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Domesticita, Umwelt e Cultura popolare. Un'etnografia nelle case popolari toscane

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Storia e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Forme del Sapere

Tesi di Laurea

Domesticità, Umwelt e Cultura Popolare.

Un’etnografia nelle case popolari della Toscana.

Relatore Fabio Dei

Correlatore Adriano Fabris

Candidato Benedetta Chesi

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Indice

Introduzione ... 3

1 Cultura di massa, Folklore e Appaesamento nella quotidianità domestica ... 5

1.1 La cultura domestica e il folklore nella cultura di massa ... 5

1,2Appaesamento- Umwelt attraverso la cultura materiale De Martino e Heidegger ... 22

1.3Creazione Umwelt domestico: La casa Miller e Interviste Michelangelo e Marcella .. 45

2La Creazione dell’Umwelt, l’oggetto come portatore del sistema valoriale comunitario .... 63

2.1La creazione del nostro Ambiente Circostante. come il quartiere entra nelle case. .... 63

2.2Creazione proprio Umwelt. Intervista, Alessandro, Franca, Maurizia e Valentino ... 95

2.3Appaesamento Tra il Marocco e l’Italia Intervista a Sofia ... 119

3 Domesticità, Cultura Popolare e società di Massa ...125

3.1Appaesamento e cultura materiale ... 144

3.2L’affettività dell’oggetto domestico e il suo essere un ente relazionale... 169

Conclusioni ...185

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Introduzione

Con il seguente elaborato cercherò di dimostrare come l’oggetto utilizzabile, ovvero l’oggetto domestico svolga un ponte per la costruzione del proprio Umwelt; esso infatti collega l’ambiente circostante dell’individuo alla propria sfera intima e familiare. Gli oggetti come mostrerò lungo questa tesi sono come dei punti cardinali che ci permettono di orientarci nella nostra quotidianità.

Gli oggetti utilizzabili racchiudono quindi il sistema valoriale comunitario, che è storicamente e culturalmente determinato. Tale ruolo svela dunque la funzione di ponte tra il soggetto e la comunità morale che lo circonda. L’oggetto in questo senso può richiamare il soggetto al proprio ambiente circostante, permettendogli da una parte di appaesarsi, mentre dall’altra salvaguardandolo dall’angoscia del nulla e dalla crisi della perdita della propria presenza. Per esaminare questo nucleo tematico mi sono servita degli scritti di Martin Heidegger, prevalentemente di Essere e Tempo e degli scritti precedenti relativi al periodo di Marburgo, con qualche riferimento agli scritti degli anni ’40-‘50 e La fine del Mondo di Ernesto De Martino, dove in particolar modo nell’ epilogo, tramite il concetto di Ethos del Trascendimento sembra porre a questione il ruolo degli oggetti nel riscatto della presenza.

Questo scritto si presenta come una tesi di ricerca empirica, avendo svolto un’etnografia in dodici case popolari della Toscana. Nello svolgere queste interviste ho riscontrato notevoli difficoltà iniziali, nel convincere le persone a lasciarmi entrare nelle loro case, nel raccontarmi le loro storie e le loro visioni del mondo, difficoltà iniziali che fortunatamente si sono subito risolte, non appena abbiamo cominciato a parlare e mi hanno permesso di ascoltare e partecipare alla loro quotidianità, grazie a questo sono riuscita davvero a cogliere il valore degli oggetti che li circondavano. Da questi incontri sono emerse una serie di storie riguardo agli oggetti domestici, da queste è stato possibile ricavare le molteplici funzioni che gli oggetti svolgono, senza che spesso se ne sia pienamente consapevoli.

Avendo svolto un’etnografia nelle case popolari ho potuto osservare come gli oggetti del consumo di massa venissero risemantizzati e ricollocati dentro ciascuna abitazione, ho notato alcuni elementi che si sono ripetuti in più interviste, sia nel modo di appaesarsi nel proprio ambiente domestico, sia nel modo di raccontare la percezione del tempo e dello spazio, dove solitamente al passato viene ricordato e raccontato attraverso un alone mitico.

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Attraverso queste interviste ho deciso di estendere il mio tema di ricerca anche alle culture popolari contemporanee, cercando di cogliere un punto d’unione tra il “nuovo folklore” analizzato attraverso la definizione gramsciana di “agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita”, passando in rassegna il dibatto sulla questione degli studi della cultura popolare in Italia attraverso gli scritti di Gramsci, Cirese, De Martino e Dei.

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1 Cultura di massa, Folklore e Appaesamento nella quotidianità domestica

1,1 La cultura domestica e il folklore nella cultura di massa

«Io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un “compagno”, come un cercatore di uomini e di umane e dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavano e loro che ritrovavo. L’esser fra di noi “compagni”, cioè l’incontrarci per tentare di essere insieme in una stessa storia, costituiva una condizione del tutto nuova rispetto al fine della ricerca etnologica, cioè al fine di rammemorare anche quella loro storia passata che non poteva in modo immediato essere attuale e comune, e che, in ogni caso, era da ricacciare lontano e da sopprimere.»1

La cultura materiale non è certamente un oggetto di ricerca nuovo per l’Antropologia Culturale, dai Kula di Malinowski, agli oggetti domestici del mondo contadino, sino a giungere agli studi sui beni di consumo di Bourdieu e quelli di Miller. Per quanto riguarda gli studi italiani si sono interessati solo dagli anni Novanta delle pratiche di consumo e degli oggetti prodotti dalla cultura di massa ritenuti per molto tempo non solamente “Inautentici”, ma portatoti di passività e alienazione, non degni di essere studiati perché privi di valore materiale ed estetico. «Nella percezione comune degli anni Settanta, l'ambito del folklore si

1E. De Martino, «Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni», in Mondo popolare e magia in Lucania a cura

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costituisse proprio nella contrapposizione, a un tempo estetica, morale e politica, alla cultura di massa. Quest'ultima è artificiosa, plastificata, pacchiana e di cattivo gusto; è fatta per il popolo e non dal popolo; ha effetti alienanti e di ottundimento della coscienza di classe; è politicamente regressiva e trasmette un messaggio di repressione, di mutilazione intellettuale e istintuale; è l'oppio che rende accettabile l'oppressione. Al contrario, il folklore è vero, genuino e in un certo senso "naturale"; è caratterizzato esteticamente da un'elegante semplicità; è un prodotto autentico delle classi subalterne e in quanto tale esprime (anche se non in modo esplicito) la coscienza di classe; è politicamente progressivo e trasmette un messaggio di liberazione.»2

In qualche modo lo studio accademico, almeno nel caso italiano, ha fossilizzato il folklore inserendolo solamente nel mondo arcaico contadino, sradicandolo dalla connessione con la classe subalterna, che sebbene fino al secondo dopo guerra fosse estremamente legata al mondo contadino, come dimostrano anche gli scritti meridionalisti di De Martino, con la crescita economica e una sempre maggiore crescita del consumo di massa adesso si trova difronte un panorama più frastagliato. «Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento “pittoresco” […] Occorrerebbe studiarlo invece come “concezione del mondo e della vita”, implicita in grande misura di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) dalla società, in contrapposizione, […] con le concezioni del mondo ufficiali che si sono successe nello sviluppo storico. Concezione del mondo non solo non elaborata e sistematica perché il popolo per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo, ma molteplice […] se addirittura non deve parlarsi di un atteggiamento indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, nella maggior parte delle quali solo nel folclore si trovano i superstiti. […] Il Folclore può essere capito solo come un riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo, sebbene certe concezioni proprie del folclore si prolunghino anche dopo le condizioni siano o sembrino modificate e diano luogo a combinazioni bizzarre.»3

In Gramsci ritroviamo un vastità incredibile di argomenti, spersi, tra cui lo stesso “Folclore”, già nel Quaderno numero 11 Introduzione allo studio della Filosofia si evince la complessità del termine cultura, che a tratti viene accostato a volte a “ Senso Comune”, legato a “concezioni del mondo” espressione che abbiamo visto utilizza anche per parlare del

2F. Dei, Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, Meltemi Editore, 2007 Roma p. 63

3A. Gramsci, Quaderni del Carcere, Volume terzo. Quaderni 12- 29, Edizione critica dell’ Istituto Gramsci, a cura di

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“folclore”, questo perché il termine “cultura” in Gramsci non ha il valore che viene assunto dagli antropologi, ovvero un sistema di significati r di rimandi, ma a una morale poietica in grado di produrre effetti politici «Avendo dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché nella minima manifestazione intellettuale, il “linguaggio”, è contenuta una determinata concezione del mondo.[…]

Forse è utile praticamente distinguere la filosofia dal senso comune per meglio indicare il passaggio dall’ uno all’altro momento: nella filosofia sono specialmente spiccati i caratteri di elaborazione individuale del pensiero, nel senso comune invece i caratteri diffusi e dispersi di un pensiero generico di una certa epoca e in un certo ambiente popolare.»4

Gramsci affronta la questione del folklore anche nelle Lettere, dove il pensatore si occupa di molteplici argomenti, dalle novelle popolari della sua infanzia, alle questioni dialettali. In una lettera a Tatiana del 19 Dicembre 1926, Gramsci cerca di dare una descrizione antropologica dei detenuti di Ustica «La popolazione indigena è composta di siciliani, molto gentili e ospitali, con la popolazione possiamo avere rapporti. I coatti sono sottoposti a un regime molto restrittivo, la maggioranza data la piccolezza dell’isola, non può avere nessuna occupazione e deve vivere colle 4 lire giornaliere che assegna il governo. Puoi immaginare ciò che avviene: l mazzetta (è il termine per indicare l’assegno governativo) viene speso in vino, i pasti si riducono a un po’ di pasta con erbe e un po’ di pane; la denutrizione porta all’alcolismo più depravato in brevissimo tempo. Questi coatti sono rinchiusi in speciali cameroni dalle cinque del pomeriggio e stanno insieme tutta la notte (dalle cinque del pomeriggio alle sette del mattino) chiusi dal di fuori: giocano a carte, perdono qualche volta la loro mazzetta di parecchi giorni e si trovano così persi in un girone infernale che dura all’ infinito. Da questo punto di vista è un vero peccato che ci sia proibito di avere contatti con esseri ridotti a una vita tanto eccezionale: penso che si potrebbero fare delle osservazioni di psicologia e di folklore di carattere unico. Tutto ciò che di elementare sopravvive nell’ uomo moderno rigalleggia irresistibilmente: queste molecole polverizzate si raggruppano secondo principi che corrispondono a ciò che di essenziale esiste ancora negli strati più popolari più sommersi. Quattro divisioni fondamentali esistono, i settentrionali, i centrali, i meridionali (con la Sicilia) e i sardi. I sardi vivono assolutamente appartati dal resto. I settentrionali hanno una certa solidarietà tra di loro, ma nessuna organizzazione, a quanto pare, essi si fanno onore del fatto che sono ladri, borsaioli, truffatori, ma non hanno mai versato sangue. Tra i centrali i romani sono quelli meglio organizzati, non denunciano neanche le spie a quelli delle altre

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regioni, ma si riserbano per loro diffidenza. I meridionali sono organizzatissimi, a quanto si dice, ma tra di loro ci sono sottodivisioni, Lo stato Napoletano, Lo Stato Pugliese e lo Stato Siciliano. Per il siciliano il punto d’onore consiste nel non avere mai rubato, ma nell’avere solo versato sangue. Tutte queste indicazioni le ho avute da un coatto che si trovava in carcere a Palermo per scontare una pena...[...]»5

Il senso comune e il folklore sono accomunati dunque dall’ essere elementi disorganici e residuali, un insieme di credenze collettive con una loro forza e resistenza, il peràs, il limite della filosofia e della cultura egemonica potremo forse dire che il folklore sta alla cultura. Un rapporto simile può essere quello tra la Phonè e il Logos descritto da Heidegger nei concetti fondamentali della filosofia Aristotelica, risultato del corso tenuto a Marburgo nel semestre de 1924.

«Tanto nella ϕωνή che nel λογος si mostra una determinatezza dell’essere nel mondo un modo determinato dell’incontro tra vita e mondo. […] Queste due possibilità in cui il mondo ci si fa incontro nel suo esserci più prossimo, in quanto tali i modi i cui i viventi sono l’uno con l’altro, in cui si costituisce la κοινομια. […] in entrambi i casi, sotto osservazione è il vivente, la vita in quanto essere in un mondo. […] l’essere aperto del vivere degli animali, ovvero il modo in cui si forma, si sviluppa questo essere aperto negli animali dalla ϕωνή, nell’ uomo dal λογος.» 6

Sia in questo scritto, che in Essere e Tempo, il filosofo mostra come il passaggio tra vivere in modo autentico, aprendoci al mondo, scegliendolo, sia un atto di volontà e di coscienza autonoma che si distacca dal mondo tramite una chiamata silenziosa, ma in realtà noi siamo sempre nel modo di esserci della quotidianità, dove non c’è la presenza di un logos razionale, ma della chiacchiera indistinta di voci, la quotidianità, le voci, la Phonè resta il pèras del logos, così come il folklore lo è rispetto alla cultura egemonica.

Il popolo, ovvero l’insieme delle classi subalterne, che sia fino a quel momento esistita, non può, per Gramsci elaborare, possedere, produrre, una visione del mondo sistematica,

5A. Gramsci, Lettere dal Carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Enaudi, 1975, Torino p.

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organizzata, per usare un’espressione di De Certeau non possono assumere il valore di strategie.

Questo rapporto tra folclore e classi subalterne nella cultura di massa viene ripresa negli studi della cultura materiale attraverso la ricerca etnografica condotta da Fabio Dei e Matteo Aria nelle case di famiglia di alcune città toscane. «La cultura materiale domestica è una sfera cruciale per questo tipo di problema. In essa si manifestano e si articolano gusti, stili ed estetiche che stanno alla base di strategie di distinzione. Non si tratta del fatto che gli oggetti della casa rispecchiano una condizione o livello del capitale sociale, quanto piuttosto del loro uso creativo nei processi di costruzione di identità sociali sempre provvisorie e in movimento.»7

Il folclore di cui parla Gramsci è il limite, la soglia, in cui si imbatte la cultura egemonica, ma questo limite è al tempo stesso in grado di esprimere delle innovazioni, di essere creativo, una riplasmazione della pensabilità dei modi di vita, dialetto, storie, leggende sono molteplici le forme di resistenza che danno forma al folclore in senso Gramsciano e che fino a non molti anni fa lo hanno recluso negli spettri più arcaici del mondo contadino, ma l’interesse del pensatore per la cultura materiale emerge sia nei Quaderni, ma soprattutto nelle lettere, per esempio nella lettera alla madre del 13 Settembre 1931. «Immagina cara mamma, e mi pare non te l’ho mai scritto, che ho un letto di ferro, un materasso un cuscino di crine e un materasso e un cuscino di lana. Ho anche un comodino, non è di prima qualità, ma insomma per me è utile. Le cose che mi ha scritto Grazietta mi hanno molto interessato. Se la malaria dà facilmente luogo alla tubercolosi significa che la popolazione è denutrita. Vorrei che Grazietta mi informasse su ciò che mangia in una settimana, una famiglia di zorronarderis, di

massaios a meitade di piccoli proprietari terrieri che lavorano essi stessi la loro terra, di pastori

con pecore che gli occupano tutto il tempo e di artigiani (un calzolaio e un fabbro). Se vivesse zia Maria Calcartigu, si potrebbe sapere presto, ma con un po’ di pazienza potrà sapere, (domande: in questa settimana quante volte mangiano carne e quanto? Oppure non ne mangiano? Che fanno con la minestra quanto olio grasso ci mettono, quanti legumi, pasta ecc?

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Quanto grano macinano o quanti chili di pane comprano? Quanto caffè o surrogato, quanto zucchero? Quanto latte per i bambini? »8

Leggendo sia le Lettere che i Quaderni si nota l’interesse di Gramsci per le piccole pratiche quotidiane, come il cibo, il dialetto e soprattutto un particolare interesse per la letteratura popolare, non risparmiando critiche sul fatto che la letteratura popolare in Italia sia manchevole. «In Dostojevschi c’è potente il sentimento nazionale-popolare, cioè la coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo, che magari è “oggettivamente” costituito da “umili”, ma deve essere liberato da questa “umiltà”, trasformato, rigenerato. Nell’ intellettuale italiano l’espressione di “umili “indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento sufficiente di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore, l’altra inferiore, il rapporto tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia o peggio ancora un rapporto da società protettrice degli animali.»9

Poche pagine dopo continua «In una nota della “Critica Fascista” del 1 Agosto 1930 si lamenta che due grandi quotidiani, uno di Roma e l’altro di Napoli, abbiano iniziato a pubblicare in appendice questi due romanzi Il conte di Montecristo e Giuseppe Balsamo di A. Dumas, e il Calvario di una madre di Paolo Fontenay. […]

La “Critica” confonde diversi ordini di problemi: quello della diffusione tra il popolo della cosiddetta letteratura artistica e quello della non esistenza in Italia di una letteratura popolare, per cui i giornali sono “costretti” a rifornirsi all’ estero […] non esiste di fatto né una popolarità artistica, né una produzione paesana di letteratura “popolare” perché manca una identità di concezione del mondo tra scrittori e popolo, cioè i sentimenti popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori né gli scrittori hanno una funzione educatrice nazionale, non si sono posti né si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli vissuti e fati propri. [….]

l’uomo del popolo compra un solo giornale, quando lo compra la scelta non è neanche personale, ma famigliare: le donne pesano molto nella scelta e insistono per il “bel romanzo interessante”.»10

Alberto Mario Cirese commentando l’ opera di Gramsci relativa alla questione del folclore scrive « L’operazione che Gramsci compie nei confronti del folclore consiste essenzialmente in una esplicita negazione della sua irrilevanza - “ il folclore non deve essere

8A. Gramsci, Lettere dal Carcere, cit., p. 485 9A. Gramsci, Quaderni del Carcere, cit., p. 2112 10 Ibidem, pp. 2113-2115

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concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco”,- “ una cosa molto seria e che va presa sul serio” viene anche motivata con la dichiarazione che il complesso dei fatti folclorici contiene o esprime una “concezione della vita” cui è possibile assegnare una precisa collocazione socio-culturale rispetto alle altre concezioni del mondo.»11

L’ autore cerca di sciogliere la matassa un po’ ambigua riguardo il pensiero di Gramsci sulla questione del folclore nelle prime pagine del capitolo l’autore schematizza la questione in una “semplice “proporzione «Sia pure in forza di astratte ragioni di coerenze oppositive e associative, si dovrebbe concludere che l’enunciato soggiacente alle considerazioni gramsciane assume la forma che segue:

La concezione folclorica sta a quella ufficiale come la classe sociale la subalterna» egemonica» la categoria intellettuale semplice» colta » la contrapposizione passiva » attiva. »12

L’autore facendo notare come al concetto di folclore vengano attribuiti da Gramsci una serie di caratteristiche svalutanti e auspicandosi che il folclore appartenga a una realtà che il pensiero marxista e moderno possa spazzare via.

In Cultura egemonica e culture subalterne, Cirese cerca di esaminare da un punto di vista storico e metodologico il problema del folklore, o meglio di come è stato affrontato all’interno delle discipline umanistiche e in particolare come è stato studiato dalla demologia. Partendo dal presupposto che «La popolarità si definisce per differenza: se ne può parlare solo nelle situazioni storiche e sociali in cui coesistono fenomeni “non popolari”, “culti” “aristocratici” ecc..»13, l’autore spiega che tipo di opposizioni sono verticale, ovvero

quando tutta una nazione interna si contrappone a tutto ciò che è esterno a essa; e un’opposizione orizzontale, ovvero quel modo di concepire il popolo dentro ciascuna società. Da qui in poi l’autore esamina le varie scuole di pensiero riguardo allo studio delle tradizioni popolari e del folklore, mi interessa citare brevemente il filone di studi italiano e il commento dell’autore riguardo Gramsci e De Martino.

«Non si dimentichi che la fine della guerra in Italia non significa soltanto la fine di un regime autoritario e il passaggio dalla monarchia alla repubblica, significa anche la “irruzione nella storia” delle classi subalterne e più specificatamente delle contadinanze del Sud impegnate nella battaglia dell’occupazione delle terre. Si scopriva un’altra Italia, quella ad

11A.M. Cirese, Itellettuali, folklore, istinto di classe, Enaudi, Torino ,1976, p 68. 12Ibidem p.73

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esempio che nel 1945 veniva presentata, anche sotto il profilo dei suoi modi di vita culturale, dal libro che fu scritto da un ex confinato politico nel Sud, e non da un etnografo, ma che segno una svolta anche per la nuova generazione di folkloristi: Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. […]

Di particolare rilievo è stata quella derivante dalla più decisa in merito della problematica etnologica nel quadro culturale italiano operata da Ernesto De Martino già nel 1941, Naturalismo e storicismo nell’ etnologia, e poi nel 1948 con un’opera ben più incisiva e feconda, Il mondo magico. Questa opera introduce un forte elemento di rottura nella cultura italiana e contribuisce a porre quel tema fondamentale della pluralità delle culture che costituirà uno dei punti di riferimento del dibattito successivo.

Ma un momento teorico determinate è senza dubbio rappresentato dalla pubblicazione nel 1950 delle Osservazioni sul folclore che Antonio Gramsci aveva scritto vent’anni prima nel carcere. In quelle osservazioni il folklore viene configurato nella sua generalità come una concezione del mondo che è propria di certi stati della società e che si contrappone alle concezioni del mondo “ufficiali”. […] Così restava definitivamente esclusa ogni possibilità di concepire idillicamente e armonisticamente il folklore, e lo si assumeva invece come uno dei modi di essere delle contraddizioni di fondo della storia della società europea divisa in classi»14

Nelle pagine successive l’autore dopo aver fatto un breve accenno alle opere meridionaliste di De Martino si è soffermato l Mondo magico e sulla chiave interpretativa che indaga sia le componenti magiche, il lamento funebre, la cura coro-musicale del morso “mitico” della tarantola come metodi di riscatto dinanzi alla minaccia delle crisi della presenza, dalla deiezione di noi stessi, ma lo fa attraverso l’analisi bene determinata di una storia ben precisa tra rapporti di pratiche “popolari”, cattolicesimo ufficiale e intellettuali meridionali.

Per Cirese, De Martino ha ricavato «Dall’ esperienza del decennio 1950-1960 una possibile sistemazione del folklore come studio dei “dislivelli interni alla cultura”.»15

Leggendo i Quaderni del Carcere rimane comunque difficile farsi un’idea chiara e univoca del pensiero dell’ autore nei confronti del Folclore, credo che il limite che rappresenti nella società sia allo stesso tempo una risorsa delle classi popolari nei confronti della classe

14Ibidem pp. 194-195. 15Ibidem. p. 197.

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egemonica, in quanto agglomerato indigesto che è difficile penetrare e alo stesso tempo lo collochi ai margini delle classi sociali, un atteggiamento simile che ritroviamo negli scritti di Ernesto De Martino nei confronti della Magia nel Sud Italia e prima ancora nei romanzi di Carlo Levi.

In Cristo si è fermato a Eboli, Levi parlano dei contadini lucani, seppur in chiave letteraria e talvolta etnocentrica possiamo trovare comunque frammenti di quel mondo contadino che riprenderà poi dopo la guerra Ernesto De Martino, con conclusioni ovviamente diverse rispetto allo scrittore. Tuttavia le descrizione della vita dei contadini, delle relative abitudini, delle concezioni di vita e l’ attenzione nei dettagli nel rappresentare le abitazioni di questi possono mettere in luce come il mondo contadino non sia un mondo arcaico fuori dalla storia, come l’ atteggiamento del folklorismo classico tende a volte a classificarlo, poiché né da una definizione di un “mondo autentico”, con una connotazione di purezza e romanticismo che a mio avviso lo pongono quasi in una condizione di astoricità. Nel celebre passaggio sottocitato, l’autore mettendo in luce la presenza della Madonna di Viggiano e di Roosevelt e l’assenza di rappresentanti italiani o europei, fornisce una visione fenomenologica del mondo di quei contadini, del loro Umwelt che si divide tra il sacro che hanno attorno e il profano dei parenti o degli amici emigrati in America e che mandano soldi o cartoline con l’immagine del presidente, che in quel modo si può per loro presentificare come una figura vicina.

«Le case dei contadini sono tutte uguali, fatte di una sola stanza che serve da cucina, da camera da letto e quasi sempre anche da stalla per le bestie piccole, quando non c’è per quest’uso, vicino alla casa, un casotto che si chiama in dialetto, con parola greca il caotico. Da una parte c’ è il camino, su cui si fa da mangiare con pochi stecchi portati ogni giorno nei campi: i muri e il soffitto sono scuri pel fumo. La luce viene dalla porta. La stanza è quasi interamente riempita dall’enorme letto, assai più grande di un comune letto matrimoniale: nel letto deve dormire tutta la famiglia, il padre, la madre e i figliuoli. I figli più piccoli, finché prendono il latte, cioè fino ai tre quattro anni, sono invece tenuti in piccole culle o cestelli di vimini appesi al soffitto, con delle corde e penzolanti poco più in alto del letto. [...]

Sotto il letto stanno gli animali: lo spazio è così diviso in tre strati: per terra le bestie, sul letto gli uomini, e nell’aria i lattanti. Io mi curvavo sul letto, quando dovevo ascoltare un malato, o fare una iniezione a una donna che batteva i denti per la febbre e fumava per la malaria; col capo toccavo le culle appese, e tra le gambe mi passavano improvvisi i maiali o

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le galline spaventate. Ma quello che ogni volta mi colpiva (ed ero stato ormai nella maggior parte delle case) erano gli sguardi fissi su di me, dal muro sopra il letto, dei due inseparabili numi tutelari. Da un lato c’era la faccia negra ed aggrondata e gli occhi larghi e disumani della Madonna di Viggiano: dall’altra, a riscontro, gli occhietti vispi dietro gli occhiali lucidi e la gran chiostra dei denti aperti nella risata cordiale del Presidente Roosevelt, in una stampa colorata. Non ho mai visto, in nessuna casa, altre immagini: né il Re, né il Duce, né tanto meno Garibaldi, o qualche altro grand’uomo nostrano, e neppure nessuno dei santi, che pure avrebbero avuto qualche buona ragione per esserci: ma Roosevelt e la Madonna di Viggiano non mancavano mai. A vederli, uno di fronte all’altra, in quelle stampe popolari, parevano le due facce del potere che si è spartito l’universo: ma le parti erano giustamente invertite: la Madonna era, qui, la feroce, spietata, oscura dea arcaica della terra, la signora saturniana di questo mondo: il Presidente, una specie di Zeus, di Dio benevolo e sorridente, il padrone dell’altro mondo. A volte, una terza immagine formava, con quelle due, una sorta di trinità: un dollaro di carta, l’ultimo di quelli portati di laggiù, o arrivato in una lettera del marito o di un parente, stava attaccato al muro con una puntina sotto alla Madonna o al Presidente o tra l’uno e l’altro, come uno Spirito Santo, o un ambasciatore del cielo nel regno dei morti.

Per la gente di Lucania, Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e malefico. Napoli potrebbe essere la loro capitale, e lo è davvero, la capitale della miseria, nei visi pallidi, negli occhi febbrili dei suoi abitatori, nei “bassi” dalla porta aperta pel caldo, l’estate, con le donne discinte che dormono a un tavolo, nei gradoni di Toledo; ma a Napoli non ci sta più, da gran tempo, nessun re; e ci si passa soltanto per imbarcarsi. Il Regno è finito: il regno di queste genti senza speranza non è di questa terra. L’altro mondo è l’America. Anche l’America ha, per i contadini, una doppia natura. È una terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove il poco denaro è risparmiato con mille stenti e privazioni, dove qualche volta si muore, e nessuno più ci ricorda; ma nello stesso tempo, e senza contraddizione, è il paradiso, la terra promessa del Regno.

Non Roma o Napoli, ma New York sarebbe la vera capitale dei contadini di Lucania, se mai questi uomini senza Stato potessero averne una. E lo è, nel solo modo possibile per loro, in un modo mitologico»16

Come accennavo prima Ernesto de Martino, ha applicato una prospettiva Gramsciana che vede nel folklore una carica creativa capace anche di esprimere innovazioni che sono

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contrastanti o diverse rispetto alla morale degli strati dirigenti, nelle sue etnografie sulla storia magico religiosa del Mezzogiorno, osservando il pianto rituale, la magia e il complesso mitico rituale pugliese. Quello che l’etnologo voleva mettere in luce non era certamente un aspetto arcaicizzante che derivava da una mentalità primitiva, tutt’altro egli voleva mettere in luce i rapporti tra il livello egemonico e subalterno, che si manifestavano in quelle regioni in quel determinato periodo storico.

Riprendendo l’ambivalenza del temine gramsciano il folklore assume anche in De Martino un limite che ha due ruoli uno di forza oppositrice nei confronti della classe egemonica l’altro l’espressione dell’oppressione che i contadini e le plebi rustiche del Mezzogiorno vivevano. La magia mitica- rituale aveva forniva l’elemento di protezione e di riscatto nei confronti di quel regime esistenziale costellato dalla miseria materiale e dalla desolazione sociale. De Martino riprende proprio i fenomeni folklorici che negli stessi anni già erano stati studiati, ma questi assumono un valore diverso, non restano isolati o essenzializzati, il suo scopo è opposto, cerca costantemente di mostrare come questi si siano costituiti dentro il processo storico, seguendo le orme di Croce e Gramsci. La posizione dello studioso si porta dietro numerose critiche prima tra tutti quella di Paolo Toschi, esponente di spicco della tradizione folklorica classica.

Nell’introduzione alla Terra del rimorso l’autore scrive

«la situazione in questo campo di studi si presenta tutt’altro che soddisfacente. La tradizione del Pitrè, così come si venne formando e svolgendo dal 1871 al 1913 nella monumentale Biblioteca delle tradizioni popolari, dal 1882 con l’archivio e dal 1885 con la collezione Curiosità popolari tradizionali, si era rivolta alla etnografia della Sicilia e delle varie regioni del Sud, ma nel Pitrè come nei suoi immediati discepoli e collaboratori operavano temi romantici risorgimentali e positivistici in un contesto che non si compose mai in coerente risoluzione metodologica. Riteneva Pitrè che vi fossero due storie quella dei dominatori e quella dei dominati e che la seconda non dovesse esser confusa con la prima, era arrivato quindi il tempo di salvare le memorie dei dominati, cioè del “popolo”, le quali non coincidono con le memorie dei dominatori. In realtà queste memorie dei dominati per quel che concerne la sfera della vita religiosa si riducevano – e il Pitrè lo riconosce senza sosta- a “echi” di “antiche civiltà” a monumenti archeologici del pensiero a “ reliquie del passato” a strati geologici rivelatori delle varie epoche: il che equivale a dire che, come fatti attuali essi erano la non- storia, il negativo della società moderna il segno di un limite della sua potenza di espansione e di plasmazione reale del costume, o se si vuole la continua ironia che si

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contrapponeva agli sforzi che la società moderna aveva compiuto per realizzare la propria storia. Riusciva quindi oscuro quale potesse essere propriamente il possibile «senso storico» del materiale folklorico-religioso: e l'oscurità dipendeva dall'assunzione iniziale delle «due» storie, con i suoi sottintesi romantici e con l'esaltazione del «popolo» come specchio di verità, di virtù e di poesia. Il materiale folklorico-religioso che l'analisi etnografica isola dal plesso vivente delle nazioni moderne può diventare documento di storia non nella sua attualità e nel suo isolamento di rottame disorganico, ma come stimolo che aiuta a ricostruire l'epoca o la civiltà religiosa in cui non stava come rottame disorganico, ma come momento vivo e vitale, come organo di un organismo funzionante nella pienezza della sua realtà sociale e culturale; oppure può diventare documento della storia della civiltà religiosa in cui attualmente sta come rottame, e di cui segnala, come si è detto, un episodio di arresto nel suo processo di espansione, una traversia che ha concretamente limitato la sua volontà di storia obbligandola in certi strati della società, in certe epoche e in certe aree, a tolleranze, compromessi, sincretismi, abdicazioni. In entrambi i casi il relitto folklorico-religioso identificato dall'indagine etnografica diventa documento di un'unica storia: di quella della civiltà religiosa di cui è relitto, o di quella della civiltà religiosa in cui sopravvive o subisce più o meno profonde riplasmazioni, ma mai di una storia religiosa «popolare» contrapposta, parallela e concorrente a quella delle élite sociali e culturali. […]

In ogni caso la tradizione del Pitrè non ha nessun apprezzabile rapporto con la questione meridionale: il mondo passionale in cui essa nacque e si formò resta sostanzialmente romantico-risorgimentale. D'altra parte, nella varia letteratura relativa alla questione meridionale, ci si limitò in genere agli aspetti sociali, economici e politici del problema, senza avvertire come la dimensione storico-religiosa avrebbe inaugurato una più ampia valutazione storico-culturale della realtà meridionale. Così, per esempio, nella serie di articoli del Salvemini apparsi nell'Educazione Politica del 1898 e del 1899 lo stato accentratore, l'oppressione economica esercitata dal Nord sul Sud e la struttura semi feudale della società venivano indicati come le tre «malattie» di cui soffriva il Mezzogiorno: ma nessun accenno veniva fatto alle forme che vi assume il cattolicesimo popolare e alle sopravvivenze pagane come documenti di una certa storia religiosa da ricostruire. In generale, nell'ambito della letteratura meridionalistica, il materiale folkloristico-religioso non ha praticamente nessun peso: quel materiale, che il Pitrè idoleggiava come «reliquie» da «salvare», si riduceva per gli scrittori meridionalisti a semplici e ovvie testimonianze di arretratezza morale e intellettuale delle genti del Sud: al più nel condurre inchieste sulle condizioni economiche di determinate popolazioni si accennava, per completare il quadro, al folklore della regione, e quindi anche

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alla situazione della vita religiosa. Occorre attendere Gramsci per ritrovare spunti e accenni, se non proprio a una storia religiosa del Sud come nuova dimensione della questione meridionale, almeno a una valutazione del cattolicesimo che tenesse conto della sua dimensione sociologica e che quindi includesse nella propria documentazione - per quel che concerne la società italiana - il cattolicesimo popolare e il folklore. Dalle esperienze di confino di un altro antifascista, il Levi, nacque Cristo si è fermato a Eboli, che vuol essere ed è l'opera di un letterato, ma a cui noi tutti dobbiamo qualche cosa di più di una semplice suggestione letteraria.»17

La questione de folklore rimane in tutte le opere Meridionali di De Martino, nelle varie etnografie cerca di mettere in luce le modalità in cui questi fenomeni svolgono una funzione psicologica esistenziale, ma anche sociale e storica, sempre ovviamente inserita in un contesto geografico limitato, così come era la il Salento della Terra del Rimorso e nello specifico, Galatina e la cappella di S. Paolo per la festa dei SS. Pietro e Paolo (29 Giugno), e paesi vicini di Nardo e Lecce, nel 1959, cosi come il materiale raccolto tra il 1950 e il 1957 per Sud e Magia in Basilicata, specialmente per il capitolo “ Vita magica di Albano” che è ricavato da una esplorazione in equipe.

«Se ci chiediamo quali sono le ragioni che fanno ancora sopravvivere una ideologia così arcaica nella Lucania di oggi la risposta più immediata è che tuttora in Lucania un regime arcaico di esistenza impegna ancora larghi strati sociali, malgrado la civiltà moderna. E certamente la precarietà dei beni elementari della vita, l’incertezza delle prospettive concernenti il futuro, la pressione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e sociali non controllabili, la carenza di forme di assistenza sociale, l’asprezza della fatica nel quadro di una economia agricola arretrata, l’angusta memoria di comportamenti razionali efficaci con cui fronteggiare realisticamente i momenti critici dell’esistenza costituiscono altrettante condizioni che favoriscono il mantenersi delle pratiche magiche. L’immensa potenza del negativo lungo tutto l’arco della vita individuale, col suo corteo di traumi, scacchi, frustrazioni, e la correlativa angustia e fragilità di quel positivo per eccellenza che è l’azione realisticamente orientata in una società che «deve» essere fatta dall’uomo e destinata all’uomo, di fronte a una natura che «deve» essere senza sosta umanata dalla demiurgia della cultura: ecco – si dirà – la radice della magia lucana, come di ogni altra forma di magia. Tuttavia, questo rapporto fra regime esistenziale e magia resta generico e ovvio, e in fondo poco concludente. I temi della forza magica, della fascinazione, della possessione, della fattura e dell’esorcismo, sono senza

17E. De Martino, La Terra del Rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, 1976, Milano, pp.

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dubbio in connessione con l’immensa potenza del negativo quotidiano che incombe sugli individui dalla nascita alla morte: ma il carattere di questa connessione resa vago. […] Più concludente si fa il discorso analitico quando cercheremo di trarre il significato psicologico di quanto abbiamo indicato come potenza del negativo nel regime esistenziale lucano. Ora questo significato psicologico mette in luce un negativo più grave di qualsiasi mancanza di un bene particolare: mette in luce il rischio che la stessa presenza individuale si smarrisca come centro di decisione e di scelta, e naufraghi in una negazione che colpisce la stessa possibilità di un qualsiasi comportamento culturale.[…] in un regime esistenziale in cui la potenza del negativo coinvolge lo stesso centro della positività culturale, cioè la presenza in quanto energia operativa, serba valore e funzione l’impiego della potenza tecnica dell’uomo non già nel senso profano del produrre i beni materiali economici, o gli strumenti materiali e mentali per il migliore controllo della natura, ma nel senso della difesa di quel bene fondamentale che è la condizione stessa di una partecipazione, per angusta che sia, alla vita culturale. Nel regime esistenziale lucano non ha soltanto particolare rilievo il negativo, per es. della fame o della malattia, ma altresì quello – ben più grave – dei rischi di naufragio della stessa presenza individuale che, mediante l’opera, deve pur fronteggiare in un senso realistico la fame o la malattia, o qualunque altra situazione critica dell’esistenza. E appunto per questo ancora nella Lucania d’oggi hanno corso tecniche magiche che aiutano la presenza a reintegrarsi dalle sue crisi. Piano realistico e piano magico della tecnica non entrano in contraddizione soggettiva fra di loro perché la magia non ha propriamente per oggetto, come la tecnica profana, la soppressione di questo o quel negativo, ma la protezione della presenza dai rischi della crisi esistenziale di fronte alle manifestazioni del negativo.»18

Ora in queste condizioni di labilità della presenza si innesta la funzione protettiva delle pratiche magiche. La magia lucana è un insieme di tecniche socializzate e tradizionalizzate rivolte a proteggere la presenza dalle crisi di «miseria psicologica» e a ridischiudere mediatamente – cioè in virtù di tale protezione – le potenze operative realisticamente orientate.

Nel panorama antropologico italiano contemporaneo è Fabio Dei a portare avanti gli studi riguardo la cultura materiale in relazione a una cultura di massa. L’ antropologo riprendendo gli studi di Gramsci e di De Martino cerca di estendere lo studio della cultura popolare alla contemporaneità, ovvero si trova difronte l’impossibilità di lasciar fuori dal panorama antropologico la cultura di massa «Il problema, a me pare non sta nelle categorie di

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egemonico e subalterno, né nell’idea di una corrispondenza, o almeno di una relazione, tra scarti sociali o di classe e differenze culturali. Ma, applicate alle contemporaneità, queste categorie possono funzionare solo prendendo in considerazione l’ambito popolare, della cultura di massa. Lo stallo a cui sembra bloccarsi il dibattito italiano sul folklore dopo gli anni Settanta è legato, appunto, al disconoscimento delle forme della cultura di massa, all’incapacità del collegarne l’analisi alla teoria dei dislivelli interni.

l’industria culturale è la grande assente in Cultura egemonica e culture subalterne di Cirese; così come, per lo più, è assente nell’intero dibattito sulla demarcazione del folklore.»19

In Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, l’autore mette in luce le criticità del lavoro del folklorismo classico «Il folklorismo classico tende a un atteggiamento collezionistico, classificatorio, filologico. Si concentra di solito su aspetti specifici della cultura popolare (canti, riti, le fiabe…), studiandone comparativamente la distribuzione nel tempo e nello spazio. Produce testi che hanno la forma prevalentemente della raccolta documentaria, dell’edizione di fonti, in qualche caso dell’ampio trattato comparativo. l’approccio antropologico, al contrario, privilegia l’analisi sincronica e olistica di insiemi culturali. È contrario all’ isolamento di singoli fatti dal loro contesto complessivo, ed è sospettoso verso la comparazione e verso le ipotesi di tipo evoluzionistico e diffusionistico. […] Direi, in modo molto approssimativo, che nella seconda metà del secolo, e fino agli anni Novanta il modello antropologico ha prevalso in modo sempre più netto, relegando in uno spazio marginale e quasi non scientifico il modello folklorico classico»20

Nel corso del libro viene esplicitata l’aporia che sta alla base del dibattito sul folklore, criticando l’atteggiamento dell’ Antropologia che ha collocato il folklore, come insieme di tradizioni che stanno alla base della vita autentica, fatta di produzioni dal basso , di poiesi artistica e concettuale, mentre dall’altra la cultura di massa, inautentica, prodotta da un’ economia capitalista, alienante, che rende l’uomo un fruitore passivo dell’ industria culturale, a portare avanti questa teoria vi è in primo luogo la scuola di Francoforte, Adorno, Marcuse, Horkheimer, ma anche l’approccio semiotico di Ronald Barthes, che vedono nei prodotti della cultura di massa un livellamento sociale, il fumetto, videogioco, o il prodotto di serie commerciale è una modalità di evasione dal mondo reale, dai problemi dalla vita autentica,un atteggiamento simile lo si ha in Italia in Pasolini, come fa notare Amalia Signorelli in Cultura

popolare e cultura di massa: note per un dibattito, nella rivista La Ricerca Folklorica. Pasolini

19F. Dei, Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare, cit., p. 71 20Ibidem, p. 23

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infatti nelle sue opere e in particolar modo in Scritti Corsari, parla di un mutazione antropologica e di una completa omologazione a un unico modello « Dunque: decidere di farsi crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi ( in una citazione protonovecentesca); decidere di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi televisivi; conoscere i titoli di qualche best- sellers, vestirsi con i pantaloni e magliette prepotentemente alla moda, avere rapporti ossessivi con le ragazze tenute accanto esornativamente, ma, al tempo stesso con la pretesa che siano libere, ecc… tutti questi sono atti culturali.

Ora, tutti gli italiani giovani compiono questi identici atti, hanno questo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili, cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale a una categoria; ma il fatto è che questi atti sono interclassi. In una piazza piena di giovani nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un’antifascista, cosa che era ancora possibile nel 1968.»21

Questo è solo un esempio del contenuto degli articoli dello scrittore, ma abbastanza significativo da poter esprimere quello che era l’atteggiamento degli intellettuali nei confronti della cultura di massa.

Tornando allo scritto di Dei possiamo invece leggere che uno sforzo verso lo studio della cultura di massa è stato fatto nel panorama britannico dai Cultural Studies.

Questi ultimi hanno provato riprendendo Gramsci, seppur dandone un’interpretazione un po’ forzate e parziale, a porre l’attenzione sul consumo dei prodotti della cultura.

Il punto che Dei mette in luce in relazione a questo filone di studi è il tentativo di questi di porre il consumo culturale come un fenomeno più complesso di quanto in realtà possa apparire.

«Vorrei far notare come questo approccio recuperi il carattere relazionale (in opposizione a sostantivo) della definizione ciresiana di popolare in termini di dislivelli interni di cultura. “Popolari” non sono infatti i prodotti della cultura di massa, di per sé, ma le modalità eterodosse e antagoniste del loro consumo da parte di gruppi sociali subalterni rispetto al “blocco di potere”. […] Sono le specifiche dinamiche sociali a risultare determinanti nel configurare un elemento culturale come popolare, nell’ambito del folklore tradizionale come quello dei consumi di massa. […] il fatto che in queste società la massificazione sia la

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condizione generale della circolazione di ogni merce, così come di ogni informazione, valore o trattato culturale non elimina certo al loro interno le differenze e le conflittualità tra classi e gruppi di potere; conflittualità che si esercitano proprio attraverso la gestione di quel flusso di merci e di “significati” che l’industria mette in circolazione. […] questo flusso di risorse materiali e culturali non può essere semplicemente considerato come il fronte di un’unica cultura che annulla tutte le altre. Piuttosto, il flusso rappresenta la materia prima su cui si esercitano le strategie semantiche dei diversi gruppi sociali nella quale si plasmano le relazioni e i conflitti fra egemonico e subalterno. Possiamo benissimo essere d’accordo con le pessimistiche analisi dei macro-processi di produzione delle merci culturali, con tutto quando implicano di omologazione, appiattimento, cancellazione delle differenze: ma ciò non ci dice nulla sui contesti locali e sui micro-processi che caratterizzano nella quotidianità la fruizione di prodotti. Questi vanno compresi attraverso un’etnografia in grado di descrivere le pratiche sociali del consumo e, in senso assai più ampio, della lettura.»22

Anche nell’ articolo “Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel

dibattito antropologico italiano” possiamo trovare argomentazioni simili che confermano

come nel dibattito accademico italiano la questione riguardo allo studio del folklore si sia arenata sempre di più verso lo studio delle tradizioni e verso l’isolamento non solo dell’oggetto di studio, ma l’isolamento rispetto al suo contesto. Così la definizione relazionale che il termine assume soprattutto con Cirese che sostiene come il termine “popolarità” si possa definire per differenza e sia possibile parlarne solo in determinati contesti in cui essa coesista insieme a fenomeni “non popolari” di culto, strutturati.

«Tuttavia, nonostante tali premesse, la demologia degli anni ‘70 continua a ragionare su contesti in cui le classi rurali e a identificare il proprio oggetto con la tradizione contadina. […] Laddove la logica della definizione gramsciana impedirebbe di fissare in modo preciso l’“oggetto” degli studi sulla cultura popolare, mettendo precisamente a fuoco i mutevoli e sempre fluidi rapporti fra livelli culturali diversi, molti studiosi la forzano proprio verso la definizione stabile di un oggetto. […] Isolare un oggetto è l’operazione preliminare di ogni scienza, sembra presupporre Cirese: e può sembrare un’operazione chiave per la fondazione della demologia come disciplina autonoma. Ma isolare i fenomeni culturali è proprio quanto vieta di fare l’approccio storicistico di Gramsci e De Martino. […] Ma non si ratta semplicemente di un problema di ordine accademico- istituzionale nel corso degli anni ‘60-’70

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l’atteggiamento dei demologi è in gran parte determinato dall’esigenza e dalla volontà di distinguere il proprio campo da quello della cultura di massa. […]

È come se la concezione gramsciana di cultura popolare non potesse esser praticata fino in fondo, poiché applicata alla modernità, porterebbe a imbattersi nella inautenticità dell’industria culturale. Gli studiosi folklorici classici, lavorando con una concezione essenzialista di folklore, potevano convenzionalmente escludere i prodotti mass-mediali dell’ambito dei loro interessi, sulla base di caratteristiche formali o di modalità di trasmissione.»23

Appaesamento- Umwelt attraverso la cultura materiale, l’interpretazione di De

Martino e Heidegger.

«Ricordo un tramonto, percorrendo in auto qualche solitaria strada calabrese. Non eravamo sicuri della giustezza del nostro itinerario, e fu per noi di sollievo imbatterci in un vecchio pastore. Fermammo l'auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, ma le sue indicazioni erano così confuse che lo pregammo di salire in auto e di accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: lo avremmo compensato per il disturbo, Accolse con qualche diffidenza la nostra preghiera, come temesse un'insidia oscura, una trama ordita ai suoi danni: forse lontani ricordi di episodi di brigantaggio dovevano affacciarsi nella sua immaginazione. Lungo il breve percorso la sua diffidenza aumentò, e si andò tramutando in vera e propria angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista familiare del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo minuscolo spazio esistenziale. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e a tal punto si andò agitando mostrando i segni della disperazione e del terrore, che decidemmo di riportarlo indietro, al punto dove d eravamo incontrati. Sulla via del ritorno stava con la testa sempre fuori del finestrino, spiando ansiosamente l'orizzonte per vedervi riapparire il domestico campanile: finché quando finalmente lo rivide, il suo volto si distese, il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta. Giunti al punto dell'incontro, ci fece fretta di aprirgli lo sportello, e si precipitò fuori dell'auto prima

23F. Dei « Dove si nasconde la cultura subalterna? Folk e popular nel dibattito antropologico italiano» In Bulgaria –

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che fosse completamente ferma, selvaggiamente scomparendo in una macchia, senza rispondere ai nostri saluti, quasi fuggisse da un incubo intollerabile, da una sinistra avventura che aveva minacciato di strappalo dal suo Lebensraum, dalla sua unica Umwelt possibile, precipitandolo nel caos. Anche gli astronauti, da quel che se ne dice, possono patire di angoscia quando viaggiano nel silenzio e nella solitudine degli spazi cosmici, lontanissimi da quel «campanile di Marcellinara» che è il pianeta terra: e parlano e parlano senza interruzione con i terricoli non soltanto per informar lì del loro viaggio, ma anche per aiutarsi a non perdere «la loro terra». Ciò significa che la presenza entra in rischio quando tocca i confini della sua patria esistenziale, quando non vede più <<il campanile di Marcellinara», quando perde l'orizzonte culturalizzato oltre il quale non può andare e dentro il quale consuma i suoi «oltre» operativi: quando cioè si affaccia sul nulla. »24

Con questa lunga citazione di Ernesto De Martino comincio questo paragrafo, il campanile di Marcellinara, il punto di riferimento per la costruzione dell’ Umwelt di quel contadino, così come possono farlo alcuni oggetti cari, delle foto dei genitori, amici, di tempi più lontani che riguardiamo per presentificarci alla mente la nostra storia, il nostro mondo, una collana che ci ha regalato un parente che non c’è più, un vecchio diario, un filo rosso della nostra vita che si manifesta in oggetti comuni. La cosa più banale che teniamo nell’armadio e che tiriamo fuori per regalarla a qualcuno che ci è caro. Gli oggetti, i doni, i nostri mobili, che abbiamo scelto con cura, danno vita al nostro mondo e contribuiscono a situarci, a farci sentire appartenenti a una comunità, ci prendiamo cura della casa, la teniamo in ordine, creiamo un ambiente confortevole per noi e per gli altri.

Senza l’orizzonte di segni e di significati con cui decodifichiamo il nostro ambiente circostante, e per mezzo dei quali lo costruiamo intorno a noi, il nostro essere nel mondo è così necessariamente legato con un doppio filo agli oggetti che adoperiamo o che s+,63emplicemente ci circondano, quando uno di questi crolla, scompare, viene perduto o rubato, anche il nostro orizzonte di significati viene scosso, ci sentiamo incompleti e talvolta isolati, come se una parte di noi dovesse ricostruirsi o riaffermarsi.

24E. De Martino, La fine del Mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 1977,

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«Ma che cosa vuole dire propriamente il mondo che diventa indigesto? Semplicemente il mondo che non più incluso nel trascendimento, cioè in quella gerarchia storica di presentificazioni valorizzanti che si è consumata nella storia della società umana cui appartengo, e che pone le singole persone storiche che la compongono, e me fra esse, in un mondo «appaesato», domestico, familiare, nel quale flusso ancora poter decidere qualcosa, se a partire dalla esperienza zero della deiezione. Il mondo è, innanzitutto, l'orizzonte dei segni del lavoro umano, di decisioni altrui assunte e riconosciute: esso è familiare perché la famiglia culturale umana vi ha lasciato traccia di sé, vi documenta la sua storia. Il mondo è la storia vivente degli altri in noi, e non importa se questa vita si muove ora in noi come abitudine, come continua evocazione di gesti tecnici meccanicamente compiuti, come un ovvio adoperare e utilizzare questo o quello, come un anonimo «si fa così» operante ai margini della consapevolezza: in questo sistema di opache fedeltà ha pur sempre luogo una appropriazione dell'umano, una sua messa in causa, sia pure nella forma del riadattamento alla situazione del singolo, che certamente è sempre nuova, e in qualche misura senza «modello». D’altra parte, l'esserci in un mondo familiare nella modalità dell'abitudinario, dell'ovvio, dell'anonimo consente la disponibilità per le iniziative più nostre, per le decisioni più personali, per i trascendimenti più impegnati: ma anche qui non siamo mai del tutto soli, e il mondo appare ancora nella sua storia nel senso che la nostra scelta sceglie ancora e prima di tutto un mondo di memorie culturali operative non soltanto nostre da versare nell'azione nostra.»

La crisi della presenza, la minaccia del nulla, il rischio della nuda esistenza, il cogliere la nostra gettatezza, la perdita del campanile di Marcellinara, ma l'esistenza non può essere nuda, essa deve essere ethos del trascendimento intersoggettivo. «Se il mondo si costituisce, si mantiene, si rinnova per un continuo trascendimento del nulla nell'essere dei valori, se questo trascendimento è ethos primordiale della cultura e della storia»25

Gli oggetti che ci circondano hanno come una specie di potere ci permettono di farci sentire isolati rispetto al resto del mondo, ci possiamo rifugiare in questi, e allo stesso tempo la perdita di qualcosa con un valore simbolico importante può destabilizzarci come la perdita di una persona, si ha la sensazione di perdere una parte di noi del nostro passato come se quei

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ricordi che l’ oggetto custodiva con la mancanza di questo si perdessero un po’ anche loro, diventassero più opachi, e i mondi che c’ erano dietro si facessero più labili.

«Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non son vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi sono utili, niente di più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive».26

Nell’ Epilogo alla “Fine del Mondo” De Martino riprende il concetto di Utilizzabile dalla filosofia Heideggeriana «Il «commuovere» di cui parla Roquentin è dunque una esperienza «insopportabile», è l'esperienza del «nulla»: ma non già il salutare senso di non-essere che stimola ogni non-essere-per-il-valore, ogni concreto sforzo di presentificazione, ma il non essere del valore che si trasforma in cieco stimolo di se stesso e che colpisce la sfera inaugurale della valorizzazione, cioè il mondo - culturalmente determinato e determinabile - della utilizzazione, e che al limite non lascia alcun margine per un mondo utilizzabile in cui esserci.»27

Il mondo, essendo sempre un mondo culturale viene conosciuto nella sua esperibilità nel nostro esserci già, ed essendo già in un mondo siamo dentro un sistema di valorizzazioni e attribuzioni di significato, un mondo fatto di intersoggettività, in questo gli oggetti svolgono un compito a mio avviso di primaria importanza nel richiamarci a queste attribuzioni, collegando il nostro essere come soggetto singolo all’esserci, come soggetto collocato nello spazio e nel tempo, sono la manifestazione materiale dell’esserci nella quotidianità sia nella rappresentazione tecnica dell’aver cura delle cose sia nella cura delle persone attraverso la memoria e i doni inalienabili.

«Il «mondo» dunque, per la faccia che volge alla vita universale, si costituisce come datità, e per la faccia che volge alla valorizzazione si costituisce come nostro, come «mondo della cultura»; ma la sua «datità» è solo possibile come ineliminabile residuo della valorizzazione, a cominciare da quella che lo rende partecipe di un progetto comunitario

26Ibidem p. 531. 27Ibidem, p. 532.

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dell'utilizzabile. Quando il supremo valore della valorizzazione entra in crisi su tutto il fronte del valorizzabile e coinvolge quindi anche la valorizzazione inaugurale dell'utilizzabile la emergenza non resta la «datità>> del mondo e di me stesso, ma si perde la stessa datità, non ci sono più né un mondo dato in cui mi trovo né un io dato che mi è stato assegnato. L'essere, che è dover essere, nella catastrofe del dover essere si inabissa nel nulla.»28

«La datità del mondo, nell'atteggiamento «naturale» significa semplicemente questo: sono dati oggetti intramondani altri da me, sono dati uomini altri da me, io trovo continuamente questi oggetti e questi uomini. Li incontro ed entro in vario rapporto con essi, la riduzione significa distruzione di questa datità per raggiungere, sorprendendola in vivo ed esplicitandola, la intenzionalità umana che la genera.

La datità del mondo, nell'atteggiamento naturale, significa semplicemente questo: mi sono dati (cioè mi sono dati dall'esterno) oggetti, fenomeni, uomini altri da me, con i quali entro in vario rapporto. In quanto dati dall'esterno io li trovo davanti a me, così come mi trovo davanti ad essi, senza contare che mi «trovo» io stesso come oggetto tra gli oggetti, come corpo fra i corpi. Sempre nell'atteggiamento naturale questa datità del mondo (e di me nel mondo), non solleva nessun problema: è una ovvietà in cui immediatamente si vive, e che è ovviamente inclusa nel vario comportarsi quotidiano.»29

L’ Ethos del Trascendimento di De Martino che si evince nei momenti dell’articolazione della domesticità dello sfondo, dell’operabilità domesticatrice, e dell’emergenza presentificatrice della valorizzazione attuale. Questo modo di vivere secondo cui siamo immersi in un profondo “affidarci a”, “raccogliersi in” volta sempre nei confronti di un progetto di relazione e di utilizzabilità, segna l’ordine umano che produce vita e bisogni e i mezzi per soddisfare i bisogni.

La domesticità del mondo è in primo luogo l’essere tra corpi utilizzabili, questa domesticità è parte costitutiva dello sfondo della nostra quotidianità e quindi parte imprescindibile per la creazione del nostro ambiente circostante

Il mondo domestico delle cose è un mondo che viene guadagnato e costruito nella vita individuale culturalmente condizionata e relazionata, ed è sempre nel complesso un ordine che è alla base dell'esserci-nel mondo, rendendoci disponibili per altre valorizzazioni.

28Ibidem, p. 638. 29Ibidem, p. 640.

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Le cose sono possibili poiché già indicano ambienti di utilizzazione in un certo tipo di ordine. Il progetto comunitario del’ utilizzabile è quindi un valorizzare intersoggettivo, che rende dunque possibile un mondo come orizzonte di enti intramondani e questo ordine degli enti come cose, ovvero come indici relazionati di utilizzazioni.

Un punto d’incontro nodale tra il pensiero di De Martino e di Martin Heidegger credo sia la centralità che entrambi danno all’ incontro con l’ente intramondano come modalità d’essere del nostro esserci, questa relazione costituisce la costruzione del nostro esser-ci, ovvero esser collocati nel tempo e nello spazio, e soprattutto la capacita di comprenderci in essi, questo avviene anche mediante la relazione con gli enti intramondani che si attua sempre mediante un essere con gli altri, il nostro esserci comunitario che si incontra e si scontra con l’ente utilizzabile come chiave di lettura del mondo.

«Mondo nel senso ontico è quell’ente che l’esser-ci che è in esso palesemente non è, ma l’ente preso il quale l’esserci ha il suo essere, l’ente per il quale esso è. Questo essere-a, questo essere per il mondo, possiede come abbiamo già accennato, il carattere del procurare il mondo come essere in esso in modi e possibilità diversi, lo definiamo precisamente come l’avere- a- che- fare con esso. Nell’avere- a che- fare con il mondo si temporalizza quello che di volta in volta è quell’essere- nel-mondo che è l’esser-ci. Se correlativamente all’in-essere delineano il mondo come l’in-cui, allora viene interpretato in base al tipo d’essere dell’in-essere in quanto aver-a-che-fare, nel con-cui dell’avere-a-che-fare procura. In tale aver-a che fare con il mondo l’esser-ci ritrova già sempre il suo mondo a questo ritrovare non è un afferrare teoretico. L’esser-già-presso è cura nel procurare. In quanto avere- a che fare che procura il mondo, l’esserci incontra il suo mondo.»30

In questo suo incontrare il mondo l’esserci dischiude il mondo, si apre a esso e lo fa tramite la cura come il modo costituente d’ essere dell’esserci che svela il mondo.

«La mondità del mondo, cioè l’esser specifico di questo ente “mondo”, è uno specifico concetto d’ essere. […] Noi investighiamo il mondo, come esso incontra nell’aver- a che- fare, cioè il mondo circostante, precisamente la mondità del mondo circostante. […]

Anche la mondità circostante, l’essere dell’ente presso il quale si trattiene anzitutto l’aver- a che- fare dell’esser-ci, l’aver a che fare che cura e procura, non può dunque essere

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compresa in un senso propriamente spaziale. Il circum e il circostante non devono essere compresi primariamente dal punto di vista spaziale e in generale non devono essere considerati dal punto di vista dello spaziale metrico.»31

In questa breve citazione Heidegger pone l’obbiettivo d’ indagare la mondità del mondo nel sull’essere mondo circostante, mondo ambiente, criticando la visione di esso puramente come mondo spaziale, misurato e concepito solo dal punto di vista gnoseologico- teoretico e non per la totalità di esso.

«L’incontro con il mondano in sé stesso è sempre nel rimando e in quanto riamando ad altro. […] L’altro elemento che in tale rimando viene per così dire sospinto anch’esso nella presenza è l’a che- per che il vantaggioso sia ciò che è. Queste relazioni di rimando sono quelle in cui si mostra una varietà di cose del mondo- circostante, per esempio un luogo pubblico con i suoi dintorni, una camera con i suoi arredamenti. La varietà cosale che qui s’incontra è tutto fuorché una varietà di cose che capitano ma, anzi, è in prima istanza ed unicamente presente in una determinata connessione di riamando. Questa connessione di rimando è a sua volta una totalità chiusa. Essa mostra da sé il singolo mobile. La camera non si incontra nel senso che io colga dapprima una cosa dopo l’altra e componga una molteplicità di cose per poi vedere la camera, ma primariamente io vedo una totalità di rimando come in sé conclusa e a partire dalla quale io colgo il singolo mobile e tutto quello che c’è nella camera. Un simile mondo circostante con il carattere di una totalità chiusa di rimando reca altresì il contrassegno specifico di una famigliarità. »32

In questi passi appena citati la connessione tra l’etnologo e il filosofo mi sembra chiara, il mondo circostante composto da enti intramondani, da utilizzabili è già nel mondo in cui io stesso nel mio esserci sono già immerso e non devo decodificarlo di volta in volta smantellandolo nei singoli aspetti, il mobile, la penna, la sedia o l’orologio, altrimenti non riuscirei più a comprenderlo e a esperirlo al mia stessa presenza verrebbe a mancare o sarebbe quantomeno labile, piuttosto lo comprendo a partire dalla totalità di rimandi che la totalità di essi implicano e manifestano nell’essere al mondo e nell’ essere in un mondo comunitario dei relazioni tra enti e con- esserci.

31 Ibidem, p. 207. 32Ibidem, 128.

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«L’Esserci in quanto essere-nel-mondo, ha già da sempre scoperto un “mondo”. Questa scoperta, fondata sulla mondità del mondo, fu caratterizzata come rilascio dell’ente a una totalità di appagatività, il lasciar appagare che rilascia si compie nel modo dell’autorimando preveggente, che, a sua volta si fonda nella comprensione preliminare della significatività. [...] Né lo spazio è il soggetto, né il mondo è nello spazio. È piuttosto lo spazio a essere “nel” mondo, perché l’essere-nel-mondo, costitutivo dell’Esserci ha già da sempre dischiuso lo spazio. [...] Ed appunto perché l’Esserci è spaziale nel modo descritto che lo spazio si manifesta a priori [...] Qui apriorità significa: premilinarietà dell’incontro dello spazio (come prossimità) nel rispettivo incontro intramondano dell’utilizzabile» 33

L’incontro con questi enti non è limitato soltanto a una conoscenza teorica del mondo, ma viene usato, prodotto, è un “averci a che fare” che possiamo descrivere con il termine commercio. “Il martellare non si risolve nella semplice conoscenza del carattere del mezzo martello, ma si è invece già appropriato di questo mezzo come più adeguatamente non sarebbe possibile. In questo commercio usante, il prendersi cura sottostà al per costitutivo di ciascun mezzo. [...] è il martellare a scoprire la specifica usabilità del martello. Il modo di essere del mezzo, in cui questo si manifesta da sé stesso, lo chiamiamo utilizzabilità.34»

Questo essere-nel-Mondo è un essere coorigirariamente l’uno con l’altro in un mondo ambiente comune, l’essere umano vive nel mondo, questo “nel” mondo vuol significare che siamo collocati in un luogo preciso, dove ci ambientiamo, interagiamo sia con l’ambiente che con gli altri, manipoliamo ciò che ci circonda, creiamo luoghi dove la comunità si ritrova, dai parchi, ai locali, alle scuole, la piazza principale della città, creiamo scenari che ci portiamo dentro che ci orientano nello spazio. Questi spazi pubblici sono necessari per costruire comunità e vicinati, per esprimere il nostro “con-essere” con gli altri. «L’essere dell’uomo si manifesta in quanto “l’uno con l’altro”. L’ uomo è un ente tale da essere uno Σᾧον πολιτικόν, che ha la nella sua struttura la possibilità di un “essere nella πόλις”. [...] L’essere l’uno con l’altro come lo intendiamo noi, significa un come dell’essere: l’uomo è nel modo dell’essere l’uno con l’altro. L’ asserzione fondamentale che io stesso, in quanto uomo vivente nel mio mondo faccio su me stesso, l’asserzione assolutamente primaria “io sono” è

33 M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 2015, pp. 139, 141. 34Ibidem, p. 92.

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