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«Il mondo in quanto sfondo familiare, domestico, appaesato, ovvio, normale, abitudinario sta come indice di possibili percorsi operativi in cui vivono la operosità umana di millenni, le plasmazioni utilizzatrici maturatesi in evi di tradizioni, e infine la biografia del singolo sino alla situazione presente: per questa multanime e corale risonanza di sforzi comunitari tradizionalizzati e trasmessi il mondo acquista inauguramente un fondamentale senso di operabilità, e il familiare, il domestico, ecc. non vogliono altro dire che questo: avanti, non sei solo, non sei il primo, non sei l'unico, ma stai in una immensa schiera che marcia, e che solo per una parte infinitamente piccolo è composta attualmente di viventi.»72

Poche pagine dopo De Martino continueranno dicendo «Due antinomici terrori governano l'epoca in cui viviamo: quello di perdere il mondo e quello di «essere perduti nel mondo»73. Quello che temiamo non è la morte come fine ultimo, ma da una parte si teme il

senso dello stare al mondo, che sia la vita in società, con gli altri, la vita morale, ciò che offre uno scopo. Dall’altra parte l’angoscia viene generata proprio dalla chiusura dell’orizzonte, senza speranza o fede nella possibilità che vi sia un altro mondo, il fatto che un mondo storico possa cessare con la minaccia del nulla che si nasconde fuori dalla porta.

71 Ibidem, p. 27.

72 E. De Martino, La fine del Mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, cit., p.471. 73 Ibidem, p. 475.

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La minaccia del nulla, la perdita della presenza dell’individuo, la mancanza di senso su cui ci poggiamo è la più grande angoscia e minaccia che ci accompagna da quando abbiamo stabilito ciò che invece è fisso e immutabile.

Ripensiamo un attimo all’esempio di De Martino di cui ho parlato nel primo capitolo, “Il Campanile di Marcellinara”, che per il contadino lucano rappresentava il centro della terra intera, l’orizzonte culturalizzato, «una sinistra avventura che aveva minacciato di strapparlo dal suo Lebensraum, dalla sua unico Umwelt possibile, precipitandolo nel caos.»74

Tutti noi abbiamo il nostro campanile, ciò che ci permette di sentire il terreno sotto i piedi che ci offre orizzonti di significato, piccole abitudini su dove andare a bere il caffè, il tragitto che compiamo per andare al lavoro, come muoverci dentro casa nostra, dove possiamo orientarci attraverso lo spazio e il tempo, attraverso le relazioni di significato che vi sono tra le persone e tra gli oggetti. Ma che è necessario a volte porre in questione, risemantizzare, o semplicemente mettere in luce, raccoglierci per capire che tipo di mondo ambiente, di che domesticità si tratta e come prende vita, per ripresentificarci e per superare la minaccia, o per meglio dire l’angustia generata dal nulla attorno a noi.

«L'uomo è sempre nel trascendimento: ma appunto per questo non trascende mai lo zero, ma la multanime mondanizzazione culturale che ci condiziona nel trascendere Quando l'uomo esperisce davvero il limite del suo mondo e si affaccia sul nulla perché non sa più trascenderlo (il campanile di Marcellinara), quando l'ordine delle sue memorie culturali dilegua, è il mondo che sprofonda: e tanto poco questo esperire può venir celebrato come libertà, che si tratta di una estrema servitù di una catastrofe dell'esistenza e dell'esistente: la nuda esistenza, nuda cioè di storia umana, è assenza totale, annientamento di sé e del mondo, infedeltà radicale alla vera condizione umana. Certo la nausea di Sartre, circoscrive un rischio reale: ma questa nausea deve essere coperta, e proprio questa doverosa copertura fonda le umane civiltà, i mondi culturali concreti nei quali vivere e compiere, se storicamente necessario, i mutamenti più radicali. Non si tratta di «mascherare» la nausea, ma, al contrario, di «smascherarla», sottraendole i prestigi religiosi che ancora la rivestono di tragici splendori: che cosa essa sia propriamente al di là delle mistificazioni della crisi ce lo può indicare l'analisi della nausea, dell'angoscia, della depersonalizzazione, della fine del mondo in psicopatologia»75

Questa nausea, questo rischio sempre presente di cogliere la vita totalmente spoglia, priva di qualsiasi tipo di valorizzazione umana, di tutte le memorie culturali di tutto ciò che ci

74 Ibidem, p. 480. 75 Ibidem, p.529.

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addomestica il mondo e ce lo rende familiare, questa nausea è il rischio del nulla della dine del mondo. In questa perdita dell’abitudinario, del domestico, quando ci si è agitati-da qualcosa e non si ha più il controllo subentra l’angoscia come fosse l’unica stimmung da noi comprensibile davvero.

In questa perdita di significatività , questo ricadere nel « rischio radicale di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile, proprio il mondo dell'utilizzabile (del «familiare») è colpito dalla crisi appunto perché costituisce la testimonianza fondamentale dell'esserci-nel- mondo: ed ecco che la pipa o la forchetta o la maniglia della porta o il bicchiere di birra diventano un problema, cioè smarriscono il loro significato di soluzioni culturali dell'utilizzabile, e si spalancano per così dire sul «nulla» »76.

Il mondo in questa perdita di senso diventa come indigesto, non si colloca più dentro quell’ orizzonte di valorizzazioni e presentificazioni, storiche compongono il mondo stesso e dentro le quali ci muoviamo senza soffrire costantemente l’esperienza dello spaesamento, il nostro mondo è innanzi tutto un mondo di lavoro, ci è familiare perché è il prodotto della vita comunitaria, che si esplica nel corso della storia. Per questo secondo De Martino l’uomo è fondamentalmente già da sempre nel trascendimento e questo trascendere è sempre riferito a una moltitudine culturalmente condizionata.

L’essere umano si trova a essere quindi diviso tra la possibilità di cadere nel nulla, dalla nausea e dall’angoscia, la perdita del campanile di Marcellinara e dai suoi orizzonti di senso e dall’altra parte il suo essere in un trascendimento comunitario, essere sempre in un mondo ben preciso storicamente e spazialmente sempre in relazione con persone e oggetti.

Questa relazione con il mondo è quindi la chiave per riscattare il proprio mondo e uscire dalla condizione esistenziale del’ angoscia.

«Stringevo con forza, tra le mani, il volume, che stavo leggendo: ma anche le sensazioni più violente erano smussate. Niente pareva reale: mi sentivo circondato da uno scenario di cartone che poteva essere smontato da un momento all'altro. Il mondo aspettava, trattenendo il respiro, aspettava la sua crisi, la sua nausea ... Mi sono alzato. Non potevo più star fermo in mezzo a quegli oggetti indeboliti. Sono andato alla finestra, a gettare un'occhiata al cranio d'Impétraz. Mormoravo: Tutto può accadere, tutto ... Guardavo con terrore quegli esseri instabili che forse tra un'ora, tra un minuto, sarebbero crollati. Ebbene, se, ero lì. in mezzo a quei libri di scienza pieni di scienza, alcuni dei quali descrivevano le forme immutabili delle specie animali, altri spiegavano la quantità di energia che si conserva

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integralmente nell'universo; ero lì, davanti ad una finestra i cui vetri avevano un determinato indice di rifrazione. Ma che deboli barriere! […]

La crisi di presentificazione che investe il mondano del suo orizzonte familiare, domestico, di utilizzabilità, può tradursi in diversi vissuti che non sono semplicemente enumerabili nella loro casualità, ma che sono comprensibili unitariamente come variazioni di uno stesso vissuto fondamentale, come modi limitati in cui alla coscienza può emergere tale vissuto fondamentale, il rischio di non poterei essere in nessun mondo culturale possibile. […]

Il vissuto di difetto semantico. Inconsistenza degli oggetti. Oggetti <<indeboliti». Oggetti irreali. Oggetti artificiali, di cartone, da scenario, teatrali. Afflosciamento degli oggetti. Tutti questi vissuti sono da interpretare come mancanza di «oltre» degli oggetti, perdita della loro progettabilità operativa: mancanza e perdita che riflettono la crisi del trascendimento, la caduta dell'energia di presentificazione, il dileguarsi del possibile «andar oltre» della utilizzazione, con le relative memorie culturali accumulate nell'abitudine, nell'educazione, nelle nozioni tecniche.»77

Seguendo ancora la linea dell’autore per riprendere il mondo, come sfondo domestico, e familiare, un sentimento di umano appaesamento, è necessario come accennato prima andare oltre, oltrepassare , ma allo stesso tempo riprendere lo sfondo valorizzante che fonda la sicurezza nel mondo, e lo si fa tramite un atto di fiducia nella dimensione comunitaria, il nostro essere-nel- mondo che si racchiude nell’ essere dentro una storia umana, o meglio ancora essere- nel- mondo con gli altri che possono essere umani, animali o oggetti. Questa modalità d’essere che è sempre in essere in relazione con qualcuno o qualcosa stoicamente e culturalmente condizionato porta con sé la dimensione originaria dell’essere come animale sociale. L’ andare oltre per riprendere lo sfondo domestico, operabile e familiare del mondo racchiude un messaggio

«Avanti non sei solo ma nel cammino ti accompagna l’opera di una infinita schiera di uomini

che abbraccia morti e viventi e che anche se ti raggiunge attraverso i tuoi educatori più diretti, in realtà ti rende partecipe di evi tramontanti e di civiltà scomparse.»78

77 Ibidem, pp. 535-536. 78 Ibidem, p. 559.

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Il ponte tra la dimensione comunitaria dell’ Ethos del trascendimento di cui parla De Martino e il soggetto sta negli oggetti utilizzabili, riprendendo la filosofia heideggeriana e quella sartriana che mettono al centro del mondo ente intramondano come ente relazionale che svolge il suo significato e il suo rimando attraverso la stessa utilizzazione, la messa in opera dell’ente intramondano che si realizza nella suo essere utilizzabile, poiché non incontriamo mai nel mondo le cose di per sé , ma sempre nel loro utilizzo e questo essere a portata di mano, permette la realizzazione del progetto comunitario dell’ethos del trascendimento.

«e poiché la valorizzazione utilitaria, come ogni altra valorizzazione intersoggettiva, non si esaurisce mai se si esaurisse segnerebbe la morte del trascendimento), il mondo non è mai l'interamente utilizzabile, ma solo l'utilizzabile entro i limiti storici di una certa progettazione: ciò significa che oltre tali limiti non stanno le cose in sé, o un altro mondo, ma il non-mondo, l'acosmico, il caos, il nulla. Appartiene dunque al «mondo» la possibilità del suo «finite», ed ogni «mondo culturale» ne è travagliato nell'intimo, cosi come riposa interamente sull'ethos della valorizzazione e sullo slancio inaugurale della valorizzazione utilizzante.»

Nella concezione demartiniana l’essere è un dover essere che tramite la dimensione comunitaria riscatta il proprio mondo, lo pone a questione e riprende lo sfondo di domesticità, la dimensione esterna, sociale e culturale, la relazione tra enti intramondani e la molteplicità delle presenze risaldano l’esserci dalla crisi, dall’angoscia della fine del mondo e dal senso di nausea che esso assume, il mondo indigesto che scoppia quando l’orizzonte del senso si perde. «La presenza è presentificazione: essa è sempre in situazione, e al tempo stesso, sempre in decisione, cioè sempre in atto di andar oltre, trascendere -la situazione, di emergere da essa come energia morale di valorizzazione intersoggettiva, di comunicazione universalizzante. La presenza è esserci-nel-mondo, e la sua norma di esistenza è tutta racchiusa in quel ci che attualizza l'essere e si apre all'essere, che riprende il passato e si dischiude al futuro. Il mondo, in cui la presenza ci è, in un distacco che sempre si rinnova, è il mondo della natura e della storia, della società e della cultura storicamente determinate. Ma proprio perché la presenza ha la sua norma in ciò, essa racchiude il «do» del suo «si»: il rischio di restar prigioniera della situazione, di non deciderla, di non andar oltre di essa, di non trascenderla, di non emergere da essa come energia morale di valorizzazione intersoggettiva, di comunicazione universalizzante. È il rischio di non esserci-nel-mondo, di non passare con la situazione invece di oltrepassarla nel valore, di ripeterla invece di deciderla, di non riprendere il passato restando esposto al suo ritorno irrelato nella cifra dei sintomi chiusi, di tornare alle origini, di perdere

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la prospettiva del futuro arretrando sgomenti davanti al possibile, di rifiutare il divenire come campo del progettabile e il fare come potenza progettante. È rischio di restare senza margine davanti alla natura da controllare umanamente, e di isolarsi progressivamente dalla società, dalla storia, dalla cultura, invertendo il movimento dal privato al pubblico in quello opposto di una indefinita privatizzazione che recide ogni legame con la vita in società. È infine il rischio dell'assenza, della presenza che dilegua e scompare, rischio contro cui la presentificazione è chiamata a combattere.»79

La chiave di lettura per andare oltre il nulla, per superare la crisi della presenza in questa ottica che riprende la filosofia tedesca di Heidegger e l’ essere che deve essere, ed è solo in un modo in cui è posto in relazione già da sempre, in quanto il mondo è sempre un mondo culturalizzato e storico dove gli uomini sono co-originariamente insieme nel co-essere, in un mondo del lavoro fatto di oggetti utilizzabili che creano ponti tra i possibili Umwelt.

«Il principio trascendentale dell'ethos del trascendimento della vita nel valore fonda l'esserci come doverci essere nel mondo, cioè come compito inesauribile di valorizzazione in lotta contro il rischio di non poterei essere in nessun mondo possibile; fonda la molteplicità e la finitezza degli esserci, e il loro mantenersi nella misura in cui si aprono alla valorizzazione intersoggettiva: fonda la distinzione dei valori ed il progetto comunitario dell'utilizzabile come valore inaugurale, come testimonianza prima dell'ethos del trascendimento; fonda infine la inesauribilità dei singoli valori in singole opere e la inesauribilità dell'ethos in un singolo valore. L'ethos del trascendimento della vita nel valore fonda i singoli trascendimenti valorizzanti. In quanto norma di possibilità e fine regolativo di tutti i trascendimenti valorizzanti è in sé intrascendibile, nel senso che né la vita né il valore possono essere attinti una volta per sempre: il «dover essere)> originario di questo ethos è tutto nell'oltre del suo movimento, nel passare dalla vita alla valorizzazione intersoggettiva della vita, e nel riproporre sempre di nuovo questo passaggio. Il rischio di quest'oltre sta nella sua caduta, ma la sua caduta non conduce né all'immediatezza della vita, nell’ assolutezza del valore; conduce piuttosto al nulla, alla morte, alla follia. Il «mondo» vivo, vero, pieno non è quello feticizzato in cui «ci si perde», ma quello che si delibera di perdere e di riconquistare, di mettere in causa e di riprendere nella attualità di una presentificazione senza sosta: è il mondo che ostinatamente deve morire e rinascere, e che dopo il sonno dobbiamo continuare a tessere, e che anche nel sonno e nel sogno si continua a tessere, e che ancor meno è sospeso dalla morte.»80

79 Ibidem, p. 667. 80 Ibidem, p. 676-677.

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L’esserci dunque essendo sempre un esserci- nel-mondo, essendo già da sempre in relazione con altri esserci e con gli enti utilizzabili che permettono il lavoro e la vita comunitaria per sconfiggere il nulla deve affermare il suo dover essere con gli altri attraverso lì ethos del trascendimento ovvero il suo essere in relazione con il mondo e con una visione intersoggettiva della vita.

«Il mondo è innanzitutto possibile per un progetto comunitario dell'utilizzabile, e poi ancora per le altre valorizzazioni del mondano, oltre quella della utilizzazione. Anche l'abitudinario, il viver quotidiano, il seguire le tradizioni, il non mettere tutto in causa ad ogni momento, l'attenersi ai mores costituisce un momento importante del progetto comunitario dell'utilizzabile, in quanto solo nella misura in cui certi settori del comportamento utilizzante sono affidati ad abitudini, abilità divenute inconsapevoli, convenienze ed etichette, ecc. si rende disponibile una «quantità» e «qualità» di energia per iniziative e innovazioni.»81

Prima di De Martino il filosofo che più di tutti ha esaminato l’esserci in relazione all’ essere-nel-mondo e al suo rapporto co-originario con gli altri esserci è Marin Heidegger.

Per il filosofo l’esserci è già da sempre posizionato, nel mondo, in un rapporto con esso che indica una totalità inseparabile tra questi enti.

«L’espressione composita «essere-nel-mondo» rivela, già nel suo conio, che ci si riferisce a un fenomeno unitario. […] «In» deriva da innan-, abitare, habitare, soggiornare;

an significa: sono abituato, sono familiare con, sono solito…: esso ha il significato di colo, nel

senso di habito e diligo. L’ente a cui l’in-essere appartiene in questo significato è quello che noi abbiamo connotato come l’ente che io sempre sono. […] «Io sono» significa, di nuovo: abito, soggiorno presso… il mondo, come qualcosa che mi è familiare in questo o quel modo. «Essere»come infinito di «io sono», cioè inteso come esistenziale, significa abitare presso…, aver familiarità con…L’in-essere è perciò l’espressione formale ed esistenziale dell’essere

dell’Esserciche ha la costituzione essenziale dell’essere-nel-mondo.»82

L’ esserci fin dal secondo capitolo viene descritto da Heidegger come cura, concetto che riprenderà nei capitoli successivi esplicandone il senso, l’essere-nel-mondo come cura

81 Ibidem, p. 683.

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implica il fatto che l’esserci è coinvolto nel mondo, che lo conosce non teoricamente, ma perché ha a che fare con esso, vivendo all’esterno, nel mondo e in questo mondo già sempre scoperto vive, conosce e si muove.

«È il martellare a scoprire la specifica «usabilità» del martello. Il modo di essere del mezzo, in cui questo si manifesta da sé stesso, lo chiamiamo utilizzabilità. Solo perché il mezzo possiede questo «essere in sé», e non è anche qualcosa di semplicemente-presente, esso è usabile nel senso più largo e disponibile. Il solo guardare alle cose nel loro rispettivo «aspetto», anche se acutissimo, non potrebbe scoprire l’utilizzabile. Lo sguardo che guarda alle cose solo «teoricamente» è estraneo alla comprensione dell’utilizzabilità. Il commercio che usa e manipola non è però cieco, perché ha un suo modo di vedere che guida la manipolazione, conferendole la sua specifica adeguatezza alle cose. Il commercio col mezzo sottostà alla molteplicità dei rimandi costitutivi del «per». La visione connessa a un disporsi del genere è la visione ambientale preveggente.

Il comportamento «pratico» non è «ateoretico» nel senso che sia privo di visione, e il suo differenziarsi dal comportamento teoretico non consiste solo nel fatto che nel primo si

agisce e nel secondo si contempla, cosicché l’agire, per non rimanere cieco, dovrebbe

applicare il conoscere teoretico.»83

Il nostro modo di essere-nel-mondo quindi è sempre un vivere pratico che ha una consapevolezza teorica, potremmo dire che siamo nel mondo in un modo avveduto che ci permette di muoverci e orientarci e per farlo ci serviamo di oggetti, di enti utilizzabili che si esplicano mediante l’utilizzazione e tramite i loro rimandi che vengono suscitati dal contesto e dalla visione ambientale preveggente, questo permette che mentre guido possa riconoscere che l’automobilista davanti a me tramite la freccia mi sta comunicando il fatto che sta per svoltare a sinistra o a destra, la freccia mi rimanda a un significato che sia io che altri esserci possiamo decodificare e ci permette di vivere nel mondo.

«Il segno non è una cosa che stia con un’altra cosa nella relazione dell’indicare; esso è invece un mezzo che, nella visione ambientale preveggente, fa emergere esplicitamente un

complesso di mezzi, in modo tale che, nel contempo, si annuncia la conformità al mondo propria dell’utilizzabile. I sintomi e i presagi «indicano ciò che sta venendo»; ma non si tratta

semplicemente di qualcosa che sopravviene in aggiunta alle cose già presenti. Ciò «che sta venendo» è qualcosa a cui ci prepariamo o a cui «non eravamo preparati» perché ci occupavamo d’altro. Dalle tracce la visione ambientale preveggente capisce come sono andate le cose, che cosa è successo. Il contrassegno indica «con che cosa» si ha a che fare. I segni

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indicano sempre e in primo luogo «dove» si vive, ciò presso cui il prendersi cura si sofferma, come stanno le cose. […]’utilizzabilità di segni nel commercio quotidiano e la loro costruzione