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Domesticità, Cultura Popolare e società di Massa

I prodotti di consumo, gli oggetti ordinari, facilmente acquistabili, riprodotti in serie, sono indispensabili per sancire dei momenti ben precisi, per esempio una serie di oggetti che richiamano il Natale, dall’albero, alle decorazioni, alcuni alimenti, o vestiti, film, tutto un insieme di oggetti che servono a riprodurre un’atmosfera che accompagnata da gesti formano dei rituali contemporanei che scandiscono il passare del tempo, così come altri oggetti che scandiscono e compongono dei riti di passaggio laici o religiosi, dalla corona d’alloro per la laurea a al vestito da sposa per un matrimonio, questo non implica che l’assenza di uno o più oggetti denaturalizzi il rito, ma che questi compongono il contesto affinché questo possa svolgersi pienamente, ne sono una prova e testimonianza, così come quelli artigianali, unici , che costituivano i riti nei racconti o nelle testimonianze di “quei mondi arcaici e autentici”, ricercati dai folkloristi. Ciò che nel corso di questa tesi sto cercando di mettere in luce è come attraverso la costruzione del proprio Umwelt partendo proprio dagli oggetti appartenenti alla cultura di massa si possa vedere la parte creativa, critica riplasmatrice delle classi subalterne. Come le costruzioni estetiche e morali siano estremamente connesse agli enti intramondani che ci circondano e che sembrano restare sullo sfondo.

«Le case che abbiamo attraversato colpiscono per la grande quantità di cose che le abitano, per gli oggetti ordinari che parlano di storie sempre in qualche modo uniche, traboccanti di legami, di emozioni, di ricordi, di viaggi e di densi significati. Ci siamo trovati di fronte a spazi domestici segnati dall’amore per le cose, collezionate con cura e stile cose ricevute in regalo, in dote, in eredità o ancora riciclate o acquistate e poi personalizzate in vario modo. […] Nel complesso abbiamo avuto a che fare con un affastellarsi di beni a volte ordinato e austero, altre volte scomposto e debordante, testimone di un esserci al mondo, di un appaesamento e di un impulso a conferire impronte indelebili a luoghi altrimenti anonimi e impersonali che vengono così addomesticati e resi unici, specchio del sé o del non famigliarmente condiviso.»58

In accordo con la nota sopra riportata, anche io nelle case in cui sono entrata ho potuto vedere, l’amore per le cose, questo di manifestava attraverso la cura per esse e per le storie, le persone, le relazioni che queste esprimevano. Per questo motivo sostengo che non vi sia una pura scelta funzionale nell’arredare e scegliere gli oggetti che ci circondano.

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In questo capitolo cercherò di mettere in luce e analizzare le modalità in cui il folklore inteso sia come agglomerato indigesto di frammenti resiste e permane nelle classi subalterne odierne, sia come possa assumere una chiave creativa e generatrice di comunità morali. Inoltre, sempre soffermandomi su oggetti dell’etnografia proverò a chiarire meglio il legame tra la creazione del proprio Umwelt con gli oggetti quotidiani, la cura per essi che sono un ponte di relazioni e a loro volta di cura con il mondo e le persone.

«Cominciamo da due celebri definizioni di cultura popolare o folklore: a) “manners, cotoms, observances, superstitions, ballads, proverbs, etc.… of the olden time:

b) “concezione del mondo e della vita, implicata in grande misura di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica oggettiva) con le concezioni del mondo ufficiali… che si sono succedute nello sviluppo storico.”

La prima definizione è proposta nel 1846 da W J. Thoms: un elenco di tratti culturali caratterizzati dall’antichità, cioè dal fatto di essere sopravvissuti da precedenti e arretrate fasi della storia o dell’evoluzione. La cultura popolare è fatta di un insieme di cose che si sottraggono alla modernità, e che permangono nelle aree tra i ceti sociali più arretrati- in sostanza nelle campagne e tra i contadini. In quanto non moderna, tale cultura diventa oggetto di uno sguardo specifico dei moderni. Questa definizione, implicitamente o esplicitamente, caratterizza l’attenzione ottocentesca al popolare, nelle sue declinazioni romantiche come quelle positiviste. Le prime ne apprezzano l’autenticità, le seconde ne deplorano il carattere primitivo e irrazionale. Ma gli intellettuali di entrambe le correnti identificano l’oggetto nello stesso modo, cioè come il calco in negativo della propria idea di modernità. […]

La seconda definizione è quella proposta da Gramsci (1975: 2311) nelle pagine sul folklore dei Quaderni del Carcere. Qui l’identificazione dell’oggetto è legata a una teoria della divisione in classi della società: le differenze culturali sono poste in relazione con le differenze sociali. Ciò non significa che le prime sono “determinate” dalle seconde: tutta l’opera di Gramsci è anzi volta a mostrare la natura complessa e storicamente mutevole di questo rapporto. Il popolare consiste dunque non in una certa classe di tratti culturali, ma negli usi

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sociali che se ne fanno; vale a dire in una relazione storicamente mutevole in processi e non in fatti.»59

La contrapposizione egemonico-subalterno si riferisce almeno in una sorta di immaginario comune anche allo scontro cultura popolare portata avanti dalle classi popolari, contro la cultura egemonica e strategica portata avanti da quelli che sono i produttori dell’industria culturale. Ma l'equazione non è affatto applicata

ai ceti subalterni legati alla modernità industriale odierna, in primo luogo alla classe operai di oggi che non produce più una cultura propria come quella legata al mondo contadino o artigiano, questo a causa del sistema capitalistico e legato a un commercio globale e ormai anche virtuale.

«Ma consumano i prodotti di massa dell'industria culturale, che è egemonica. Nelle condizioni della

modernità, allora, ci troviamo a dover scegliere tra una di queste due alternative: a) dal momento che, comunque si vogliano definire oggi le classi subalterne, esse si nutrono prevalentemente di cultura di massa (cioè dei prodotti dell'industria culturale), ciò che dobbiamo studiare è appunto la cultura di massa e le modalità del suo consumo;

b) lo studio della cultura popolare ha carattere storico, si concentra cioè su un passato in cui esisteva

una sfera culturale autonoma delle classi subalterne (i ceti contadini, in sostanza).»60

I vari indirizzi che dal secondo Novecento in poi si sono interessati allo studio del consumo, alla cultura materiale e ai rapporti di subalternità ed egemonia, non più analizzati come forze di due culture totalmente distinte che si scontrano, ma in un clima di tensione più nascosta, meno visibile e meno percettibile, che si enuclea in scelte di distinzione, seguendo il modello di Bourdieu , o nel mettere in opera una serie di tattiche o strategie per consolidare o aggirare il proprio status, come ho accennato nel capitolo precedente parlando di De Certeau, inoltre tenendo in considerazione come nella modernizzazione sia avvenuto un mutamento e un’ espansione dello scenario socio-culturale, che come affermato, si trova dinanzi “L’ intero mondo”, tramite un sistema economico globalizzato, e come la cultura popolare vada

59 F. Dei «Cultura Popolare» in Antropologia Museale, anno 8, numero 22, 2009, pp. 30-31.

60 F. Dei, «Verso una nuova cornice degli studi antropologici sulla cultura popolare in Italia», In Melissi, le culture

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considerata nei suoi aspetti di località e costruzione di un ambiente circostante grazie alle analisi fatte da Bausinger.

Nell’ elaborare la sua teoria della distinzione Bourdieu cerca di analizzare come la creazione del gusto, in particolar modo il gusto estetico segua degli schemi, delle regole, e un processo delineato. Divide la popolazione in quattro mega categorie che si distinguono per ceto e cultura chi possiede sia un alto capitale economico che culturale, chi solamente economici, chi solamente culturale e chi ha un basso capitale sia economico che culturale.

«Non basta che essa combatta [Qui Bourdieu si riferisce alla sociologia] le evidenze fondamentali e che riconduca il gusto, questo principio increato di ogni «creazione», alle condizioni sociali di cui esso rappresenta il prodotto, ben sapendo che coloro che si accaniscono a rimuovere l’evidenza del rapporto tra il gusto e l’educazione, tra la cultura nel senso di condizione di quel che viene coltivato e la cultura come attività del coltivare, sono proprio quelli che si stupiranno del fatto che si possa spendere tanta fatica per -dimostrare scientificamente questa evidenza. Ma occorre anche che essa interroghi questo rapporto, solo apparentemente autoesplicativo; e ricerchi la ragione del paradosso per cui il rapporto con il capitale scolastico resta altrettanto solido anche in quegli ambiti che non sono oggetto di insegnamento scolastico. »61

«Non si possono capire fino in fondo gli atteggiamenti che orientano le scelte tra i beni della cultura legittima, se non li si reinserisce nel sistema unitario degli atteggiamenti, se non si fa rientrare la «cultura», nel senso ristretto e normativo del linguaggio comune, nella «cultura», nel senso ampio dell’etnologia, e se non si riconduce il gusto complicato per gli oggetti più depurati al gusto elementare per i sapori alimentari. Il duplice senso del termine gusto, che in genere serve ad indicare l’illusione di una generazione spontanea, che tende a produrre questo atteggiamento colto, presentandosi nelle vesti di un’attitudine innata, deve servire, una volta tanto, a ricordarci che il gusto come «facoltà di giudicare i valori estetici in modo immediato ed intuitivo» è in dissociabile dalla capacità di discernere i sapori delle cose che mangiamo, che ci porta a preferirne alcuni rispetto ad altri.»62

61 P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 1983, pp- 11-12. 62 Ibidem, p. 101.

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Introducendo il concetto di habitus per evidenziare come certi atteggiamenti, abitudini, azioni siano per noi incorporate, azioni che svolgiamo senza un atteggiamento razionale, teorico, abbassando la nostra soglia di attenzione, l’esempio piò eloquente è il camminare, una volta che abbiamo imparato non ci chiediamo più se dobbiamo muovere per prima una gamba invece dell’altra o la posizione della nostra schiena, camminiamo e basta, così come il guidare, andare in bici e una serie di altri comportamenti che diventano naturali, facenti parte di noi. L’autore non si limita ad applicare il concetto di habitus solo a questi casi, ma trasporta l’habitus personale, individuale a certe categorie, classi di persone ù cercando così di elaborare la sua teoria sulla distinzione sociale del gusto.

«Non si tratta affatto, per carità, di reintrodurre, in una forma qualsiasi, quello che in genere viene chiamato il «vissuto» e che, il più delle volte, non è altro che una proiezione a malapena mascherata del «vissuto» del ricercatore. Si tratta invece cli sostituire al rapporto astratto tra consumatori dai gusti intercambiabili e tra prodotti dalle caratteristiche uniformemente percepite e valutate, il rapporto tra

gusti che variano inevitabilmente in base alle condizioni economiche e sociali della loro produzione ed ai prodotti a cui conferiscono una differente identità sociale. In effetti, basta porre il problema, stranamente ignorato dagli economisti, delle condizioni economiche della produzione degli atteggiamenti postulati dall’economia, cioè, in questo caso, la questione delle determinanti economiche e sociali dei gusti, per riconoscere la necessità di includere, nella definizione completa del prodotto, le esperienze differenziali che ne fanno i consumatori in funzione degli atteggiamenti di cui sono debitori alla posizione che occupano nello spazio economico. Queste esperienze non c’è affatto bisogno di provare per capirle, in un modo che può non dipendere affatto dall’esperienza vissuta e, ancor meno, dalla simpatia: essendo un rapporto oggettivo tra due oggettività, l’habitus consente di stabilire un rapporto intelligibile e necessario tra determinate pratiche ed una situazione a cui assegna un senso in funzione di categorie di percezione e di valutazione che a loro volta sono state prodotte da una condizione oggettivamente osservabile.» 63

«Per questo dobbiamo ritornare al principio unificatore e generatore delle diverse pratiche, cioè all’habitus di classe, come forma incorporata della condizione di classe e dei condizionamenti da essa imposti; dobbiamo pertanto costruire la classe oggettiva, come insieme di attori sociali inseriti in condizioni di esistenza omogenee, che impongono

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condizionamenti omogenei, e che producono sistemi di atteggiamenti omogenei, che sono in grado di produrre pratiche simili e che sono dotati di un insieme di proprietà comuni oggettivate, a volte anche garantite giuridica mente (come il possesso di beni o di poteri) o incorporate come gli habitus di classe (e, in particolare, come i sistemi degli schemi di classificazione)»64

E in modo ancora più chiaro nel capitolo seguente scrive

«L’habitus è infatti contemporaneamente principio generatore di pratiche oggettivamente classificabili e sistema di classificazione (principium divisionis) di queste pratiche. È proprio nel rapporto tra queste due capacità che definiscono l’habitus, capacità di produrre pratiche ed opere classificabili, e capacità di distinguere e di valutare queste pratiche e questi prodotti (il gusto), che si costituisce l’immagine del mondo sociale, cioè lo spazio degli stili di vita. Il rapporto che si stabilisce nella realtà tra le caratteristiche pertinenti della condizione economica e sociale (le dimensioni e la struttura del capitale considerate sincronicamente e diacronicamente) e gli aspetti distintivi, legati alla posizione ad essa relativa nello spazio degli stili di vita, diventa un rapporto intelligibile solo grazie alla costruzione dell’habitus, in quanto formula generatrice che consente di spiegare, sia delle pratiche e dei prodotti classificabili, sia dei giudizi, anch’essi classificati, che costituiscono queste pratiche e queste opere in un sistema di segni distintivi.»65

Pertanto, differenti condizioni di esistenza producono secondo il modello di Bourdieu differenti Habitus, le pratiche che vengono generate da questi assumono la forma di configurazioni sistematiche manifestando in questo modo le differenze che sono imputabili alle condizioni di esistenza che assumono la forma degli stili di vita.

«Ciò significa che negli atteggiamenti dell’habitus si trova inevitabilmente iscritta tutta la struttura del sistema delle condizioni, che si realizza nell’esperienza di una condizione collocata in una posizione particolare di questa struttura: i contrasti più di fondo della struttura delle condizioni (alto/basso, ricco/povero, ecc.) tendono ad imporsi come principi fondamentali di strutturazione delle pratiche e della loro percezione. […]

Gli stili di vita sono pertanto prodotti sistematici degli habitus che, percepiti nei loro reciproci rapporti, in base agli schemi dell’habitus, diventano sistemi di segni forniti di una qualifica sociale.»66

64 Ibidem, p. 105. 65 Ibidem, p. 174. 66 Ibidem, pp. 175, 177.

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Seguendo sempre il discorso coerente, seppur un po’ inquietante, di Bourdieu il trovarsi nell’unità organica dell’habitus, fa dipendere il gusto, le pratiche, l’attitudine di una determinata classe che sta all’origine dello stile di vita.

Un insieme di preferenze distintive, che nella logica particolare di

ognuna delle suddivisioni simboliche: mobilio, abbigliamento, linguaggio o hexis fisica manifestano la stessa intenzione espressiva.

Da ciò si può derivare che dalla posizione sociale, quelle popolari seguendo questo schema prediligeranno il “gusto per la necessità”, per ciò che è più funzionale, mentre classi più colte ed adagiate si dirigeranno verso un “gusto per il lusso”.

«Il vero principio delle differenze riscontrate nell’ambito del consumo ed in molti altri casi, è la contrapposizione tra i gusti di lusso (o di libertà) ed i gusti del necessario: i primi sono la peculiarità degli individui che sono il prodotto di condizioni materiali di esistenza definite dalla distanza dalla necessità, dalla libertà o, come si usa dire a volte, dalla agiatezza, che assicura il fatto cli possedere un capitale; i secondi esprimono, nel loro stesso adeguamento, le necessità di cui sono il risultato. È per questo che i gusti popolari per i cibi al tempo, stesso più nutrienti e più economici (un pleonasma che mette in luce la riduzione ad una funzione elementare. pura e semplice) possono venir

dedotti dalla necessità di riprodurre la forza-lavoro al minor costo possibile, necessità che, come indica la sua stessa definizione, si impone al proletariato. L’idea stessa di gusto, che è tipicamente borghese, perché presuppone la libertà assoluta di scegliere, è così strettamente legata all’idea di libertà, che si fa fatica anche soltanto a concepire il paradosso di un gusto del necessario. E questo, sia quando lo si dimentica completamente, facendo della pratica un prodotto diretto della necessità (gli operai mangiano fagioli perché non possono permettersi nient’altro), trascurando il fatto che il più delle volte la necessità si realizza solo perché gli attori sociali sono portati a realizzarla, cioè perché prendono gusto per ciò a cui sono comunque condannati; sia che lo si tratti come un gusto di libertà, dimenticando i condizionamenti di cui è il risultato, e riducendolo così ad una preferenza patologica e morbosa per le cose di (prima) necessità, una sorta di indigenza congenita, che funziona da pretesto per un razzismo di classe che accomuna il popolo al crasso ed al grasso; scarpe grosse, grandi fatiche, risate grossolane, scherzi grossolani, crasso buon senso, amenità grossolana, grassezza rubiconda, ecc. Il gusto è amor fati, scelta del proprio destino, ma è una scelta obbligata,

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prodotta da condizioni di esistenza che, escludendone tutte le altre in quanto sogni, non lasciano altra scelta che quella del gusto per ciò che è necessario.»67

Nel corso del libro si fanno molti esempi di consumo e beni che ciascuna classe sociale sceglie, predilige, acquista, un’altra cosa che emerge e che secondo me è degna di nota è anche l’attribuzione della concezione temporale che Bourdieu fa applicandole a queste in particolar modo riferendosi alle scelte alimentari dei ceti popolari scrive

«Dell’immediato presente è l’unica filosofia concepibile da coloro che, per così dire, non hanno avvenire, o che, in ogni caso, hanno ben poco da attendersi dall’avvenire.»

Come se lo status sociale a cui si appartiene costituisse un habitus che si estende e si ramifica sia al gusto, agli atteggiamenti e al modo di concepire il tempo e lo spazio solamente come una sorta di categorie di classe, non vi sono più tempo e spazio come concetti astratti che fanno da categorie altre, trascendenti, ma sono solo una temporalità e una spazialità vissuta e sperimentabile.

Inoltre, la modalità della distinzione con cui si palesa la differenza e “lo scontro” tra classi si può declinare in tre categorie.

«Per semplificare le cose, nella classe dominante si possono distinguere tre strutture di consumo che si distribuiscono in tre settori fondamentali: l’alimentazione, la cultura e le spese di rappresentanza e di presentazione personale (abbigliamento, cura dell’aspetto fisico, articoli da toilette, personale di servizio). Queste strutture assumono forme che costituiscono in modo rigoroso l’inverso una dell’altra — esattamente come le strutture dei rispettivi capitali — tra i professori, da un lato, e tra gli industriali o i grossi commercianti, dall’altro»68

Una lettura accurata del libro La distinzione ci fa capire però che non siamo attori sociali totalmente determinati dalla nostra classe sociale, come se non vi fossero margini di cambiamento, esalta al contrario l’agentività dei gruppi e dei singoli, pur all’interno delle coordinate generali definite dall’habitus, quello che emerge non è solo il rapporto tra la creazione del gusto e il suo modellarsi in una certa classe sociale, quanto ciò che questo può comportare, ovvero la possibilità, il potersi distinguere dagli altri ritenendoli Kitsch. Volgari, barocchi ecc... in visioni estetiche mobili, in cui di volta in volta ci muoviamo. L’avere o meno certi gusti in campo alimentare, nell’abbigliamento o nello scegliere il luogo dove passare le nostre vacanze non è una scelta come abbiamo visto richiama solo inclinazioni personali, ma si porta dietro sia la classe sia di poter attestare la propria posizione di dominante

67 Ibidem, p 186. 68 Ibidem, p.192.

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o dominato. È la differenza tra i vari atteggiamenti che li rende significativi e tutto, dal punto di vista sociale, è significante.

Il fatto di appartenere a una classe economicamente e culturalmente adagiata permette di sviluppare un gusto come accennavo prima verso il lusso, lusso che si declina per Bourdieu nel disinteresse in ciò che si sceglie per sé stesso, così chi ha il capitale economico o culturale tende ad acquistare certi beni materiali e prende le distanze da ciò che è contingente, necessario, con una finalità estrinseca legata a bisogni o vincolata a qualcosa.

«[...] l'atteggiamento di distanza […] è oggettivamente interiorizzato, può solo