Allusione (3° episodio) alla guerra di Pisa - durante la quale, alla calata di Carlo VIII, la città rivendicò la libertà, sotto la protezione francese - e all‟uccisione di Paolo Vitelli, condottiero a capo delle milizie fiorentine, sospettato di tradimento e decapitato a Firenze il primo ottobre 1499. Allusione (3° episodio) alla repressione della reazione repubblicana a Firenze, stroncata nel 1537 nella battaglia di Montemurlo dalle forze medicee a capo delle quali si trovava Alessandro Vitelli, figlio di Paolo; nel 1537 venne ucciso il duca Alessandro.

Allusione (4° episodio) all‟uccisione del Carmagnola: passato dal servizio di Filippo Maria Visconti a quello della Serenissima in guerra con Milano, ma accusato di tradimento,viene giustiziato nel 1432.

Forse allusione (8°, 17° e 19° episodio), dietro il riferimento agli stoici, al potere dei gesuiti (nell‟ottavo episodio in particolare si fa riferimento a Seneca, nel diciassettesimo a Epitteto, nel diciannovesimo a Zenone): si veda 2.1.

Allusione (10° episodio) alla congiura ordita dai forlivesi contro Girolamo Riario (probabilmente con la connivenza del Magnifico che intendeva vendicare la partecipazione del Riario alla congiura dei Pazzi), che portò all‟uccisione del signore di Imola e Forlì (14 aprile 1488) e all‟energica reazione della consorte, Caterina Sforza, che riuscì a penetrare nella rocca di Ravaldino e non volle cederla neppure quando i congiurati minacciarono di ucciderle i figli. Liberata dall‟esercito dello Sforza e del Bentivoglio, vietò il saccheggio di Forlì e vi ritornò padrona, vendicandosi dei congiurati e mantenendo poi la signoria fino a quando Alessandro VI, per favorire il figlio, la privò degli stati (1499) e il Valentino assalì i suoi territorio coll‟aiuto delle armi francesi (1500) ed ebbe la meglio, nonostante la strenua resistenza della donna che combatté ella stessa dirigendo la difesa.

Allusione (13° episodio) alle imprese di Tamerlano che, dando prova di estrema ferocia nei saccheggi, conquistò ai mongoli terre in oriente e in occidente, ma alla cui morte l‟impero andò rapidamente in sfacelo.

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Forse allusione (15° episodio) a Sigismondo Bathory (1572-1613) che, contrastando la tradizionale politica del suo paese si alleò con gli Asburgo contro gli ottomani ma poi, battuto dai turchi, nel 1598 rinunciò al trono di Transilvania a favore dell‟imperatore Rodolfo II (salvo poi ritornare sui propri passi, più volte e in modo contraddittorio) [nota F];

Forse allusione (ancora 15° episodio) agli attriti fra Luigi XI re di Francia e il figlio Carlo VII, che attese a lungo il trono salendovi solo trentottenne: si accenna, per converso, a «que‟ prencipi prudenti, che, con la presta rinunzia degli stati fatta ai figliuoli, avevano saputo schivar l‟inconveniente di venire a qualche lacrimevol termine con essi, divenuti già impazienti della vita privata». A Luigi XI (e in particolare alla contesa del re con Carlo il Temerario, duca di Borgogna) si allude esplicitamente nel prosieguo del ragguaglio, in cui peraltro si riscontrano connessioni e riprese interne anche fra altri episodi.

Col riferimento al duca di Rodi (16° episodio), per il quale Firpo non propone identificazioni - ed effettivamente a quanto consta non è dato di rinvenire a Rodi, perlomeno in età moderna, alcun “duca” in senso proprio -, forse si allude metaforicamente ad uno (anche se non è facile stabilire quale) dei Gran Maestri dell‟Ordine dei Cavalieri di San Giovanni (poi detto di Malta), che rimasero a capo dell‟isola per oltre duecento anni, dall‟inizio del XIV secolo, fino all‟occupazione turca nel 1523.

L‟isola, presa probabilmente nel 1308 (anche se la data esatta non è sicura) con galere dell‟Ordine suddetto e del signore di Lero e Coo (Vignolo de‟ Vignoli), rimase base avanzata della cristianità d‟Occidente verso il Levante e caposaldo contro i turchi fino a quando, sotto Solimano il Magnifico, una spedizione guidata dal sultano in persona e dal primo visir ne cinse d‟assedio la fortezza, costringendo il Gran Maestro (fra Filippo Villiers de l‟Isle-Adam) a capitolare e ad abbandonare l‟isola con i cavalieri superstiti e alcune centinaia di rodioti, alla volta di Creta e dell‟Italia. Quando nel 1500 venne stretta un‟alleanza antiturca fra il papa e quasi tutti gli stati cristiani d‟Europa, a capo della lega venne nominato come capitano generale l‟allora Gran Maestro di Rodi.

Allusione (18° episodio) all‟esecuzione del Bonfadio avvenuta il 19 luglio 1550: per aver ferito l‟onore di alcune potenti famiglie nei suoi annali genovesi, scritti per incarico pubblico, venne decapitato dopo un sommario processo sotto mentite accuse di omosessualità (cui Boccalini pare alludere, sulla scia dei sodomiti danteschi, quando lo fa comparire «dal fuoco tutto brustolito»). Allusione (21° episodio) alla cacciata di Giovanni II Bentivoglio, signore di Bologna dal 1462, avvenuta nel 1506 per volere di Giulio II.

Allusione (22° episodio) al contegno ambiguo tenuto dal conte di Saint Pol nella lotta fra Carlo il Temerario e Luigi XI, che lo fece decapitare.