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Dai codici napoletani, spesso corrotti e lacunosi (soprattutto i primi due) e dunque emendati e integrati congetturalmente, sono stati ricavati i relativi ragguagli peculiari: 4 da N1 → III 81-84;

10 da N2 → III 85-94; 2 da N3→ III 95-96.

Per i titoli, assenti nella terza centuria ma aggiunti per omogeneità colle prime due, F. ha seguito dove possibile i codici, quindi gli indici autografi di P e, per i primi ventinove ragguagli, Cetra ed S, sopperendo a quelli mancanti con integrazioni ricavate il più possibile dai relativi contesti; sempre nella terza centuria inoltre ha integrato a pie‟ pagina i rinvii a Tacito, secondo l‟uso dell‟autore e completandoli, per tutte e tre le centurie, con l‟indicazione precisa dei capitoli.

In coda a Le traduzioni (§ VIII), infine, F. avverte circa la forma linguistica, per la quale ovviamente si è attenuto ai criteri seguiti nell‟edizione Farri-Barezzi (sui quali l‟autografo, pur non sempre costante, generalmente converge) e circa la grafia, resa secondo l‟uso moderno.88

Sulla triplice articolazione delle Annotazioni

88 F., certo, avverte su ciò un po‟ sbrigativamente: dando per inoppugnabile la fedeltà ai criteri delle stampe 1612-13 e assodati i criteri moderni di resa grafica; né bisogna dimenticare i limiti spaziali concessi alla Nota dalle norme tipografiche.

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precisa che la prima sezione dell‟apparato riporta i testimoni, i criteri selettivi del testo e del titolo e gli indizi cronologici; la seconda, l‟elenco delle emendazioni e delle varianti di rilievo; la terza, in primo luogo per restrizioni editoriali, essenziali note esplicative dei riferimenti storici e della rete di allusioni allegoriche.

Che sono altrettanti punti forti dell‟edizione.

Riassumendo: sulla genesi e stesura dei Ragguagli dagli studi di Firpo si ricava complessivamente che Boccalini vi lavorò presumibilmente dal 1605 fino alla morte e in particolare dal 1605 al ‟10, visto che già nell‟ottobre di quell‟anno si dà da fare per ottenere dai principi italiani i privilegi di stampa.89

Fino al 1611 li chiama Avvisi dei menanti di Parnaso (è noto che la modifica del titolo gli fu suggerita dal Caetani).

Abbiamo testimonianza sia di una circolazione manoscritta parziale dei ragguagli - spicciolati o attraverso sillogi più o meno nutrite, soprattutto di argomento politico, perlopiù non confluite nelle centurie - sia del procedere della composizione:

nel settembre 1607 Boccalini progetta di offrirne una raccolta a Enrico IV; dopo i primi di febbraio 1609 invia una raccolta al marchese d‟Alincourt; nel maggio 1609 in una lettera privata, a cui allega la minuta di un

ragguaglio, dice di averne pronti 209 e di essere a buon punto col terzo centinaio (poi a quanto pare vagheggiò anche una quarta centuria);

nel giugno 1609 invia una silloge al card. Borghese;

nell‟ottobre 1610, come si è detto, inizia a cercare i privilegi di stampa; nell‟agosto 1612, già a Venezia, invia una raccolta a Giacomo I d‟Inghilterra;

a metà ottobre 1612 esce la Prima Centuria;

il 10 novembre 1612 Orazio Pauli, segretario del residente dei Savoia a Venezia, nell‟inviare al duca tre copie d‟omaggio della prima centuria, lo avverte che l‟autore aveva scritto altri ragguagli simili che però non aveva dato alla stampa perché forse non gli sarebbe stato permesso, ma che «vedendo che gustano ad alcuni, a chi li communica», avrebbe fatto in modo di «carpirne qualcuno» per inviarglielo;90

l‟8 dicembre 1612 l‟ambasciatore stesso, il conte Carlo Emanuele Scaglia, informando il duca del successo dei Ragguagli, aggiungeva: «e perch‟egli ne ha de‟ molti, che non vuole stampare per toccare troppo nel vivo gli

89

Lo si desume dalla lettera del 13 ottobre 1610 da Roma, a Francesco Maria II Della Rovere, cui scrive: «perché tra pochi mesi desidero mandar alla stampa alcune mie composizioni politiche e morali, umilissimamente supplico Vostra Altezza farmi grazia del privilegio […]».

90

Cito da Le edizioni italiane della «Pietra del paragone politico» di Traiano Boccalini. I: Le

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interessi de‟ principi, ho persuaso esso dottore a darmene un paio […] e m‟ha dato i due ragguagli che le invio»;91

nel settembre 1613 il duca Ferdinando Gonzaga concede il privilegio di stampa valido nei suoi stati per «anni dieci», per la «prima, seconda, terza e quarta Centuria de‟ Ragguagli di Parnaso», dopo più di un anno da quando Boccalini ne aveva inoltrato richiesta al fratello del duca, Francesco II, attraverso la mediazione dell‟allora cardinale;

a metà ottobre 1613 esce la Seconda Centuria.

Il frontespizio autografo della Centuria postuma non lascia dubbi sull‟intenzione dell‟autore di affidarne una terza ai posteri: per i contenuti e nella consapevolezza della morte ormai imminente.

Da una silloge di ragguagli inediti circolata presso nobili veneziani amici o estimatori dell‟autore, morto quest‟ultimo e venuto meno l‟impedimento (anche se non ogni ostacolo) alla pubblicazione, viene ricavata ai primi di dicembre 1614 la

princeps della Pietra. Lo provano: indirettamente, la missiva del 13 del mese con

cui lo Scaglia ne accompagna l‟invio di un esemplare al duca di Savoia («non è stata stampata prima per li caldi offici fatti con questi signori dall‟ambasciatore spagnuolo acciò non lo permettessero. Tuttavia, trovandosene copia appresso di qualche nobile veneziano, l‟han fatta imprimere sotto finto nome del stampatore e luogo; però è stata fatta nel territorio di questi Signori»);92in modo più diretto, quella dell‟autore stesso (poi premessa alla Pietra), presumibilmente a un ignoto destinatario veneto, in cui dichiara di voler tenere lontano dalle stampe «come dal fuoco» un gruppo di ragguagli, che però desidera «occultar nella famosissima biblioteca» del suo corrispondente.93 Per quanto maldestro, è il primo tentativo di esaudire l‟ultima volontà dell‟autore.

1.3. Sullo stato delle conoscenze

Su questa piattaforma, a partire da un importante studio di Harald Hendrix sulla fortuna e ricezione dei Ragguagli, nell‟ultimo quindicennio si è assistito ad un rinnovato interesse per la produzione boccaliniana, che si è ulteriormente intensificato nel decennio appena concluso, di cui sono testimonianza numerosi contributi che affrontano per lo più singoli aspetti delle due opere maggiori, indubbiamente complesse.94

Senza pretendere di dare una rassegna bibliografica esaustiva, riprendo per sommi capi gli apporti di alcuni di questi saggi. Non senza premettere il riferimento ad alcuni degli interventi apparsi prima e dopo i lavori di Firpo, a

91

Ibidem, p. 69. 92

Cito da La terza «Centuria» inedita dei «Ragguagli di Parnaso» di Traiano Boccalini, cit., p. 181 n. 3.

93

Ibidem, p. 69.

94 Spaziando, per rimanere all‟opera narrativa, dall‟indagine sul genere del ragguaglio parnassiano (antecedenti e imitazioni, rivisitazioni censurate) a quella sul superamento della cultura regolistica tardo-rinascimentale e su altri aspetti isolabili dell‟opera.

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partire dal giudizio negativo di De Sanctis (la prima parte è riportata in 3.1.)95 - anche in questo caso senza mirare all‟esaustività e dando comunque per descritta nei lavori di Firpo la bibliografia a lui precedente.96

Ricordo quindi:

1. La monografia di Francesco Beneducci apparsa a fine ‟80097

e un contributo uscito a inizio ‟900.98

Nel primo caso si tratta di un saggio d‟insieme sulla vita e le opere (Ragguagli,

Pietra e Osservazioni ), che oggi non risulta di grande interesse in quanto offre

elementi e spunti poi confluiti nei lavori di Firpo, e accenni a una definizione critica ancora troppo vaga dell‟opera, oltre ad alcune note biografiche e al tentativo di individuare da un lato le possibili fonti di ispirazione dei Ragguagli (in particolare riallacciandoli alla moda degli avvisi che circolavano a Roma fino dal 1550 con notizie di ogni genere, pubbliche e private, politiche, commerciali, religiose, provenienti da varie città italiane),99 dall‟altro gli imitatori.

Certamente più interessante, se si prescinda dallo stile verboso e datato, il secondo saggio che, mentre ripete l‟idea di De Sanctis circa la mancanza di unità dei Ragguagli (parla di «una lunga filza d‟idee sconnesse e tutte, per dire così, principali»)100, per quanto attenuata dal riconoscimento a Boccalini delle doti di umorista finissimo,101 propone già in nuce le posizioni che saranno di Toffanin (Boccalini non ha saputo proporre concretamente soluzioni alla crisi del Seicento) e di Meinecke (non poteva):

[…] si devono tuttavia chiarire alcuni punti: se abbia saputo svolgere e ordinare le sue osservazioni quotidiane in una stretta serie d‟idee [ancora sull‟impressione di una mancanza di

unità quindi]; se abbia proposto per i molti mali della spagnolesca società del seicento rimedi

efficaci, e se nel far ciò abbia precorso i tempi, o, come avviene spesso, sia rimasto con un piè fermo nel vecchio e l‟altro incerto sul nuovo, per difetto di dottrina e di facoltà naturali.

E poi:

95

Qui la seconda metà. Cito da F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di G.

Contini, Torino, UTET, 1973, cap. XVIII (su Marino), pp. 631-32 : «È un mondo [il Parnaso] sciolto in atomi, senza vita e coesione interna. La critica, priva di un mondo serio, in cui si possa

incorporare, si svapora in sentenze, esortazioni, sermoni, prediche, declamazioni e generalità retoriche, tanto più biliosa quanto meno artistica».

96

Escludo invece dalla rassegna le sezioni dedicate a Boccalini nella manualistica. 97

Saggio sopra le opere del Boccalini, Bra, Tipografia Racca, 1896.

98Il pensiero e l‟arte di Traiano Boccalini nei «Ragguagli di Parnaso», in «Rivista d‟Italia», 1909, pp. 817-36.

99

Su questo si veda M. Infelise, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli

XVI e XVII), Bari, Laterza, 2002.

100

Beneducci, Il pensiero e l‟arte di Traiano Boccalini nei «Ragguagli di Parnaso», cit., p. 825.

101

«Più arguto e vario e svelto e sottile degli scrittori moderni», anche se «il suo secolo lo fece un cattivo scrittore»: Ibidem, p. 836.

35

Ma d‟altra parte pretendere che il Boccalini distrigasse la matassa arruffata del suo secolo, scoprisse le cause di tanti mali, suggerendo i mezzi più sicuri per distruggerle o sfuggirle, è una delle solite corbellerie del senno di poi.102

2. Il verdetto di Croce, cui ho già accennato, che su Boccalini si espresse almeno nell‟11,103 nel ‟29104 e nel ‟52.105

Nei Saggi sulla letteratura italiana del Seicento Croce definisce le allegorie una parodia della mitologia equivalente a una freddura: «una pedanteria tipica dell‟epoca in cui la letteratura italiana scendeva la sua china».

Nella Storia dell‟età barocca in Italia si accenna ai Ragguagli, in realtà in modo ancora troppo generico, in due luoghi: di essi in primis si dice che «meritarono la loro riputazione in Italia e fuori per la ricchezza e l‟assennatezza e talvolta la novità dei pensieri che presentavano» (p. 154); nel secondo passo invece torna la svalutazione delle figurazioni mitologiche - «invenzioni senz‟alcuna vaghezza e prive di vita, ma che s‟incontravano coi gusti del tempo» - che però, a parziale risarcimento del loro autore, risulterebbero l‟unico aspetto dell‟opera tacciabile di barocchismo (p. 447).106

In Poeti e scrittori del pieno e del tardo rinascimento Croce pronuncia il giudizio definitivo, drastico: riconosce vigore ai due scritti politici giovanili (oltre al

Discorso di un italiano, ritenuto autentico, il Dialogo sull‟Interim) di impronta

ancora cinquecentista, anche se li trova estranei all‟ingegno e al temperamento dell‟autore e per questo privi di conseguenze pratiche; ma, passando alla collocazione dell‟autore all‟interno del tacitismo (e sottoscrivendo implicitamente la tesi di Toffanin) svaluta l‟“indecisione” di Boccalini, sospeso (come lo descrisse Meinecke, che invece è citato) fra realismo e giudizio morale, ritenendo questa posizione priva di «pregio scientifico» in quanto sostanzialmente inetta a proporre nuove prospettive; mentre per quanto riguarda i Ragguagli il critico di nuovo estende anche al contenuto, o meglio alle invenzioni allegoriche, l‟accusa di barocchismo e secentismo già avanzata da Beneducci in relazione allo stile, dichiarando di volersi astenere dal dimostrare il giudizio poiché ciò «si ridurrebbe a uccidere un morto» (!).

I fondanti, e contrapposti, giudizi di Toffanin e Meinecke.

102

Ibidem, p. 825.

103

Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1962 [19111], pp. 126-27.

104Storia dell‟età barocca in Italia. Pensiero, poesia e letteratura, vita morale, Bari, Laterza, 1967 [19291],passim.

105

Traiano Boccalini, «il nemico degli spagnuoli» in Poeti e scrittori del pieno e del tardo

rinascimento, Bari, Laterza, 1970 [19521], cap. XXIX, pp. 285-97.

106 Nell‟opera Boccalini è citato altre volte, però solo di passaggio e in contesti più specifici oppure non relativi alle prose narrative: in ogni caso senza ipoteche negative.

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3. Toffanin discute della posizione di Boccalini, come ho già anticipato, in

Machiavelli e il «Tacitismo», nel capitolo IX Il tacitismo rosso che però non può

essere considerato indipendentemente dal resto dell‟opera, dove il critico mette a fuoco, in modo arduo per un lettore mediamente attrezzato, la sostanza della personalità e del pensiero di Machiavelli innanzitutto e di Tacito in secondo luogo - e di entrambi riesce a far sentire la grandezza acre e superba -, individuandone poi il riflesso negli epigoni («i rapporti di concorde discordia fra i due personaggi [Tiberio e il Valentino] e i due grandi padri sono tutta la storia del tacitismo»),107 dagli inizi fino al termine del fenomeno propriamente detto, nel Settecento. Richiamo pertanto - sommariamente - gli snodi messi in luce in questa ricostruzione, che rimane uno studio fondamentale e in certa misura s‟impone per la capacità di penetrazione e la densità speculativa non “comunemente” impegnative, che a volte sfuggono alla comprensione del lettore, e non certo solo in forza dello stile, molto personale e ostico, di una prosa che può ben essere avvertita come ormai lontana.

In origine dunque c‟è un Machiavelli, «fatale fanciullo» dal passo «sicuro e sagace», che si nutre di Tacito, anche più che di Livio, e mentre commenta le

Decadi agli Orti Oricellari, adattandosi a un ambiente ancora attardato

nostalgicamente sull‟ideale repubblicano, nella solitudine dell‟Albergaccio medita sullo storico dell‟impero108

e ne trae linfa vitale per il Principe,109 con ciò diventando di fatto l‟”inventore” di Tacito e l‟iniziatore del tacitismo.

Mentre il realismo e la lucidità di Machiavelli si pongono come punto di non ritorno nel pensiero politico occidentale, giunge però, inevitabile, la condanna all‟Indice - cose assodate.

Da qui prende avvio il tacitismo, che - tolte alcune eccezioni110 - esprime perlopiù personalità mediocri ma che, come è tipico delle elaborazioni collettive, nell‟insieme perviene acutamente alla consapevolezza che in Tacito si può

107

Tanto Tacito quanto Machiavelli vedono la necessità del principato, ma da due prospettive e con due stati d‟animo opposti: il primo a posteriori, e con un senso di ripugnanza per gli abusi degli imperatori, il secondo con fede in una realizzazione ancora di là da venire; Tacito muove verso il cristianesimo (inconsapevolmente) da un‟esigenza nuova di coscienza individuale, Machiavelli muove verso il paganesimo per l‟esigenza di una religione che insegni a fare e non a patire: si veda Ibidem, cap. III, §§ 1-3, pp. 61-74.

108

Di cui coglie, radicitus, tutto il valore pur non avendo a disposizione i libri più determinanti, quelli di Tiberio, che verranno alla luce solo di lì a poco (scoperti in Vestfalia da Angelo Arcimbaldo nel 1513, furono pubblicati per volere di Leone X a cura di Filippo Beroaldo). 109

Sulla chiaroveggenza dai cui nacque il libello politico, destinato però a rimanere lettera morta perché troppo in anticipo sui tempi: «che cosa sarebbe stato egli se non un povero politico “alla filosofica” se avesse seguitato a rimpiangere con gli altri l‟illegittima libertà perduta? E che cosa avrebbero potuto essere i Medici se, da quei tempi, avessero saputo sprigionare le grandi possibilità? Con tale animo quell‟uomo ironico che, nei “discorsi”, procedeva lento e cauto, si raccolse all‟”Albergaccio” e, d‟un fiato, scrisse un libro ardente come una lirica che, essendo un atto di fede in se stesso, aveva bisogno d‟esprimersi come atto di fede in qualcuno (e non c‟eran altri che i Medici): un libro che avrebbe aspirato a rimaner manoscritto e ad esser letto da un solo, se avesse trovato il suo lettore»: Machiavelli e il «Tacitismo», cit., pp. 44-45.

110 Quelle dei primi esponenti, intorno alla metà del ‟500 (vengono menzionati in particolare Andrea Alciato, Emilio Ferretti e Marcantonio Mureto, tutti e tre giuristi), e di Lipsio, nell‟ultimo quarto del secolo.

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trovare, in nuce, Machiavelli e, in più, ma in più, una tensione morale111 sconosciuta al fiorentino (che in questo aveva tradito il maestro, che lo aveva in parte deluso, e mentre quello condannava Tiberio, lui non poteva che lodare il Valentino) e invece capace di incontrare l‟ideologia controriformista e l‟esigenza di cui essa è portatrice, se non di un ritorno alla legge umana e divina (mai osservata sulla terra ma per secoli punto di riferimento indiscutibile), almeno di una mediazione fra le istanze della politica e quelle della morale.112

La capacità critica nei confronti di questo indirizzo di pensiero è, secondo Toffanin, ciò che fa di Boccalini il più grande tacitista, e delle sue Osservazioni «il più genuino, ossia il più intelligente» dei commenti a Tacito (p. 205). Boccalini cioè seppe vedere il tacitismo per quello che era, liberandolo dalle scorie del tempo: una copertura - dalla facies antimachiavellica - del machiavellismo, appunto, «il ripiego controriformista al guaio machiavellico» (p. 196), «la grande convenzione del secolo» (pp. 193 e 199). Questa capacità di rimettere nelle giuste proporzioni il rapporto fra Tacito e Machiavelli, «i dioscuri del pensiero politico contemporaneo» (p. 195), correggendo il tiro alla forzatura della Controriforma che pro domo sua accentuava l‟istanza morale di Tacito, questo senso critico, nei Ragguagli in particolare, secondo Toffanin si riflette nella drammatizzazione dei processi per empietà cui vengono sottoposti entrambi gli autori-personaggi: che mette in scena da un lato l‟iniziale assoluzione, seguita però dalla condanna, di Machiavelli (assolto per il realismo cui si è attenuto nel descrivere l‟agire dei principi, ma condannato per la contraddizione in cui è caduto nel divulgare le strategie della politica necessarie alla conservazione dello stato); dall‟altro l‟assoluzione piena di Tacito, che però, secondo l‟ interpretazione dello studioso - direi persuasiva - andrebbe letta come riposta ironica all‟ipocrisia dei colleghi tacitisti, detrattori di Machiavelli.113

Il ravvisare poi in Boccalini un «mezzo ribelle» (p. 196),114 «un malcontento che s‟è reso conto dell‟ipocrisia contemporanea e, in parte, del processo storico che

111

Sempre sottili le osservazioni sul cristianesimo inconsapevole di Tacito, che attraversano a più riprese le pagine di Toffanin: si vedano in particolare Ibidem, pp. 30, 61, 65-69.

112

Diverso quanto accadeva invece sul fronte della Riforma che, considerando non solo distinte ma totalmente autonome e indipendenti fra loro la sfera politica e quella religiosa, si trovava in aperta sintonia col pensiero di Machiavelli: si veda in particolare Ibidem, cap. IV, § 4, pp. 95-100. 113

Al «tacitismo critico» è dedicato il capitolo VIII, in cui è centrale la figura di Giusto Lipsio, curatore della prima edizione critica di Tacito (1576) e autore di un trattato politico, i Politicorum

libri sex (1589). Il suggerimento di Lipsio, che pure rimase nell‟orbita controriformistica, era che

Tacito rappresentasse un progresso rispetto a Machiavelli, senza però essere in contrasto con questo: «uno solo, fra i neri [sc. i tacitisti ortodossi], Giusto Lipsio, riuscì a rendersi conto con una certa chiarezza di esso [il compromesso machiavellico-tacitista], e, pur seguendo la corrente ufficiale, riuscì a conciliare il culto di Tacito con un timido riconoscimento della grandezza di Niccolò e della relativa affinità dei due spiriti» (Machiavelli e il «Tacitismo», cit., p. 177): da questa riabilitazione - per quanto cauta e probabilmente propiziata più dal contatto col mondo protestante (Lipsio era fiammingo e insegnò in giro per l‟Europa) che dal «vigore dell‟intelletto» - Toffanin ritiene abbia preso le mosse anche il commento di Boccalini a Tacito. Mentre la critica più vera al tacitismo nacque a fine ‟600 in seno ai gesuiti stessi, accortisi del confine troppo labile fra tacitismo nero e rosso (per queste due “varianti” si veda appena oltre).

114

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l‟ha generata, ma, se riesce a far la critica del tempo suo con notevole forza dissolvente, si mostra però intaccato pur egli dal marasma comune e non riesce a combattere in nome d‟una diversa vita civile fortemente sperata o pensata» (p. 201) - che equivale a prendere le distanze dalla lettura risorgimentista115 ed è a sua volta la pars destruens su cui si appunta la critica di Meinecke - induce Toffanin a collocarlo nel “tacitismo rosso” solo in senso lato, più che altro per distinguerlo, per via contrastiva, dalla corrente del “tacitismo nero” (che vede in Tacito un teorico dell‟idea imperiale, un codice di tirannia, e dunque è inconciliabile con l‟antiassolutismo di Boccalini),116 e anche perché di “tacistimo rosso” in senso vero e proprio (che vede in Tacito un oppositore dell‟idea imperiale, che si presta a una lettura liberale o «petroliera» - repubblicana e proto-democratica o addirittura eversiva) si può parlare solo a partire dalla rivoluzione francese.

Tacitista in quanto - è chiaro - trovava nei tempi descritti da Tacito una stretta somiglianza coi suoi,117 Boccalini, come lo storico romano, non propone però alternative - ripete Toffanin:

[…] il tacitismo del Boccalini è, in fondo, il più vicino alle intenzioni dello stesso Tacito, il quale non aveva nessun ideale concreto da opporre all‟Impero.

[…] con questa differenza, però, che, dalla lettura di Tacito, resta nel sentimento, possente residuo, una malinconia tragica in cui s‟imposta il problema del bene e del male, una ripugnanza