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la tutela della concorrenza nella costituzione e nella giurisprudenza costituzionale: profili sostanziali e competenziali

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(1)

I

UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

La tutela della concorrenza nella costituzione e nella

giurisprudenza costituzionale: profili sostanziali e

competenziali

Il Candidato

Il Relatore

Mattia Ottonelli

Prof. Pietro Milazzo

(2)

II

A Mamma, Papà,

Giada e Arianna.

(3)

III

Indice

Introduzione………..1

Parte

I Il fondamento costituzionale della libertà di concorrenza e la sua definizione tra diritto comunitario e diritto interno. 1. La libertà di concorrenza e le sue radici nell’articolo 41 della Costituzione………3

2. La libera iniziativa economica. Storia e caratteri…………...5

2.1 Dalle origini al corporativismo fascista………...5

2.2 Il dibattito in assemblea Costituente………...7

2.3 L’oggetto tutelato dalla norma………...9

2.4 I limiti del 2° comma e la riserva di legge……….11

2.4.1 (…segue) il limite dell’utilità sociale………...13

2.5“Programmi” e “controlli”. Il terzo comma…………...15

3. La discendenza della libertà di concorrenza dalla libera iniziativa economica privata………...18

3.1 La libertà di concorrenza………...18

3.2 Il rapporto tra l’articolo 41 Cost. e la libera concorrenza……….20

(4)

IV

3.4 Dubbi. Il rapporto tra l’articolo 41 e il 117, II comma, lett. e): la tutela della concorrenza è realmente un valore

costituzionale?....………25

4. Dalla libertà di concorrenza alla tutela della concorrenza………29

4.1 La concorrenza nella Costituzione del 1948………29

4.2 Il principio della concorrenza nel diritto comunitario…….…31

4.3 La legge antitrust n. 287 del 1990………36

4.4 La tutela della concorrenza………...37

4.5 La sentenza n. 14 del 2004……….41

4.5.1 La coincidenza della nozione interna di concorrenza con quella comunitaria………..44

4.5.2 L’intervento dinamico .………....46

4.5.3 Gli aiuti di Stato………47

5. Riflessioni ed auspici………52

Parte II

La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di tutela della concorrenza 1. La tutela della concorrenza come materia trasversale………56

2. Gli appalti……….63

3. I Servizi Pubblici Locali………..71

4. Le liberalizzazioni………...83

5. Il Commercio………94

6. Altri casi giurisprudenziali………..103

(5)

V

(6)

1

Introduzione

La presente indagine si propone di fissare alcuni punti fermi intorno al tema della tutela della concorrenza.

In passato il tema in oggetto è stato spesso ignorato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, ma, grazie alla crescente presenza del legislatore europeo nel nostro ordinamento, ha assunto un rilievo sempre più centrale, all’interno della Costituzione Economica1.

Vedremo che la cultura giuridica italiana non è mai stata estranea al tema della concorrenza e ricondurremo il suo fondamento costituzionale nell’alveo dell’articolo 41 Cost., senza omettere alcune considerazioni sull’introduzione, dovuta alla riforma costituzionale del 2001, del titolo “tutela della concorrenza” all’interno dell’articolo 117, 2 comma, lettera e).

Analizzeremo, inoltre, come la concorrenza da “libertà” si tramuta in bene oggetto, appunto, di “tutela”, sulla spinta, come abbiamo già annunciato, dell’ordinamento comunitario e tenteremo di definire cosa si intende per “tutela della concorrenza”.

Successivamente rileveremo il carattere “trasversale” della “tutela della concorrenza”. Questa caratteristica ha comportato un notevole impegno da parte della Corte Costituzionale, sulla cui giurisprudenza ci soffermeremo diffusamente.

Quest’ultima, infatti, è stata chiamata in causa numerose volte per risolvere i conflitti competenziali tra Stato e Regioni, creatisi in materia.

1 Si precisa che la formula “Costituzione economica” viene utilizzata in senso

neutro-descrittivo, per indicare le norme ed i principi costituzionali governanti il modo di realizzazione di tutti i rapporti economici.

(7)

2

(8)

3

PARTE I

Il fondamento costituzionale della libertà di concorrenza e la

sua definizione tra diritto comunitario e diritto interno.

1. La libertà di concorrenza e le sue radici nell’articolo 41

della Costituzione

La riforma del titolo V della seconda parte della costituzione, operata dal legislatore nel 2001, ha rivoluzionato il modello di regionalismo scelto nella Costituzione del 1948.

Il percorso delle Regioni e della loro autonomia può essere immaginato come una spirale che ruota attorno ad un asse, il quale raffigura idealmente il potere accentrato dello stato. Quanto più la spirale si è avvicinata all’asse, tanto meno le Regioni hanno goduto di autonomia governativa e viceversa. La riforma costituzionale del 2001 ha determinato il momento più ampia autonomia (e di maggior lontananza dall’asse raffigurante il potere centrale dello stato) dell’ente regionale. Il legislatore, nel delineare la ripartizione delle competenze legislative, in quello che è ormai noto come “secondo regionalismo”, si è avvalso dell’utilizzo di specifici elenchi in cui figurano, al secondo comma dell’art. 117 Cost., le materie di competenza legislativa esclusivamente statale e, al terzo comma, le materie in cui lo Stato e le Regioni concorrono. Infine, al quarto comma, la tecnica della residualità indica quali sono le materie di esclusiva competenza regionale.

Agli elenchi è rimessa la funzione di individuare il punto di equilibrio tra le ragioni dell’unità e quelle dell’autonomia, tra gli interessi unitari ed infrazionabili (cui è rimessa la competenza statale) e le esigenze di differenziazione (che chiamano in causa i legislatori regionali). La crucialità della questione è tale che ci si sarebbe aspettati una maggiore attenzione del legislatore costituzionale, il quale è andato, invece, incontro ad errori di collocazione, ad incongruenze, dimenticanze ed evidenti errori materiali.

Alcuni chiarissimi esempi sono il trasferimento, dalla competenza esclusiva a quella concorrente, di materie di connotazione fortemente

(9)

4

Nazionale come il “trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia” o le “grandi reti di trasporto”.2

Inoltre la compilazione di lunghi elenchi rapportata

all’indeterminatezza della tecnica della residualità ha avuto come conseguenza una generale confusione, trasformatasi successivamente in conflitto, tra stato e Regioni sulla legittimità a legiferare su diverse materie. Da tale conflitto è conseguito, a sua volta, un ingolfamento della Corte Costituzionale, schieratasi in prima linea per contrastare l’inerzia di un legislatore disattento.

Il tema della tutela della concorrenza si pone in tale contesto di incertezza, nel quale la Corte Costituzionale ha cercato di fare chiarezza con numerose sentenze a partire dalla n.14 del 2004, la quale avrà profonda rilevanza sotto numerosi profili che esamineremo in seguito. Questa “nuova” materia è stata inserita nella nostra Carta Costituzionale nel 2001, tra i titoli di esclusiva competenza statale, al secondo comma dell’articolo 117, alla lett. e).

Infatti, all’indomani della riforma, tra le eccellenti novità apportate abbiamo potuto rilevare la costituzionalizzazione di materie fino ad allora soltanto desunte tramite interpretazione o recepite nel nostro ordinamento dal diritto comunitario.

La curiosa posizione in cui la tutela della concorrenza è stata inserita in Costituzione è stato motivo di dibattiti in dottrina, tra chi sosteneva che essa fosse una mera norma di competenza e chi asseriva fosse invece una norma sostanziale.

Una delle questioni centrali su cui il dibattito dottrinale si è focalizzato è chiedersi se il fondamento della libera concorrenza sia da ancorare all’articolo 41 della Carta Costituzionale o meno.

Opinione maggioritaria era, ed è tutt’oggi, che essa sia da ricondurre all’alveo della libertà di iniziativa economica tutelata dall’articolo 41 Cost.

Tuttavia, prima di entrare compiutamente nella faccenda, si rende necessaria una preliminare analisi dell’articolo 41 della Carta Costituzionale.

2 A. D’Atena, materie legislative e tipologia delle competenze, Quaderni

(10)

5

2. La libera iniziativa economica. Storia e caratteri.

2.1 Dalle origini alla corporativismo fascista

La libertà di iniziativa economica nasce da una costola del diritto di proprietà. È infatti assodato che l’origine di tale libertà è da far risalire al momento del riconoscimento della stessa come diritto “autonomo”. In origine la libertà di iniziativa economica era, appunto, considerata quasi come un segmento interno (in verità di scarso rilievo) del diritto di proprietà. Tale concezione era incoraggiata da un sistema dominicale contraddistinto, sul piano economico, dalla produzione agricola ed artigianale finalizzata all’autoconsumo e, sul piano politico, dal sistema feudale.

Con l’età comunale e il conseguente sviluppo dei traffici commerciali si possono individuare segnali di emancipazione della libertà di iniziativa economica dal diritto di proprietà.

È tuttavia in epoca moderna che tale libertà acquista piena autonomia. Un primo timido riconoscimento di tale principio, anche se in modo implicito, avviene in Inghilterra con l’elaborazione dei “diritti naturali” e dell’identificazione, fra essi, della libertà personale e della proprietà privata, dalla cui combinazione si desumeva la libertà di industria e di commercio.

Riconoscimento molto più esplicito, invece, è la proclamazione, nella Francia rivoluzionaria, del principio della “libertà del commercio e dell’industria” (l. 2-17 marzo 1792), il quale si dimostra come un forte esempio della rottura con il precedente sistema politico-economico nel quale il commercio e l’industria non costituivano una libertà, ma piuttosto un’attività il cui svolgimento era possibile solo con il consenso del sovrano, mediante “privilegi” concessi singolarmente.

Nonostante quanto detto, le costituzioni ottocentesche raramente aderiscono a questa ricostruzione, continuando a preferire l’idea di libera iniziativa economica come parte indistinta del diritto di proprietà. Lo Statuto Albertino non fa eccezione in merito, ponendo fra i diritti e doveri dei cittadini, il riconoscimento e la tutela di “tutte le proprietà”, nel limite del rispetto dell’” interesse pubblico legalmente accertato”3.

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6

In questa chiave di lettura Santi Romano4 rintracciava tra, le libertà dei sudditi, non solo la c.d. “libertà di attività”, ma anche la c.d. “libertà patrimoniale”, la quale integra la prima libertà5, poiché il patrimonio si

qualifica come un mezzo di esercizio, un effetto ed un campo dell’attività personale.

La libertà patrimoniale, pur essendo regolata in grande parte dal diritto civile, è qualificata da profili pubblicistici che si rinvengono, in particolare, nella proclamazione dell’inviolabilità dei c.d. diritti quesiti e dell’inviolabilità della proprietà, intesi quasi come svolgimenti (impliciti) della libertà di attività, pur non espressamente evocata nello statuto6.

Inoltre è bene ricordare che a supporto del riconoscimento dell’autonomia e della libertà di iniziativa economica, vi era il Codice Commerciale, adottato dal Regno d’Italia nel 1882, e mantenuto separato dal Codice Civile come ad affermare e sottolineare l’autoregolazione del processo economico, in linea con la concezione liberista.

Per assistere ad un espresso riconoscimento della libera iniziativa economica nel nostro paese, bisogna attendere, nel 1927, la c.d. Carta del Lavoro, elaborata durante la vigenza dell’ordinamento corporativo fascista.

Essa è contraddistinta dall’accoglimento di un modello, per ceti versi contrapposto, perché di tipo funzionalista.

Vediamo, appunto, che la Carta del lavoro, pur affermando la residualità degli interventi dello Stato nella produzione economica, qualificava la libera iniziativa economica come “lo strumento più efficace e utile nell’interesse della nazione” 7 finalizzato al

perseguimento del “benessere dei singoli e sviluppo della potenza nazionale”8. Inoltre la Carta aggiungeva che l’organizzazione privata

4 S. Romano, Il diritto pubblico in Italia, Milano, (testo del 1914), pubblicato nel

1988.

5 La “libera attività” era intesa come comprensiva della “libertà professionale”,

consistente nella facoltà di “chi possiede quei requisiti di capacità richiesti dalle norme generali” di “scegliere l’attività lucrativa che più gli conviene, sia nel campo delle professioni in senso stretto, sia in quello delle arti, delle industrie e del commercio”.

6 S. Romano, Il diritto pubblico in Italia, Milano, (testo del 1914), pubblicato nel

1988.

7 Carta del Lavoro, dichiarazione IX. 8 Carta del Lavoro, dichiarazione VII.

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7

della produzione è una “funzione di interesse nazionale”9 e che “l’organizzazione dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato”10.

In altre parole la produzione economica era oggetto di iniziativa economica dei privati, ma lo Stato si riservava di intervenire, nelle forme del “controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta”, non solo in un’ottica sussidiaria e residuale, ma anche nel caso più significativo del ricorrere della necessità di realizzare gli interessi politici dello Stato.

2.2

Il dibattito in assemblea Costituente

Il dibattito sul rapporto tra iniziativa economica privata e pubblica si ripresentò nuovamente in seno all’ Assemblea Costituente e fu una delle questioni più aspramente dibattute. Il risultato di tale dibattito fu l’attuale testo dell’articolo 41.

Punto centrale dello scontro, avvenuto in sede di III Sottocommissione, furono le due diverse visioni sulla qualificazione dell’iniziativa economica privata e sulla definizione degli ambiti di intervento dello Stato.

La prima posizione, sostenuta in particolar modo da Mortati11, vedeva la libera iniziativa economica come rivolta esclusivamente al perseguimento del benessere collettivo e dunque funzionale a finalità sociali, definibili dallo Stato mediante “piani” dal contenuto vincolante per i privati.

La seconda, al contrario, era volta ad intendere la libertà di iniziativa economica come libera, con il limite, però, del rispetto dell’utile pubblico.

Dall’inconciliabilità delle due parti ne scaturì la soppressione della previsione delle necessarie finalità da perseguire mediante attività economica, pubblica e privata, e dell’adozione dei “piani” vincolanti per i privati.

9 Carta del Lavoro, dichiarazione IX. 10 Carta del Lavoro, dichiarazione VII.

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8

Risultato finale fu optare una scelta in favore della libera iniziativa in termini di libertà (primo comma dell’attuale art. 41 Cost.). Tuttavia tale libertà, da un lato, venne corredata da una serie di limiti come il non contrasto con la sicurezza, la libertà, la dignità umana e, soprattutto, con l’utilità sociale (quest’ultima formula fu aspramente criticata in dottrina per la sua pericolosa genericità) e, dall’altro, la si assoggettava alla possibilità per il legislatore di prevedere programmi e controlli per indirizzare e coordinare la medesima iniziativa economica a fini sociali. È evidente a questo punto che la presenza di “anime” così diverse all’interno dell’articolo 41 fanno di esso una norma indeterminata nel suo nucleo politico centrale e, come sostiene parte della dottrina, “anfibologica”, ossia suscettibile di due opposte interpretazioni, tanto da aver provocato numerose e contrastanti interpretazioni da rendere la disposizione in esame una delle più controverse all’interno della, ma allo stesso tempo la chiave di volta della stessa costituzione economica. Infatti l’esplicita proclamazione della libera iniziativa economica e la sua inevitabile connessione, non solo con la consacrazione costituzionale della proprietà privata, ma anche e soprattutto con le altre libertà individuali, in quanto ritenuta espressione della personalità umana, inducono a ritenere accolta nell’ordinamento una certa dose di liberismo economico.

Al contrario, però, il mancato riconoscimento dell’inviolabilità di tale libertà e l’introduzione ai commi 2 e 3 di vincoli molto più rigidi e penetranti delle altre libertà, non hanno fatto che rafforzare quelle ricostruzioni secondo cui la libera iniziativa economica sia una libertà sott’ordinata rispetto alle altre, non configurabile come fondamentale e conseguentemente priva dei caratteri propri di siffatti diritti.

L’articolo 41 si presta a numerose interpretazioni non solo in virtù del particolare statuto riservato alla libertà di iniziativa economica privata ed al suo rapporto con le altre norme che hanno ad oggetto la disciplina dei rapporti economici, ma anche in considerazione della sua connessione con i principi fondamentali di libertà ed uguaglianza messi a cardine della Costituzione repubblicana, tanto da guadagnarsi gli attributi di norma “disarmonica”, “contraddittoria” e “di compromesso”.

A tale accusa è stata opposta la possibilità (o meglio la necessità) di una lettura della norma in esame proprio alla stregua di quei fondamenti Costituzionali volti ad esaltare la centralità della persona umana in un’ottica di garanzia dei singoli e delle formazioni sociali, nei confronti dei poteri pubblici e privati.

(14)

9

In questa prospettiva si è ritenuto rintracciare nell’articolo 41 Cost. il fondamento di un sistema ad “economia mista”, cioè non corrispondente ad un modello economico preciso, ma ad un sistema caratterizzato dal simultaneo riconoscimento sia della libera iniziativa privata, sia di forme eventuali di intervento pubblico volto a indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata a fini sociali12.

2.3 L’oggetto tutelato dalla norma

Un primo centrale nodo interpretativo, conseguente all’elevata problematicità dell’interpretazione della norma in esame, è cercare di identificare l’oggetto tutelato dalla norma.

A tal proposito, nel corso degli anni, sono state proposte ipotesi molto diverse tra loro, dalle quali sono conseguite ricostruzioni spesso inconciliabili.

In prima battuta si è ritenuto distinguere in due differenti momenti “l’iniziativa economica” dal suo “svolgimento”, intendendo per la prima solo l’atto propulsivo dell’attività, il momento in cui un soggetto decide se intraprendere o mento una determinata attività economica, di cui si è affermato l’assoluta libertà. Per il secondo, la disciplina dello svolgimento della medesima attività (in particolare ci si riferisce all’impresa), ritenuta oggetto dei limiti imposti dal 2° e 3° comma e sprovvista della libertà dichiarata nel primo comma.

È evidente che questa ricostruzione porta ad una frattura all’interno della norma e, anche per questo motivo, di essa è stata esclusa la fondatezza dalla Corte Costituzionale, che ha affermato “la garanzia

posta nel 1° co. di quest’articolo […] riguarda non soltanto la fase iniziale di scelta, ma anche i successivi momenti del suo svolgimento”13

riconoscendo, così, l’unitarietà della norma e la necessaria soggezione al 2° e 3° comma anche del momento dell’iniziativa stessa.

Tuttavia tale soluzione non ha snodato definitivamente il problema della definizione dell’oggetto tutelato dal primo comma dell’articolo

12 R. Niro, Commentario alla Costituzione, a cura di Celotto, Olivetti, Bifulco, Utet,

2006.

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10

41, in quanto sono state avanzate ulteriori ipotesi che hanno creato, a loro volta, ulteriori scenari confliggenti.

Vi fu, infatti, chi sostenne che la tutela della norma si limitasse esclusivamente all’attività d’impresa, giustificando tale asserzione con la vicinanza lessicale tra le parole “iniziativa” e “intrapresa” connesse all’aggettivazione “economica”.

A sostegno di ciò si poneva anche la definizione di imprenditore come colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione di beni e servizi14, facendo leva sull’idea che solo lo svolgimento una simile attività potesse evolversi in modo da contrastare con la dignità umana, la sicurezza e la libertà, di cui il 2° comma si pone a garanzia. Tale concezione, inoltre, spiegherebbe perché la libera iniziativa economica non sia ricompresa come diritto della persona e di conseguenza non goda degli stessi caratteri di inviolabilità di altre libertà fondamentali.

D’altro canto vi fu chi propose una ricostruzione più ampia, asserendo che per libera iniziativa economica si dovesse intendere ogni attività con cui il soggetto sceglie il fine economico che intende perseguire e l’attività con cui intende raggiungerlo, in linea con l’idea che la libera iniziativa economica si configura come un diritto di libertà propria della persona.

Va da se che, seguendo questa opzione interpretativa, lo spettro delle attività riconducibili alla libera iniziativa economica privata aumenta esponenzialmente, fino a ricomprendervi non solo l’esercizio della libera professione, ma anche prestazioni di lavoro subordinato o, nei casi più estremi, la scelta di fondare associazioni sindacali di categoria o aderire ad organizzazioni sindacali già esistenti.

Entrambe le tesi sopra esposte sono state aspramente criticate sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza Costituzionale. Quest’ultima, inoltre, seguendo le indicazioni dei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, ha egualmente escluso la riconducibilità della sola attività d’impresa all’iniziativa economica privata, essendo l’impresa solo uno dei molti modi in cui si manifesta l’esercizio dell’attività economica, rintracciando nell’articolo 41 anche il fondamento costituzionale anche di altre attività economiche sebbene non organizzate nella forma dell’impresa, come il lavoro autonomo fino ad arrivare all’esercizio di professioni intellettuali (non senza vivaci critiche).

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11

Ulteriore legittimo dubbio è domandarsi se sia possibile rintracciare nelle maglie della disposizione in commento un autonomo fondamento della libertà contrattuale.

La Suprema Corte15 si è espressa nel senso che esso può ravvisarsi solo

ove fosse accolta la nozione ampia di iniziativa economica privata di cui sopra. Essendo tale ricostruzione stata respinta possiamo affermare che la libertà contrattuale risulta essere costituzionalmente fondata solo quando si riveli strumentale alla realizzazione di una situazione soggettiva espressamente protetta dalla Costituzione e corrispondente alla libera iniziativa economica o al diritto di proprietà. In tal modo ogni limite posto alla libertà contrattuale si rivela legittimo solo in quanto preordinato al raggiungimento degli scopi previsti e consentiti dalla Costituzione in relazione alla situazione sostanziale e, quindi, anche in relazione all’iniziativa economica16.

2.4 I limiti del 2° comma e la riserva di legge

Da quanto sopra è stato detto possiamo affermare che gli unici dati certi che si possono desumere dal primo comma sono l’indeterminata estensione dell’oggetto tutelato e che, come statuito dalla Corte Costituzionale, la proclamazione di libertà, in esso contenuto, abbraccia anche le disposizioni del secondo e terzo comma.

La conseguenza è che dobbiamo ritenere che il diritto, di cui i primi due commi dell’articolo 41 Cost., non è riconosciuto in modo assoluto, ma solo entro i limiti fissati dal secondo comma dell’articolo stesso. Tali limiti sono da considerare esterni in quanto incidono sulla configurazione soggettiva di libertà.

Riguardo a questi limiti, i quali corrispondono ad altrettanti principi costituzionali (come abbiamo già detto libertà, dignità umana e utilità sociale) ci si è interrogati riguardo la loro operatività. La dottrina si è divisa in due differenti tesi in merito.

Da un lato, coerentemente alle risalenti indicazioni della Corte Costituzionale, si è posta l’idea secondo cui essi sarebbero oggetto di una riserva di legge implicita, desumibile dai principi generali

15 Sentenze Corte Costituzionale n° 30 del 1965, n° 241 del 1990

16 R. Niro, Commentario alla Costituzione, a cura di Celotto, Olivetti, Bifulco, Utet,

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12

dell’ordinamento democratico, secondo i quali ogni limite posto al godimento di una libertà o un diritto dei cittadini, necessita il consenso da parte dell’organo legislativo, organo che sappiamo trae la propria legittimazione e investitura da parte dei cittadini stessi17.

Dall’altro lato, la tesi opposta sostiene che il limiti contenuti nel secondo comma sono immediatamente precettivi, ritenendo che, indipendentemente dalle leggi che danno maggior realizzazione o concretizzazione alle formule adottate dalla Costituzione, i cittadini sono tenuti a rispettare i limiti fissati, i giudici a decidere e vegliare sul loro rispetto e le autorità esecutive, entro confini della propria competenza, ad imporne l’esecuzione.

Quest’ultima tesi è stata ripresa e sviluppata, è stata cioè proclamata l’immediata precettività dei limiti enunciati nella seconda parte del secondo comma- dignità umana, sicurezza, tutela della libertà- i quali, però, sono già espressi da altre disposizioni costituzionali e quindi già immediatamente precettivi. Tuttavia si ritiene che il legislatore Costituente li abbia richiamati nuovamente, attraverso la formula omnicomprensiva del comma in esame, come ulteriore garanzia di immediato rispetto di tali limiti per chiunque eserciti la libera iniziativa economica.

Questo anche in considerazione delle peculiari caratteristiche attraverso cui la libera iniziativa economica si realizza, ossia con atti giuridici aventi contenuto patrimoniale i quali implicano la trasmissibilità, rinunciabilità e disponibilità dei singoli diritti che al titolare spettano sui vari beni che costituiscono, ad esempio, l’azienda.

Codeste caratteristiche giustificano una maggiore compressione di detta libertà, in quanto il contrasto con tali diritti ed interessi si mostra ancora più concreto, ed avallano ulteriormente la ricostruzione secondo cui la libera iniziativa economica non è ricompresa tra i diritti essenziali della persone ovvero, nella più estrema conclusione, dell’esclusione di essa dal novero dei diritti fondamentali.

D’altro canto, le predette caratteristiche giustificherebbero l’intervento del legislatore ordinario, indipendentemente dall’esistenza o meno di una riserva di legge, tutte le volte che tale libertà venga pregiudicata dall’imposizione di un obbligo o di un divieto di carattere personale o patrimoniale.

(18)

13

Come già detto, sulla sussistenza di una riserva di legge implicita, nel 2° comma dell’articolo 41, la Corte Costituzionale si è espressa in modo favorevole sin da epoca risalente. La Corte ha ritenuto rintracciare nelle pieghe delle disposizioni costituzionali in materia di economia “una

chiara ispirazione unitaria, dalla quale la regola della riserva di legge, pur senza che si possa negare una certa sua varia modulazione, rappresenta sicuramente una costante”18. Tale costante sembrerebbe

confermata dal 3° comma dell’articolo in esame, il quale prevede l’intervento del legislatore per la determinazione dei “controlli” e dei “programmi” opportuni affinché l’attività economica pubblica e privata sia indirizzata finalità sociali. In tal senso si è ritenuto che non possa non esigersi egualmente il medesimo intervento del legislatore anche per il limiti negativi previsti al 2° comma dell’articolo 41 Cost.19

2.4.1 (…segue) il limite dell’utilità sociale

Nella trattazione dei limiti negativi indicati dal comma secondo, non ci si può esimere dall’esprimere delle considerazioni riguardo al limite che ha creato i dibatti più aspri in dottrina: l’utilità sociale.

È subito evidente la genericità e l’ampiezza della formula, tanto che, in sede di Assemblea Costituente, Einaudi la definì come inconoscibile perché espressiva di una norma indeterminata e indeterminabile.20 Nel tentativo di fissarne una definizione sono state proposte le più diverse interpretazioni, delineandone i più differenti contenuti, come l’esigenza di raggiungere i massimi livelli occupazionali (congiungendo l’articolo 41 all’articolo 4 Cost), secondo la lettura di Mortati o, nel recupero della nozione utilitarista di Bentham, la maggior quantità di benessere per il maggior numero di uomini, o ancora il benessere economico collettivo inteso come il progresso materiale di tutti in condizioni di eguaglianza.

In considerazione della oggettiva difficoltà di identificare una precisa definizione dell’utilità sociale, è stata proposta la qualificazione di essa

18 Sentenza Corte Costituzionale, n. 40 del 1964

19 R. Niro, Commentario alla Costituzione, a cura di Celotto, Olivetti, Bifulco, Utet,

2006

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14

quale “principio-valvola” che consente l’adattamento dell’ordinamento al mutare delle condizioni dei fatti sociali.

In questo modo, da un lato, con un unico intervento si è esclusa ogni forma di fossilizzazione della nozione di utilità sociale, dall’altro, si è riconosciuto il rilevante ruolo del legislatore nell’individuazione delle svariate fattispecie normative nelle quali si rintracci l’utilità sociale, ma più di tutto si è evidenziato il fondamentale ruolo della Corte Costituzionale che è chiamata a verificare i fini effettivamente perseguiti dalla legge e l’idoneità dei mezzi predisposti per perseguirli. Nello svolgimento di questo controllo (di cui va evidenziata la delicatezza, sia in ragione del carattere complesso del parametro sia per la sua struttura mutevole e mobile) la Suprema Corte, con la sentenza n° 14 del 1964 ha provveduto a delineare i confini del proprio intervento, riconoscendosi competente a sindacare la contraddizione dei fini di utilità sociale perseguiti dal legislatore con i presupposti di fatto accertabili, la non assoluta inidoneità dei mezzi predisposti rispetto allo scopo ed il perseguimento di finalità palesemente diversa da quella di utilità sociale formalmente indicata.

Un simile sindacato (per il tipo di controllo negativo e la varietà dei fini ritenuti idonei a configurare l’utilità sociale) rende complicato desumere dalle pronunce della Corte una nozione puntuale di utilità sociale, anche se è possibile rintracciare una logica di fondo comune alle decisioni in tema: il principio secondo cui sono di utilità sociale tutti quei beni che non solo sono ritenuti tali dal legislatore ma che godono anche della diretta tutela e garanzia della Costituzione.

In altre parole esisterebbe un nucleo minimo del concetto di utilità sociale corrispondente al complesso dei valori Costituzionalmente protetti da specifiche norme, come le libertà di personali, di informazione, di espressione, sindacali ecc., libertà non sempre riconducibili alla lettera del comma 2° dell’art. 41 Cost., ma riferibili ad altre situazioni oggettive protette nella Carta Costituzionale.21

21 R. Niro, Commentario alla Costituzione, a cura di Celotto, Olivetti, Bifulco, Utet,

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2.5 “Programmi” e “controlli”. Il terzo comma.

Nel paragrafo precedente si è evinto che i limiti del secondo comma, alla libera iniziativa economica, si pongono come limiti “esterni” il che sta a significare che l’attività economica è garantita anche ove non persegua fini di utilità sociale o non miri allo sviluppo della libertà, della sicurezza e della dignità umana, purché non sia svolta in contrasto con i valori appena elencati.

Sulla medesima scia si pone la portata del terzo comma dell’articolo 41, nella parte in cui attribuisce al legislatore la facoltà di determinare “programmi” e “controlli” per indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privati a fini sociali.

Si è a tal proposito osservato, come ha più volte statuito la Corte Costituzionale22, che “se si ritiene che tra le attività economiche private

rientrino quelle che costituiscono libertà di iniziativa” la necessaria

conseguenza è che la finalità sociale da perseguire con i programmi e i controlli non può implicare la negazione della libertà proclamata al primo comma.

Questa affermazione pare fondata non solo in ragione dell’unitarietà dell’articolo 41 e dei suoi tre commi, ma anche in considerazione dei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, dai quali emerge che l’utilizzo della parola “programmi” in luogo di “piani”, nonché il temine “controlli”, implichi un regime di libertà dell’iniziativa economica privata, pur essendo quest’ultima soggetta da limiti importanti.

In quest’ottica si può facilmente ritenere che la legge determinativa dei “programmi” e dei “controlli” abbia una valenza orientativa o indicativa e sicuramente non autoritativa, ossia, in altri termini, che il suo compito sia esclusivamente quello di indicare degli obiettivi, senza incidere sulla libertà del privato di determinare le proprie iniziative.

La Corte Costituzionale ha più volte confermato quest’indirizzo, precisando che i “programmi” ed i “controlli” non devono essere tali da sopprimere l’iniziativa economica ma solo indirizzarla e condizionarla23 in vista del perseguimento di fini di utilità sociale, come nel caso di assunzione obbligatoria di determinate categorie di soggetti24, a patto che le scelte imprenditoriali non siano condizionate

22 Sentenze Corte Costituzionale, n. 78 del 1958, n. 5 del 1962, n. 30 del 1965. 23 Sentenza Corte Costituzionale, n. 78 del 1970.

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in modo così elevato da indurre alla funzionalizzazione dell’attività economica25.

La previsione del 3° comma presuppone alcuni elementi: in primo luogo la consapevolezza che il mercato è incapace di autoregolarsi, con la conseguente attribuzione in capo alla legge del compito di regolare l’attività economica per correggere i fallimenti di mercato. In secondo luogo la garanzia della riserva relativa di legge, in base alla quale solo la legge può intervenire a limitare l’attività economica; in fine la scelta di una programmazione indicativa e orientativa si contrappone ad ogni forma di pianificazione totalitaria.

Quest’ultimo elemento pone uno spunto di riflessione: affinché la legge determinativa dei programmi possa indirizzare l’attività economica avrà ad oggetto, oltre che l’attività economica privata, anche quella pubblica, aprendo così alla possibilità per i pubblici poteri di svolgere attività economica in condizioni di parità e di concorrenza con i privati imprenditori26.

Una precisazione si rende indispensabile: l’intervento pubblico nell’economia non si qualifica e non può costituire una libertà, bensì una funzione assegnata dalla legge a un soggetto pubblico e destinata a soddisfare esclusivamente la finalità sociale di cui il soggetto pubblico è incaricato, in un’ottica di garanzia e non di pregiudizio per il privato. Questa delimitazione dell’intervento pubblico nell’economica si è andata profilando in particolare negli anni novanta, in concomitanza della ripresa del principio di sussidiarietà dell’azione statale, secondo cui essa sarebbe consentita soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o siano in gioco interessi politici dello Stato.

Rispetto a questo il dibattito sulle leggi di programmazione è più datato e vede lo svilupparsi delle analisi più attente negli anni sessanta e settanta, le quali ritenevano che la politica di programmazione economica sarebbe dovuta essere attribuita al parlamento per sottrarla al mutevole potere esecutivo che si era caratterizzato per la frammentarietà degli interventi di politica economica, in particolare dei primi governi di centrosinistra.

Contrariamente alle indicazioni Costituzionali è in questa fase che viene riesumato il riferimento ai “piani” anche se l’unica esperienza fu la

25 Sentenza Corte Costituzionale, n. 548 del 1990.

26 Quest’apertura ha fatto sì che lo Stato divenisse, anche, imprenditore,

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legge 685 del 1967 che approvò il “primo piano quadriennale 1967-1970”, ma tale esperienza fallì ancora prima di iniziare27.

27 R. Niro, Commentario alla Costituzione, a cura di Celotto, Olivetti, Bifulco, Utet,

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3. La discendenza della libertà di concorrenza dalla libera

iniziativa economica privata

Abbiamo visto come ambiguità analizzate nell’analisi dell’articolo 41 Cost, sono state (per lo meno in gran parte) fugate dall’intervento della Corte Costituzionale, nel segno del riconoscimento della libera iniziativa economica privata come libertà e dell’esclusione della funzionalizzazione del diritto.

Tuttavia solo con il processo di integrazione europea e l’affermazione del primato del diritto comunitario che talune opzioni interpretative sono state definitivamente estromesse dal sistema, volgendo l’ordinamento verso la via di un principio di mercato aperto ed in libera concorrenza28, insieme al divieto di aiuti pubblici alle imprese e alla proclamazione di circolazione di capitali, delle merci, dei servizi e delle persone, in linea con i principi dell’ordinamento Europeo.

Conseguenza ovvia di quanto appena detto è l’inevitabile impatto sull’articolo 41, cosicché si è desunto da esso l’implicito riconoscimento del mercato come sistema oggettivo capace di esprimere il massimo realizzabile di efficienza economica e crescita del tenore di vita collettivo e, ancora più importante ai fini della nostra trattazione, si sono dispiegate le virtualità concorrenziali nascoste nell’articolo fin ora analizzato.

Il dibattito dottrinale sul fondamento costituzionale della libertà di concorrenza, ulteriormente complicatosi con la legge Costituzionale n. 3 del 2001, si è risolto, non senza voci dissenzienti, nell’optare per la discendenza di tale libertà dall’articolo 41 della Costituzione.

Per giungere a tale approdo è necessario capire cosa sia la libertà di concorrenza per poi osservare come essa si rapporti alla libera iniziativa economica.

3.1 La libertà di concorrenza

A tal proposito Giuseppe Ferri29 parlava di due diverse concezioni di concorrenza, una soggettiva ed una oggettiva. Soggettivamente la libertà di concorrenza è il regime in cui a ciascuno è assicurata la libera

28 Articolo 4, 2° comma TCE.

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iniziativa economica. Al contrario il monopolio è il regime in cui tale libertà è riservata esclusivamente allo Stato.

La concezione oggettiva (o concorrenza effettiva) intende, invece, la libera concorrenza come il regime grazie al quale la presenza di una pluralità di operatori economici nel mercato impedisce che le condizioni di mercato siano suscettibili di essere modificate da uno di loro. Il monopolio, naturalmente, si pone all’estremo opposto.

Tale distinzione venne ripresa dalla Corte Costituzionale, più di vent’anni dopo, in un’isolata sentenza30, in cui viene rimarcata la

duplice finalità della concorrenza che “da un lato, integra la libertà di

iniziativa economica privata che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall’altro, è diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in concorrenza fra loro, giova a migliorare la qualità e a mantenere i prezzi”,

confermando, così, la visione di Ferri.

La libertà di concorrenza in senso soggettivo e la concorrenza effettiva sono quindi legate tra di loro; la concorrenza effettiva presuppone la libera concorrenza.

Ne consegue che se l’iniziativa economica è libera allora la persona fisica o giuridica può esercitarla concorrendo con altri e la libera iniziativa del singolo in rapporto con la libera iniziativa degli altri, si traduce nella libertà di concorrenza.

Quindi le diverse e indipendenti iniziative economiche private concorrono tra loro allo stesso modo in cui concorrono le libertà personali o le libertà di circolazione degli stessi soggetti.

L’indipendenza sostanziale di ciascun imprenditore con gli altri trova un avallo in uno dei postulati della teoria economica: la quantità di prodotto comprata da ciascun compratore o venduta da ciascun venditore è così piccola rispetto al totale del prodotto scambiato che i mutamenti in queste quantità non influiscono sul prezzo di mercato.

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3.2 Il rapporto tra l’articolo 41 Cost. e la libera concorrenza

Appurata l’attinenza della tutela della concorrenza all’articolo 41 della Costituzione, si rende necessaria un’analisi per chiarire la portata e l’inerenza della libera concorrenza alla libera iniziativa economica. La dottrina, a tal proposito, si è aspramente divisa, nell’individuazione degli specifici valori di riferimento tra, da un lato, il momento garantistico del riconoscimento della libera iniziativa economica e, dall’altro, il momento autoritativo dell’imposizione dei limiti dettati da esigenze di interesse generale.

Secondo un primo orientamento dottrinale la tutela costituzionale della concorrenza sarebbe rinvenibile nella garanzia dei presupposti della libera iniziativa economica privata, di cui il primo comma dell’articolo 41 Cost.

Partendo da una connessione logica, si è interpretata la libera iniziativa come garanzia efficace erga omnes, non solo in senso verticale, cioè verso lo stato, ma anche in senso orizzontale, cioè verso gli altri operatori economici. In questa prospettiva, dunque, l’una diviene aspetto dell’altra: la libera iniziativa economica del singolo si presenta, in rapporto agli altri, come la libertà di concorrenza.

In altre parole, la libertà di concorrenza non è altro che la libera iniziativa economica rivista in una prospettiva relazionale, la cui espressa previsione costituzionale diviene la tutela implicita del pluralismo nel mercato. Non solo, dunque, un’ottica individualista microeconomica, ma anche in una connotazione macroeconomica, in una garanzia del mantenimento della struttura tendenzialmente concorrenziale del mercato.

In questa linea si è giunti addirittura ad intendere nel mercato l’oggetto della tutela costituzionale (mercato come valore) e ad individuare in esso il fondamento ed il limite del diritto individuale di iniziativa economica.

Secondo Buffoni31 questo si tradurrebbe in una forzatura dell’articolo 41 e in un tradimento dell’ispirazione complessiva della Carta Costituzionale, in quanto la suddetta norma, come tutte quelle della prima parte della Costituzione, riconosce e disciplina una situazione

31 L. Buffoni, La “tutela della concorrenza” dopo la riforma del titolo V: il

fondamento costituzionale e il riparto di competenze legislative in le istituzioni del federalismo, n. 2, 2003.

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giuridica soggettiva, la libertà di iniziativa economica e, conseguentemente, la libertà di concorrenza. Ne deriva, come osservato da molti32, che il mercato non è né garantito né previsto in Costituzione e che la libertà di mercato non costituisce un valore costituzionale, come tale idoneo ad incidere su altri interessi primari costituzionalmente protetti.

La seconda interpretazione dottrinale, ha ancorato il principio della libera concorrenza alla previsione costituzionale del limite dell’utilità sociale, imposto dal comma 2 dell’art. 41 Cost., e ha individuato in quella clausola il dover essere costituzionale della legislazione antimonopolistica.

Si rende necessario partire da due considerazioni. Innanzitutto i patti limitativi della concorrenza non sono altro che una manifestazione ed esercizio dell’iniziativa stessa. In secondo luogo è da osservare che la Carta Costituzionale non condanna in assoluto in monopolio, ma solo in quanto monopolio privato.

La tutela della concorrenza si pone quindi come limite interno all’estendersi ed esplicarsi della libera iniziativa che, sulla base del primo comma dell’articolo 41, non può tollerare limiti interni che ne snaturerebbero la natura della stessa libertà.

Semplificando la tutela della concorrenza è un limite artificiale e non una conseguenza materiale del libero esplicarsi dell’iniziativa economica altrui. Se così è, allora pare corretto, coordinando primo e secondo comma, ricercare il fondamento e la legittimazione del principio concorrenziale proprio nel secondo comma, in particolare nel limite dell’utilità sociale che è vincolo del libero dispiegarsi dell’iniziativa economica a discapito dell’interesse generale.33

Diviene, quindi, centrale in questa prospettazione, definire la difficile delimitazione dell’utilità sociale, nella sua doppia conformazione di valvola e di concetto di valore costituzionale.

Emergono, a tal punto, tre correnti di pensiero: la prima sostiene che l’utilità sociale sarebbe principio riassuntivo delle garanzie costituzionali preordinate alla tutela dei soggetti più deboli (in

32 A. Pace, Libertà “del” mercato e “nel” mercato, Intervento al VI Convegno

dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, “La Costituzione economica negli anni Novanta”, Ferrara, 11-12 ottobre 1991, in Pol. dir., 1993.

33 L. Buffoni, La “tutela della concorrenza” dopo la riforma del titolo V: il

fondamento costituzionale e il riparto di competenze legislative in le istituzioni del federalismo, n. 2, 2003.

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particolare la tutela del consumatore); una seconda ricostruzione asserisce che la medesima clausola avrebbe una valenza prettamente economica, “mercatistica”, e coinciderebbe con la massimizzazione della produzione o con l’efficienza del mercato; un’ultima corrente, infine, l’utilità sociale si identificherebbe con il benessere economico collettivo, con il progresso materiale di tutti in condizioni di uguaglianza, in un tentativo di armonizzare la valenza puramente economica con gli obiettivi di progresso e trasformazione , prefigurati all’articolo 3, comma 2 della Cost.

Tentata una ricostruzione del fondamento costituzionale del principio della libera concorrenza, non è secondario osservare che vi è chi, in entrambe le esegesi costituzionali, sostiene esistano profonde implicazioni teoriche che toccano alla radice la questione della definizione della nostra forma di stato.

Infatti individuare il fondamento della libera concorrenza nel primo comma dell’articolo 41 Cost., significa ritenere che la tutela della concorrenza si traduce prevalentemente nella tutela delle posizioni di libertà dei singoli operatori economici e, di conseguenza, considerare gli interessi e le esigenze di ordine sociale, di cui al comma 2, come limiti negativi esterni al gioco concorrenziale, con conseguente attenuazione del carattere sociale della nostra economia.

Al contrario, ancorare la tutela della concorrenza al secondo comma dell’art. 41, significa configurare l’utilità sociale come elemento costitutivo della libertà di concorrenza, elevando quest’ultima a valore costituzionale, garantito nella misura in cui contribuisce al benessere economico ed al progresso sociale della generalità dei consociati. La scelta di aderire all’una o all’altra interpretazione non è ininfluente e corrisponde a precise opzioni di valore.

Sembrerebbe maggiormente conforme allo spirito dei padri costituenti (ed al conseguente orientamento emerso a conclusione del dibattito svoltosi in Assemblea costituente) aderire all’interpretazione che trova il fondamento della libertà di concorrenza alla clausola dell’utilità sociale.

Naturalmente non sono assenti rischi. Da un lato, laddove si limitasse quel concetto di utilità sociale ad interessi esclusivamente sociali, ed in essi si ravvisasse solamente il fondamento della normativa antitrust, si perverrebbe ad una soluzione irrealistica ed avulsa dai meccanismi di un’economia propriamente di mercato. Dall’altro, al contrario, laddove si facesse coincidere la medesima clausola con l’efficienza del mercato,

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si finirebbe per svuotare la ratio originaria del principio di concorrenza e per legittimare situazioni di oligopolio o monopolio in un’ottica di massimizzazione della ricchezza nazionale.

Tali rischi sembrano, però, superabili se intendiamo la clausola dell’utilità sociale come un intreccio tra le esigenze di progresso economico e le ragioni connesse al programma di trasformazione della società, mediante il superamento delle diseguaglianze di fatto. Un contemperamento tra le esigenze di ricchezza e quelle della sua equa distribuzione.34

Tale ricostruzione è stata avallata dalla Corte costituzionale in diverse pronunce.35

3.3 Gli ostacoli alla libertà di concorrenza

Evidenziato lo stretto legame (da alcuni definito di filiazione36) tra la libera iniziativa economica e la libertà di concorrenza occorre esaminare gli ostacoli che quest’ultima incontra nel proprio esercizio. Il primo di essi è frapposto dagli altri imprenditori o da un singolo imprenditore.

A prescindere dai patti restrittivi della concorrenza, la libertà d’impresa può essere esercitata sino al punto da far fuori tutti i concorrenti, creando appunto un monopolio. Per monopolista intendiamo un venditore che può modificare il prezzo al quale venderà il proprio prodotto nel mercato, modificando la quantità venduta.

La costituzione non dice nulla a riguardo, tuttalpiù accenna, all’articolo 43, alle situazioni di monopolio suggerendo, però, non la reintegrazione di un mercato concorrenziale, ma la sostituzione di un monopolio pubblico ad un monopolio privato.

La Costituzione, quindi, proclama la libera iniziativa economica, ne fa conseguire la libertà di concorrenza, ma non prevede interventi a difesa delle condizioni concorrenziali.

34 Op. ult. Cit.

35 Tra le tante sent. 439 del 1991

36 L. Buffoni, La “tutela della concorrenza” dopo la riforma del titolo V: il

fondamento costituzionale e il riparto di competenze legislative in le istituzioni del federalismo, n. 2, 2003.

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Il secondo ostacolo è rappresentato dallo Stato, o più precisamente nei limiti posti dal complesso dei pubblici poteri alla libera iniziativa economica privata.

La libertà di iniziativa economica si infrange dunque negli interessi-limite del secondo comma ed è sottoposta ai poteri del terzo comma. Le nozioni di “programma” e “controllo”, indicate al terzo comma, sono sufficientemente ampie da giustificare i prezzi di impero, le tariffe amministrate, la disciplina asimmetrica dei contratti (per tutelare il contraente debole), i provvedimenti concessori o autorizzatori che condizionano l’ingresso in determinati mercati.

Il dettato Costituzionale non si ferma qui, ma qualifica i “programmi” ed i “controlli” ammessi come “opportuni”. È evidente che ci troviamo difronte ad una qualificazione che presuppone un’amplissima discrezionalità legislativa nella scelta degli interventi, per di più non sindacabile dal giudice delle leggi. La Corte Costituzionale, infatti, non ha mai censurato un programma o un controllo perché “inopportuno”, purché sia rispettata la riserva di legge.

Si può notare come la portata già fortemente limitatrice dei programmi e dei controlli è ulteriormente rafforzata dai fini che vengono ad essi assegnati.

Essi sono finalizzati ad “indirizzare” e “coordinare” l’attività economica pubblica e privata, purché questa a sua volta persegua “fini sociali”.

L’utilità sociale, assume una duale funzione di limite e fine. Infatti nel secondo comma essa appare come un limite che l’iniziativa economica privata deve rispettare, ma nel terzo comma diventa, invece, il fine dell’attività economica: come se l’imprenditore debba seguire fini di utilità collettiva anziché privati.

È stato, appunto, evidenziato come la clausola dell’utilità sociale contrasti con il c.d. dogma dell’interesse individuale, su cui si basa non soltanto l’idea di concorrenza, ma anche l’intera scienza economica. Sembra che l’articolo 41, comma 3, voglia negare l’idea che il privato, perseguendo il suo interesse senza essere influenzato da norme di politica economica, concorra alla creazione del massimo grado di benessere comune (cioè l’ordine di mercato, descritto da Hayek)37.

37 F. A. Von Hayek, Law, Legislation and Liberty, trad. It. Legge, legislazione e

libertà. Una nuova enunciazione dei principi liberali della giustizia e della economia politica, a cura di A. Petroni e S.M. Bragadin, Milano, 1986.

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Quanto sia ampia la possibilità di limitare l’iniziativa economica privata (e quindi della concorrenza) che la costituzione del 1948 riserva ai pubblici poteri lo si desume anche dalle disposizioni relative all’attività economica pubblica.

L’articolo 43 Cost. identifica l’attività economica pubblica con quella che viene legittimata da situazioni che costituiscono il presupposto della riserva originaria o della espropriazione: servizi pubblici essenziali, fonti di energia, monopoli.

Tuttavia l’articolo 43 erige un argine contro l’integrale pubblicizzazione dell’attività economica, anche perché oltre l’espropriazione o la riserva richiede una condizione ulteriore: che le imprese interessate abbiano carattere di interesse generale.

Al contrario nell’articolo 41 manca un criterio per delimitare l’attività economica pubblica. Il terzo comma, infatti, affianca l’attività economica pubblica a quella privata, entrambe sottoposte a programmi e controlli stabiliti dalla legge e suscettibili di essere coordinate e indirizzate ai fini sociali.

Quale sia la linea di confine tra pubblico e privato, la norma non lo dice.38

3.4 Dubbi. Il rapporto tra l’articolo 41 e il 117, II comma,

lett. e): la tutela della concorrenza è realmente un valore

costituzionale?

Assodato che il fondamento costituzionale della libertà di concorrenza è da ricondurre all’alveo della libera iniziativa economica, non possiamo non soffermarci sulla proclamazione costituzionale della tutela della concorrenza, introdotta con la riforma del 2001, all’articolo 117, comma II, lett. e) Cost.

Vi era chi, pur rimarcando l’importanza della costituzionalizzazione della tutela della concorrenza, ha sostenuto che il titolo “tutela della concorrenza” non fosse sufficiente a fare assurgere detta materia a

38 G. Corso, la tutela della concorrenza in Il diritto amministrativo dopo le riforme

costituzionali, parte speciale: vol.1, a cura di G. Corso, V. Lopilato, Milano, Giuffrè, 2006.

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rango di valore costituzionale, in quanto essa non aggiunge nulla all’articolo 41 Cost.39

Quest’obiezione muove dalla collocazione del titolo “tutela della concorrenza” all’interno dell’articolo 117 Cost. Come sappiamo lo scopo di questa disposizione è operare una ripartizione delle competenze legislative tra Stato ed enti locali e, in ragione di ciò, questo filone dottrinale ha ritenuto infondato ritenere che la tutela della concorrenza sia un valore di rango costituzionale.

In altri termini si contestava l’ossimoro costituito dal rinvenire un valore costituzionale nella seconda parte della Costituzione, quella organizzativa, anziché nella prima, quella valoriale.

Per risolvere il dilemma occorre dapprima chiedersi se è ancora plausibile limitare gli effetti della costituzionalizzazione della concorrenza ipotizzando una linea di demarcazione tra la prima e la seconda parte della Costituzione.

Secondo Bifulco40, l’articolo 117, 2 comma, lett. e), e la relativa

interpretazione data dalla giustizia Costituzionale, ha sicuramente incidenza sul modo d’intendere i rapporti tra iniziativa economica privata, concorrenza e mercato e di quindi sulla parte I della Costituzione.

A favore di ciò si pongono diversi argomenti. Vi è, innanzitutto, l’argomento sistematico. In quest’ottica il dibattito politico-costituzionale ha dimostrato quanto sia impossibile infierire sulla seconda parte della costituzione senza produrre effetti indiretti sulla prima.

Un secondo argomento, questa volta letterale con implicazioni sistematiche ci fa notare come la Corte Costituzionale, quando nell’esame di nuovi titoli ha innalzato, di volta in volta, i valori o i fini a livello Costituzionale, ne ha fatto derivare effetti concreti sulle modalità di esercizio delle competenze legislative. Inoltre la Suprema Corte, nel fare ciò, ha recepito i valori Costituzionali dalla prima parte della Costituzione.41

Ritornando al problema a monte, un primo filone dottrinale si è duramente opposto al riconoscimento di valore costituzionale della

39 Al contrario è da notare come la riforma, per quanto riguarda la concorrenza,

abbia arricchito il lessico del diritto pubblico e ne abbia ampliato l’estensione.

40 R. Bifulco, la tutela della concorrenza tra I e II parte della costituzione, in Le

Regioni, a. XXXVI, n. 4-5 agosto-ottobre 2008.

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tutela della concorrenza in seno all’art. 117 Cost., ritenendolo “estremamente controvertibile e pericoloso”42.

Si è sostenuto che così facendo si arriverebbe a modificare surrettiziamente, attraverso norme di riparto delle competenze, il Titolo III (“Rapporti economici”), Parte I della nostra Costituzione e, attraverso esso, finanche il delicato equilibrio tra tutela del mercato, e delle regole che ne garantiscono il corretto funzionamento, e la garanzia delle esigenze latu sensu sociali in esso a fatica raggiunto.

Si ritiene allora che l’unico modo costituzionalmente legittimo per attribuire al medesimo principio, già dedotto in via implicita dall’art. 41 Cost., il crisma di valore autenticamente costituzionale sarebbe quello di prevederlo esplicitamente nel Titolo dedicato ai rapporti economici43.

Da questa ricostruzione l’art. 117 Cost. risulta essere una norma neutra, che nulla aggiunge all’articolo 41 Cost.

Una seconda, più convincente, corrente dottrinale si contrappone fortemente alla ricostruzione appena fatta.

Deve infatti ricordarsi che l’attribuzione di un potere implica anche la doverosità del relativo esercizio. Se così non fosse l’espressa previsione del bene giuridico “concorrenza” avrebbe l’effetto di diminuire la tutela: Regioni ed Enti locali sarebbero privati di qualunque potere normativo e amministrativo a tutela della concorrenza e lo Stato, di contro, potrebbe scegliere discrezionalmente tra, nel migliore dei casi, l’esercizio positivo dei suoi poteri o, nel peggiore, l’astensione da ogni intervento in materia.

Sembra, quindi, corretto concludere che la previsione della concorrenza all’art. 117 ha un triplice rilievo normativo. Osserviamo in primo luogo la doverosità dell’esercizio della funzione (normativa ed amministrativa) di tutela della concorrenza da parte dello Stato. In secondo luogo vediamo la sottrazione alle Regioni e agli Enti locali di qualunque potere (normativo ed amministrativo) di intervento positivo in materia, ancorché con finalità integrative o rafforzative degli standard di intervento determinati dalla normativa statale. Infine possiamo rinvenire il divieto, in capo alle Regioni e agli enti locali, di contrastare o frustrare le regole e gli obiettivi del diritto generale della

42 L. Buffoni, La “tutela della concorrenza” dopo la riforma del titolo V: il

fondamento costituzionale e il riparto di competenze legislative in le istituzioni del federalismo, n. 2, 2003.

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concorrenza, stabiliti dalle leggi dello Stato, con misure di regolazione amministrativa incompatibili con i principi sostanziali della materia. Quest’ultima conclusione è la più importante poiché accade di frequente di trovare leggi regionali o regolamenti comunali che regolano il funzionamento di mercati locali con norme volte a creare barriere artificiali all’entrata di nuovi operatori o a limitare la concorrenza di prezzo o il ricorso a determinate modalità di offerta, o a favorire accordi cooperativi fra gli operatori già presenti nel mercato, ovvero ancora a fornire aiuti a determinate imprese, con possibili distorsioni del processo competitivo.

Seguendo questa impostazione è scontata la conclusione secondo cui le eventuali scelte anticoncorrenziali di Regioni e enti locali saranno ritenute illegittime e soggette al relativo vaglio giudiziario (della Corte costituzionale, se si tratta di leggi regionali; dei tribunali amministrativi, se si tratta di norme regolamentari o di altri atti amministrativi)44.

44 M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione italiana, Rivista

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4 Dalla libertà di concorrenza alla tutela della concorrenza

Esaminata la libertà di concorrenza e la sua attinenza all’articolo 41 della Costituzione, possiamo procedere nell’analisi della materia. Come è noto l’evoluzione dell’ordinamento Europeo non ha lasciato immutati gli ordinamenti interni, influendo (tal volta radicalmente) sulle normative statali interne delle più diverse materie. La concorrenza ovviamente non fa eccezione, sia per il contesto prettamente economico nel quale si colloca, sia perché essa è una delle colonne portanti della Comunità Europea.

È proprio grazie a quest’ultima che nel nostro ordinamento giuridico la concorrenza si è trasformata, da semplice libertà a bene giuridico e, dunque, oggetto di tutela.

Per sottolineare questo fondamentale passaggio è utile analizzare lo statuto della concorrenza della Costituzione del 1948, prima dell’avvento dell’Unione Europea e quindi della legge antitrust del 1990 e della riforma costituzionale del 2001.

4.1 La concorrenza nella Costituzione del 1948

Abbiamo visto come le barriere erette dal testo Costituzionale a protezione dell’iniziativa economica privata siano estremamente deboli. Sono fragili quelle contro l’intervento dei pubblici poteri e addirittura inesistenti quelle contro le limitazioni che nascono dalle altre imprese e contro il potere monopolistico.

Conseguenza automatica di ciò è l’ancor più debole protezione dell’ordinamento alla libera concorrenza. A testimonianza di ciò notiamo che rarissimi sono gli annullamenti di disposizioni in contrasto con l’articolo 41 e completamente assenti quelli di disposizioni per violazione del principio concorrenziale, nel periodo precedente alla novella costituzionale del 2001.

Dopo il caso già menzionato della sentenza 223 del 1982 (nel quale la Corte Costituzionale enuncia la duplice finalità della concorrenza), dobbiamo attendere il 1990 per vedere riaffermata la libertà di concorrenza come “valore basilare della libera iniziativa economica”

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e “funzionale alla protezione degli interessi della collettività e dei

consumatori”45

In una sentenza dell’anno successivo, la 439 del 1991, che respinge l’eccezione di incostituzionalità della disciplina di ammissione delle imprese al beneficio dell’integrazione salariale ordinaria in caso di sospensione o contrazione dell’attività produttiva, vediamo che la Consulta motiva il rigetto della questione sostenendo che l’integrazione salariale mira “a garantire i valori aziendali, la permanenza delle

imprese in un mercato libero, il mantenimento delle regole di libera concorrenza che in esso vigono”46.

Tuttavia, anche in questi pochi casi, c’è poca chiarezza di idee.

Nel caso del 1982, in realtà, possiamo rintracciare una maggiore sicurezza dei casi successivi. Qui la Corte richiama i lavori preparatori del codice civile, dai quali si desume che l’intento principale dei relatori dell’articolo 2596 (patto di non concorrenza) sia quello di evitare un’eccessiva compressione della libertà individuale nel perseguimento di un’attività economica, salvaguardando quindi l’autonomia contrattuale. Ma, segnala la sentenza, tale intento non esclude che la norma di risolva anche nella protezione dell’interesse collettivo, impedendo eccessive restrizioni alla libertà di iniziativa economica e tutelando così il mercato nelle sue oggettive strutture. In altre parole la Corte sostiene che i limiti all’autonomia privata sono funzionali alla concorrenza oggettiva o effettiva.

Non altrettanto sicura appare la percezione del principio di concorrenza nella sentenza del 1991. È certamente ammissibile che l’integrazione salariale sia un intervento di politica economica socialmente apprezzabile, poiché impedisce la risoluzione del contratto di lavoro e la disoccupazione del lavoratore. Non è, invece, altrettanto plausibile che essa sia uno strumento volto al “mantenimento delle regole della concorrenza”, così come non lo è sostenere che le regole della libera concorrenza debbano assicurare “la permanenza delle imprese in un

mercato libero” e “la conservazione del sistema economico vigente”47. Tuttalpiù questi obiettivi potrebbero essere perseguiti in virtù della clausola sociale del secondo e terzo comma dell’articolo 41.

45 Sentenza Corte Costituzionale, n. 241 del 1990 46 Sentenza Corte Costituzionale, n. 439 del 1991 47 Op. Ult. Cit.

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