• Non ci sono risultati.

Il filone giurisprudenziale più nutrito in materia è sicuramente quello riguardante le concessioni e gli appalti pubblici, ossia l’azione dello Stato o degli Enti pubblici in qualità di concedenti o di committenti nei confronti delle imprese.

L’inquadramento della disciplina dell’evidenza pubblica all’interno della “tutela della concorrenza” nasce da un diffuso equivoco, che confonde la tutela della concorrenza (effettiva) con il principio della “massima partecipazione alle gare pubbliche”101. Tale confusione, da

un lato, muove dalla concezione statico-strutturale dei mercati e, dall’altro, trascura di considerare che la concorrenza effettiva e dinamica si svolge con modalità (trattative riservate, offerte innovative ecc.) che sono normalmente escluse dai meccanismi delle gare pubbliche.

A ciò si aggiunga un altro equivoco: si afferma spesso che le norme in materia di contratti pubblici mirerebbero a realizzare quella che gli economisti chiamano “concorrenza per il mercato” e sarebbero per questo una componente essenziale della “tutela della concorrenza” Questo non è altro che l’ennesimo caso di utilizzo improprio di concetti economici da parte della Corte, infatti la locuzione “concorrenza per il mercato” dovrebbe riferirsi solo a casi in cui non è tecnicamente o economicamente possibile la compresenza di più imprese in un determinato mercato (in sostanza, in situazioni di monopolio naturale). Al contrario l’assegnazione di una commessa pubblica non assegna, se non in casi eccezionali, il controllo di un intero mercato separato da altri.

In conclusione una ricostruzione corretta dei principi in materia di appalti pubblici dovrebbe portare a riconoscere che, le esigenze tradizionali di tutela dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione, ex articolo 97 Cost., costituiscono ancora i valori fondanti della disciplina. La tutela della concorrenza costituisce, invece, un principio che richiede un bilanciamento, all’interno della disciplina

101 Nella giurisprudenza della Corte la sentenza 22 maggio 2009, n. 160, declina così

il ragionamento “finalistico”: “il risultato di ampliare potenzialmente la partecipazione delle imprese alle procedure concorsuali, assicura [...] cosi una maggiore tutela delle libertà comunitarie e degli stessi principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa: l’analisi del dato finalistico consente, dunque, di fare rientrare la normativa in esame nell’ambito della tutela della concorrenza”.

64

complessiva della materia, bilanciamento non esclusivo, dal momento che possono aggiungersi anche altri principi da considerare, come quelli di tutela dell’ambiente o di attuazione di determinate politiche sociali

102.

Tutto ciò dovrebbe comportare, interventi limitati in materia da parte dello Stato, nell’esercizio delle sue competenze trasversali, e non un’integrale avocazione della disciplina alla competenza Statale. Di tale avviso, però, non è la giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha adottato un indirizzo, in particolare in materia di appalti, diametralmente opposto.

Il leading case è la sentenza n. 401 del 2007, in cui la Corte ricostruisce le dimensioni, l’impatto e le origini della normativa statale contenuta nel d.lgs. n. 163 del 2006 (codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione alle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE).

Nella corposa ed articolata motivazione di questa decisione la Corte spiega il rapporto tra alcune norme del Codice appalti e la competenza statale esclusiva in tema di “tutela della concorrenza”, preoccupandosi di ribadire i limiti della suddetta funzione in linea con la sentenza n. 14 del 2004. In sostanza però, la Consulta non fa che distanziarsi dalla menzionata sentenza, rimodulando il concetto di competenza “trasversale” e allontanandosi del modello di sindacato sulla proporzionalità-adeguatezza dell’intervento statale, elaborato al fine di attenuare l’impatto della trasversalità degli interventi statali sugli spazzi di competenza legislativa regionale.

In merito al primo problema la Corte premette che nel settore degli appalti vi è l’esigenza di garantire, attraverso procedure di evidenza pubblica, la parità di accesso degli operatori (concorrenza in senso soggettivo) e allo stesso tempo la più ampia apertura del mercato degli appalti alla concorrenza (in senso oggettivo), in ossequio alle direttive europee e ai valori di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.

La Corte qui riprende la nozione di trasversalità della funzione statale a tutela della concorrenza al fine di sottolineare la possibilità di interferenze con competenze regionali, precisando che “nello specifico

settore degli appalti deve però ritenersi che l’interferenza con

102 M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione. Una rassegna critica

della giurisprudenza costituzionale italiana dell’ultimo decennio, Mercato Concorrenza Regole, n.3, 2014.

65

competenze regionali si atteggia in modo peculiare, non realizzandosi un intreccio in senso stretto con ambiti materiali di competenza regionale, bensì la prevalenza della disciplina statale su ogni altra fonte normativa”. Di conseguenza la fase di evidenza pubblica,

riconducibile alla tutela della concorrenza, deve essere interamente disciplinata dal legislatore statale.

Vediamo, dunque, che la Corte non intende più la trasversalità della tutela della concorrenza come “intreccio” o “interferenza” di competenze regionali, ma come “prevalenza” della normativa statale in riferimento alle procedure per la selezione dei contraenti ed alle diverse fasi della gara.

La Corte però, e qui veniamo al secondo problema, si preoccupa subito di verificare la ragionevolezza delle norme statali che integrano quella disciplina e, tentando di recuperare il modello argomentativo inaugurato dalla sentenza 14 del 2004, chiarendo ulteriormente che occorre verificare, in prima battuta, se l’intervento statale sia riconducibile ai principi della concorrenza (per il mercato e nel mercato) e, successivamente, se lo strumento utilizzato sia congruente al fine perseguito alla luce dei criteri di proporzionalità ed adeguatezza. La Consulta analizza dapprima la questione di costituzionalità, avente ad oggetto l’art. 4, comma 3 del d.lgs. n. 163 del 2006, nella parte in cui preclude alle regioni di prevedere una disciplina diversa da quella contenuta nel codice con riferimento alla selezione dei contraenti, ai criteri di aggiudicazione, al subappalto, ai poteri di vigilanza sul mercato degli appalti ecc.

Applicando il primo livello di verifica, i giudici costituzionali riconducono le regole codicistiche alla tutela della concorrenza. Infatti, tramite tali regole, il legislatore statale persegue l’obiettivo di garantire condizioni di concorrenzialità alle procedure di gara, nel rispetto dei principi comunitari.

Tuttavia, una volta ricostruitele finalità e funzioni riservate allo Stato dalla norma impugnata, la Corte non riesce ad andare oltre nel giudizio di ragionevolezza e deve ammettere che non è possibile svolgere un secondo livello di verifica sulla proporzionalità ed adeguatezza dell’intervento statale, in quanto la norma in questione ha una valenza di carattere generale nel senso che si limita ad elencare i settori e gli ambiti di esclusiva competenza legislativa Statale.

66

In effetti è la prima volta che la Corte si trova ad operare il giudizio di ragionevolezza su una norma generale, avendo in passato vagliato la proporzionalità solo su norme d’azione.

Essendo i lavori pubblici una non- materia i cui ambiti si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e, quindi, potendo essere ascritti, per alcuni profili, alla legislazione esclusiva statale ovvero, per altri profili, a quella regionale, i redattori del codice hanno analiticamente elencato, nell’articolo 4 comma 3, i settori e gli ambiti delle procedure nelle quali è preclusa la competenza legislativa regionale, senza specificare, però, il grado di vincolatività delle singole prescrizioni per le regioni.

Dinanzi ad una norma di questo tipo i giudici si sono dovuti fermare al primo livello di valutazione relativo alla riconducibilità della prescrizione della funzione statale alla tutela della concorrenza.

La Corte, dunque, si limita a ricostruire le finalità di queste disposizioni e a ricondurle alla finalità della garanzia dell’uniformità di trattamento dei partecipanti alla gara: per queste ragioni questa disciplina viene ricondotta in via prevalente all’ambito della tutela della concorrenza, ma, nel momento in cui, per la normativa sugli appalti il profilo della tutela della concorrenza diventa totalizzante ed assorbente rispetto all’intreccio con le competenze regionali, il giudice delle leggi finisce per rendere una “scatola vuota” il test sulla ragionevolezza- proporzionalità-congruità dell’intervento statale volto a garantire condizioni di eguaglianza-concorrenzialità nel settore degli appalti103. Questo schema è riproposto nella successiva sentenza n. 431 del 2007 che, nel dichiarare illegittima una legge regionale sull’attività contrattuale del consiglio regionale, in ordine a talune categorie di appalti, ribadisce quanto sopra detto e riproduce alla lettera la motivazione della sentenza commentata.

La Corte, però, non si ferma qui, introducendo la possibilità per il legislatore regionale di poter prevedere norme pro-concorrenziali in

103 L. Cassetti, Appalti e concorrenza: quante sono le “anime” della competenza

esclusiva in materia di “tutela della concorrenza”?, Giurisprudenza Costituzionale, n.6, 2007.

67

materia di appalti104, ma a patto che esse abbiano un effetto “indiretto e

marginale”105.

È interessante soffermarsi sull’uso combinato di principi enucleati in queste due sentenze per verificare se effettivamente residui uno spazio per la competenza legislativa regionale.

In effetti la possibilità (più formale che reale) di dettare norme pro- concorrenziali che abbiano solo effetti indiretti e marginali sull’assetto del mercato nazionale delle gare pubbliche, al fine di evitare la vanificazione delle competenze regionali, sembra contraddire la logica della “prevalenza” sulla quale la Corte ha fondato il peculiare modo di atteggiarsi della promozione della concorrenza, nello specifico ambito degli appalti pubblici.

Infatti la difficoltà oggettiva di individuare questi spazi per il legislatore regionale è stata immediatamente avvertita dalla dottrina più attenta, che si è interrogata sulla possibilità che alle regioni residuassero realmente margini di intervento sulla disciplina di ambiti materiali che interessano le pervasive e inderogabili regole statali poste dal codice dei contratti.

Le analisi più recenti dei dati regionali confermano peraltro il limitato impatto delle soluzioni adottate dalle regioni ordinarie in quest’ambito. Se dunque dobbiamo applicate il principio della “prevalenza” della disciplina statale in materia di tutela della concorrenza, le misure pro- concorrenziali dovrebbero viaggiare in “parallelo”, con l’obiettivo comune di rafforzare le scelte definite dal codice degli appalti con un impatto, come abbiamo detto, marginale oltre che indiretto. Questa formula, quindi, non finisce che rimanere un “contenitore vuoto” proprio perché un intervento regionale di quel tipo non è in grado di esprimere alcuna scelta politica, dovendo schiacciarsi alle soluzioni poste dal legislatore statale106.

Questo è, appunto, esattamente ciò che è accaduto in questi anni alle regioni ordinarie in materia di appalti pubblici, ove l’incidenza pro- concorrenziale degli interventi è stata nulla, poiché qualunque tentativo

104 In realtà questa novità venne introdotta dalla precedente sentenza n. 430 dello

stesso anno, in materia di liberalizzazioni.

105 L. Cassetti, Appalti e concorrenza: quante sono le “anime” della competenza

esclusiva in materia di “tutela della concorrenza”?, Giurisprudenza Costituzionale, n.6, 2007.

106 L. Cassetti, Alla ricerca di (improbabili) spazi regionali per scelte legislative pro-

concorrenziali: appalti e differenziazioni territoriali, Giurisprudenza Costituzionale, n. 3, 2014.

68

di adattare alla realtà produttiva locale le regole sulle gare si è tradotto in una sorta di “protezione” per alcune categorie di imprese o in un aggravio ulteriore sul versante dei requisiti tecnici richiesti alle imprese che vogliano partecipare ai bandi, come nel caso della sentenza n. 97 del 2014, in cui veniva impugnata una norma che estendeva agli

interventi sull’edilizia privata il sistema della

qualificazione/certificazione delle imprese, che il d.lgs. 163 del 2006 impone per i lavori pubblici.

Inoltre è da osservare come anche l’effetto più marginale di intervento rispetto alle regole codicistiche, ossia la mera “riproduzione” delle stesse, non è detto che sia sempre un bene. Più in generale l’idea di limitare l’intervento regionale a produrre effetti indiretti e marginali, svilisce la stessa sostanza della scelta politica regionale (nel senso di essere capace di interpretare le esigenze del territorio di riferimento) che dovrebbe essere invece il prorpium della legge regionale107. Anche nel caso appena menzionato, la Corte, nel momento in cui porta, all’interno del sindacato sulle regole che governano gli appalti pubblici, la necessità di non vanificare le competenze regionali, da un lato contraddice la “prevalenza” dell’agire trasversale della tutela della concorrenza, in materia di appalti, e, da un altro lato, conferma la perdurante difficoltà incontrata dai giudici costituzionali nell’elaborare un modello compiuto di valutazione della proporzionalità dell’intervento statale a tutela della concorrenza.

Occorre anche osservare come, a fronte di un percorso giurisprudenziale che utilizza una formula di dubbia applicazione per le regioni ordinarie, non siano mancate anche incertezze interpretative anche sui confini legislativi delle regioni ad autonomia speciale in questo ambito.

Per le autonomie speciali la Corte, nella sentenza n. 45 del 2010, ha invocato la “preesistenza” delle norme statutarie che attribuiscono alle province autonome la potestà legislativa in materia di “lavori pubblici di interesse provinciale”, alla riforma costituzionale del 2001: sulla base di questa affermazione la Consulta si è astenuta dal sindacato costituzionale delle scelte provinciali, alla luce del ruolo pervasivo della promozione della concorrenza attribuito allo Stato dalla novella costituzionale.

Questa momentanea, e discutibile, apertura è stata in realtà affiancata da una serie di decisioni in cui i giudici costituzionali hanno invocato i

69

limiti statutari che impongono al legislatore regionale/provinciale il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, al fine di ribadire il carattere assolutamente inderogabile delle norme del Codice degli appalti, nella sua veste di fonte adottata per dare attuazione alle direttive europee, il cui obiettivo era, appunto, quello di imporre al legislatore nazionale il pieno rispetto della concorrenzialità del mercato e della libertà di circolazione.

In questo contesto giurisprudenziale è opportuno chiedersi come le ragioni della differenziazione territoriale possano coesistere con la necessità dell’uniformità delle regole sulle gare e sugli altri aspetti che determinano la necessaria apertura e la piena concorrenzialità del mercato degli appalti.

In conclusione l’articolato quadro normativo oggi esistente si sviluppa sullo sfondo di aperture giurisprudenziali alla differenziazione legislativa difficilmente praticabili (interventi con effetto “marginale e indiretto”) per le regioni ordinarie e, per le regioni a statuto speciale, sporadiche aperture alle scelte riconducibili alla competenza piena attribuita dagli statuti.

Valutato nel suo complesso, l’importante filone giurisprudenziale sopra esaminato appare ispirato più a realizzare principi di unitarietà del mercato nazionale e di imparzialità della pubblica amministrazione che di tutela della concorrenza fra imprese, in senso proprio. Ciò per la finalità ultima, piuttosto trasparente, di realizzare un’operazione di politica del diritto, volta ad ampliare la potestà legislativa statale, con formule sostitutive dell’abrogato criterio dello “interesse nazionale”. Operazione comprensibile, ma realizzata a prezzo di forzature interpretative108.

Poiché l’uniformità legislativa ha evidenti ricadute sull’ottimizzazione della regolazione statale e, più in generale, sulla funzionalità ed efficienza del mercato, si auspica, quanto prima, l’avvio di una stagione di dialogo e di collaborazione fattiva con le regioni (ordinarie e speciali) in modo da fissare confini regolatori condivisi, al fine di migliorare l’agire uniforme della concorrenza nel settore degli appalti pubblici e

108 M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione. Una rassegna critica

della giurisprudenza costituzionale italiana dell’ultimo decennio, Mercato Concorrenza Regole, n.3, 2014.

70

con essa la funzionalità di un ambito strategico per lo sviluppo economico del paese109.

109 L. Cassetti, Alla ricerca di (improbabili) spazi regionali per scelte legislative pro-

concorrenziali: appalti e differenziazioni territoriali, Giurisprudenza Costituzionale, n. 3, 2014.

71

Documenti correlati