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Terminata l’analisi della giurisprudenza costituzionale in materia di “tutela della concorrenza”, è tempo di tirare le somme su quanto osservato.

Nella risoluzione delle controversie tra Stato e Regioni, la dimensione teleologica della tutela della concorrenza rimane all’enunciazione di principio, senza dare luogo ad effettivi scrutini di proporzionalità, come si può notare in particolar modo nella giurisprudenza formatasi nel settore degli appalti e ogni volta che si tratti di giudicare disposizioni generali che si limitino ad assegnare una competenza.

Oppure quella dimensione forma oggetto di equivoci, magari per lasciare uno spazio bonario al legislatore regionale, come a proposito degli effetti “pro-concorrenziali” purché “indiretti e marginali”, o ancora, viene postulata senza ulteriori argomentazioni, come nella ormai inflessibile giurisprudenza sugli orari degli esercizi commerciali. Quando gli standard di tutela della concorrenza risultino differenziati in ragione dei livelli di disciplina, la normativa europea diventa per la Corte una ciambella di salvataggio, ma quando la nozione su cui si basa, è il caso dei “servizi di interesse economico generale”, appresta uno standard di tutela della concorrenza minore della nozione impiegata dalla legge nazionale, si tenta di omologare questa a quella europea, salvo però ad affermare in altre occasioni che il diritto dell’Unione costituisce solo “un minimo inderogabile” di tutela della concorrenza. Per giunta il legislatore nazionale, allorché non sia tenuto ad attuare direttive europee, appare tentato (come nei servizi pubblici locali, nel commercio, nelle attività produttive in generale) dall’assumere indirizzi di generalizzata “liberalizzazione”, di fronte ai quali la Corte tende a inchinarsi, senza così fornire una sua visione della materia “tutela della concorrenza”191.

Da quest’orientamento giurisprudenziale possiamo trarre alcune conclusioni.

Innanzitutto possiamo affermare che la tesi, da molti sostenuta, secondo cui il titolo “tutela della concorrenza”, di cui l’art. 117, 2 comma, lett.

191 C. Pinelli, La tutela della concorrenza come principio e come materia. La

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e), è una norma sostanziale e non di mera applicazione, corrisponde allo stato attuale del diritto vivente192.

Ne consegue che la materia debba svilupparsi in modo tale da garantire un’unitarietà, non solo organizzativa, ma anche normativa sostanziale della disciplina di tutela della concorrenza.

Sul punto la Corte ha, anzitutto, ritenuto che la potestà legislativa statale possa legittimamente esprimersi nel senso di tutelare la concorrenza con norme più incisive di quelle dettate dal diritto europeo (ad esempio imponendo obblighi di gara e apertura delle gare stesse).

Tale affermazione non è del tutto precisa perché il problema dell’autonomia dei singoli Stati membri, nel modificare (ed eventualmente rafforzare) norme comunitarie di regolazione dei mercati e della concorrenza, è a sua volta vincolato al rispetto della norma del Trattato per cui “l’Unione ha competenza esclusiva [...] [per

la] definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno” (art. 3, TFUE).

Il problema è dunque risolto di volta in volta dallo stesso legislatore europeo, che può attribuire a sue norme, con scelta politica discrezionale, una funzione di uniformazione piena o di uniformazione minima.

Resta però chiaro che il principio è, in mancanza di diversa volontà del legislatore europeo, quello della uniformazione piena, e non “minima”, delle regole di funzionamento dei mercati.

Passando all’uniformazione delle norme di concorrenza nel diritto interno, dovrebbe riconoscersi al legislatore statale un potere analogo di stabilire, di volta in volta, regole di uniformazione piena interna, o di ammettere un decentramento applicativo di certe norme, con possibilità di integrazione e correzione di certi aspetti della disciplina da parte delle Regioni.

Sul punto l’orientamento della Corte è rimasto incerto.

In un primo momento, la Corte tendeva a far coincidere la “tutela della Concorrenza” di competenza statale con i soli interventi di carattere “macroeconomico” (termine, peraltro, usato impropriamente, per definire, in generale, i fenomeni economici di grande dimensione).

192 M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione. Una rassegna critica

della giurisprudenza costituzionale italiana dell’ultimo decennio, Mercato Concorrenza Regole, n.3, 2014.

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Questo orientamento è stato però abbandonato in numerose sentenze successive (riguardanti soprattutto la materia dell’evidenza pubblica), a partire dalla sentenza n. 401del 2007. La Corte ha, infatti, affermato che la tutela della concorrenza richiede uniformità delle condizioni di esercizio dell’attività d’impresa, a prescindere dalle dimensioni dell’attività esercitata.

Le incertezze sono proseguite, se pur con diversa angolazione, nella giurisprudenza sulle misure statali di liberalizzazioni dei mercati. Qui la Corte ha talora sancito che le misure di liberalizzazione, comportanti l’abolizione di vecchie regolazioni amministrative che disponevano autorizzazioni o altri limiti all’accesso al mercato, sarebbero limitate alle materie di competenza statale.

Tale risultato non sembra, in effetti, conforme alla dichiarata natura “trasversale” della tutela della concorrenza. Infatti, come abbiamo ampiamente visto in numerose sentenze, la competenza statale è stata invece estesa a misure regolatorie, anche di dettaglio, che siano giustificate, in linea di principio, da un intento legislativo di “liberalizzazione” (così, per esempio, le norme statali riguardanti gli orari di apertura e chiusura dei negozi).

In questa prospettiva appare dubbia la coerenza di qualche isolata pronuncia che, in contrasto con l’affermata esigenza di uniformità nazionale delle discipline a tutela della concorrenza (in questo caso: norme su concessioni e appalti pubblici), ha poi ammesso la legittimità costituzionale di norme regionali volte a realizzare una maggiore concorrenza, rispetto a quanto previsto dalla norma statale (ad esempio vietare l’affidamento diretto di servizi a società in house).

Infatti, delle due l’una: o la competenza statale si impone per ragioni di tutela della concorrenza in senso proprio, ed allora sarà necessario sindacare ogni singola disposizione sul piano della coerenza con tale finalità (con il risultato che non tutta la normativa di dettaglio in materia potrà dirsi strettamente funzionale alla tutela della concorrenzialità dei mercati), o la competenza statale si impone per supposte esigenze di piena uniformità normativa nel territorio nazionale, ed allora ben difficilmente può giustificarsi una norma regionale che voglia raggiungere un risultato di “maggiore concorrenza”, fra l’altro intervenendo su una materia, quella della concorrenza, che è attribuita alla potestà legislativa esclusiva dello Stato193.

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Il risultato è che, se da un lato si ha un’evidente compressione degli spazi di legislazione regionale, dall’altro la logica del caso per caso continua a dominare un contenzioso la cui soluzione dovrebbe non solo individuare la spettanza del potere legislativo, ma garantire regole certe degli assetti concorrenziali.

D’altra parte, nel giudizio in via di azione le classificazioni di tali assetti (“per il mercato” e “nel mercato”) restano troppo remote dall’allocazione effettiva di interessi costituzionali eventualmente coinvolti per dare luogo a bilanciamenti che consentano di avviare una

doctrine autenticamente giurisprudenziale sulla tutela della concorrenza.

La ricostruzione dovrebbe aver mostrato come questa possa più agevolmente formarsi nei giudizi in via incidentale, nei quali è in gioco direttamente quell’art. 41 Cost. in cui da tempo la Corte ha saputo distinguere la concorrenza come bene giuridico dalla libertà di concorrenza, secondo un’interpretazione che essa ritiene solo confermata dalla clausola costituzionale introdotta nel 2001 e corrispondente alla nozione del diritto dell’Unione, come affermato nella sentenza n. 94 del 2013194.

Non v’è alcun dubbio che tale trasfigurazione dell’art. 41 Cost. possieda rilevantissime implicazioni nell’assetto degli equilibri fra la proclamazione della libertà, i limiti ad essa frapposti e la collocazione della stessa nel quadro economico-sociale rinvenibile nel complesso delle disposizioni costituzionali.

Il progressivo ampliamento e la crescente attribuzione di peso al primo comma dell’articolo ha infatti abbassato il piatto di una bilancia che era stata differentemente tarata dai Costituenti: se l’idea di concorrenza immessa nell’art. 41 è quella oggettiva e se il concetto di mercato considerato è quello di uno spazio di relazioni con proprie regole, in larghissima parte autonome da quelle dell’ordinamento giuridico, ciò ha delle evidenti implicazioni con altri interessi costituzionali (rispetto della dignità umana, interessi dei lavoratori, tutela del diritto alla salute, tutela dell’ambiente, interessi dei consumatori ecc.)

Così, se in una prima fase della giurisprudenza costituzionale in tema di bilanciamento fra libertà di iniziativa economica privata ed interessi contrapposti si poteva registrare una consistente attenzione alla delineazione del concetto di utilità sociale come contrappeso alla libertà

194 C. Pinelli, La tutela della concorrenza come principio e come materia. La

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dei privati, in seguito non solo tale contrappeso è andato diminuendo progressivamente di forza, ma è stato in certa misura neutralizzato. A seguito dell’approvazione della legge antitrust, poi, e della conseguente “certificazione positiva” del mutamento di paradigma avviato con l’ingresso nel mercato unico europeo, l’incorporazione della libera concorrenza nell’ambito dei mezzi idonei a perseguire l’utilità sociale appare sostenuta in toni maggiormente oggettivi: “la permanenza delle imprese in un mercato libero” e “il mantenimento delle regole della libera concorrenza” costituiscono “fini di utilità sociale ai quali deve essere finalizzata l’attività imprenditoriale” 195.

Qui la concorrenza (oggettiva) non è più un mezzo per il perseguimento dei fini di cui all’art. 41, ma ne diviene il fine, il valore cui tendere per la sua completa attuazione.

L’esito di questa evoluzione è infatti un pericoloso assorbimento di princìpi fondamentali dentro una concorrenza costruita come una sorta di meta-valore, in grado di assicurare il perseguimento tanto degli interessi dei privati, quanto di quelli della comunità, nel migliore dei modi possibili196.

È opinione diffusa che il bilanciamento con altri interessi costituzionali potrebbe mostrarsi più equilibrato (e ragionevole), se si definisse in modo preciso cosa è la “tutela della concorrenza”.

Questa definizione dovrebbe constare di tre passi, tra loro logicamente concatenati.

Innanzitutto andrebbe definito il profilo finalistico, rispetto al quale la concorrenza costituisce strumento (benessere del consumatore, sviluppo economico, o altro), in modo tale da avere il fondamento e limite alla relativa tutela.

Successivamente andrebbe precisato che la concorrenza, come bene giuridicamente tutelato, è una condizione di effettivo funzionamento dei mercati (“concorrenza effettiva”), che, come tale, non coincide con la “libertà di concorrenza”, anche se quest’ultima ne costituisce presupposto logico: la libertà individuale di concorrenza può esercitarsi, infatti, anche in senso negativo (non-concorrenza) o comunque in direzioni contrarie al benessere del consumatore e allo sviluppo economico.

195 Sentenza Corte Costituzionale, n. 439 del 1991.

196 T. Guarnier, Libertà di iniziativa economica privata e libera concorrenza. Alcuni

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In fine, andrebbe puntualizzato che la concorrenza giuridicamente tutelata dev’essere intesa come efficienza complessiva dei mercati, da intendere soprattutto come processo competitivo dinamico (ossia come processo dinamico di innovazione imprenditoriale), orientato dalla libertà di scelta dei consumatori. Come tale, la concorrenza, come bene giuridicamente tutelato, non coincide con il pluralismo imprenditoriale, cioè con la concorrenza in senso statico197.

Al termine della definizione contenutistica si pone, poi, il problema della definizione dei criteri di bilanciamento tra tutela della concorrenza ed altri interessi. Secondo la tesi più accreditata anche a livello europeo, dovrebbe essere fatto alla stregua del principio di solidarietà orizzontale, cioè attribuendo prevalenza presuntiva al funzionamento dell’economia di mercato concorrenziale e richiedendo specifiche giustificazioni per legittimare le deroghe, sia di carattere permanente che di carattere singolare.

Rispetto a tutti e tre i profili sopra elencati, ed anche rispetto al tema dei criteri di bilanciamento, lo stato della giurisprudenza costituzionale appare, per diversi aspetti, ancora insoddisfacente.

L’attribuzione di valore sostanziale al principio di tutela della concorrenza richiede uno sforzo di precisazione contenutistica, a cui la Corte non si è, per vero, sottratta. Diverse sentenze hanno infatti enunciato definizioni di “tutela della concorrenza” in termini generali, prima di affrontare le specifiche questioni oggetto di decisione.

In proposito, la Corte ha progressivamente consolidato una definizione di “concorrenza”, caratterizzata dall’accostamento di tre diversi contenuti: “tutela” (norme antitrust), “promozione” (intesa come liberalizzazione dei mercati), evidenza pubblica nei contratti della pubblica amministrazione.

Questo modo di definire la concorrenza può dirsi ormai tradizionale. Riportiamo qui di seguito due esempi.

Il primo è tratto da una sentenza in cui la Corte, definendo problemi di competenza regionale, asserisce che “la nozione di “concorrenza”, di

cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost., riflette quella operante in ambito comunitario [...] Essa comprende, pertanto, sia le misure legislative di tutela in senso proprio, intese a contrastare gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente

197 M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione. Una rassegna critica

della giurisprudenza costituzionale italiana dell’ultimo decennio, Mercato Concorrenza Regole, n.3, 2014.

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sull’assetto concorrenziale dei mercati (misure antitrust); sia le misure legislative di promozione, volte ad eliminare limiti e vincoli alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese (concorrenza “nel mercato”), ovvero a prefigurare procedure concorsuali di garanzia che assicurino la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici (concorrenza “per il mercato”) [...] Pertanto, ove la suddetta materia, considerato il suo carattere finalistico e “trasversale”, interferisse [...] anche con materie attribuite alla competenza legislativa residuale delle Regioni, queste ultime potrebbero dettare solo discipline con “effetti pro- concorrenziali”, purché tali effetti siano indiretti e marginali e non si pongano in contrasto con gli obiettivi posti dalle norme statali che tutelano e promuovono la concorrenza”198.

Il secondo è tratto da secondo da una sentenza che affronta più direttamente il profilo contenutistico, vagliando la legittimità di misure statali di liberalizzazione: “la concorrenza presuppone “la più ampia

apertura al mercato a tutti gli operatori economici del settore in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi” [...] Essa pertanto [...] può essere tutelata mediante tipi diversi di interventi regolatori, quali: 1) “misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati” (misure antitrust); 2) misure legislative di promozione, “che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese” (per lo più dirette a tutelare la concorrenza “nel” mercato); 3) misure legislative che perseguono il fine di assicurare procedure concorsuali di garanzia mediante la strutturazione di tali procedure in modo da realizzare “la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici” (dirette a tutelare la concorrenza “per” il mercato)”199.

Come si può facilmente notare, non si hanno delle vere e proprie definizioni di “concorrenza”, e tanto meno definizioni “finalistiche”: la Corte ha proceduto piuttosto per accumulo di esperienze di decisione su singole materie, formulando una enunciazione riassuntiva, che però non riesce a portare veramente a sintesi tali esperienze.

198 Sentenza Corte Costituzionale, n. 97 del 2014. La frase è stata più volte ripresa

dalla Corte, con piccole varianti, soprattutto dal 2010 in poi.

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Un passo avanti si nota soltanto in una sentenza di poco successiva alla seconda fra quelle sopra elencate200: qui la concorrenza viene descritta come “esistenza di una pluralità di imprenditori [...] [che] giova a

migliorare la qualità dei prodotti e a contenerne i prezzi” e che essa “è una delle leve della politica economica del Paese”. Ciò giustifica

misure legislative di promozione della concorrenza con “finalità di

ampliamento dell’area di libera scelta sia dei cittadini sia delle imprese”.

Qui per la prima volta, accanto ad un elemento di carattere statico- pluralistico, la concorrenza viene definita anche con un connotato di tipo finalistico (miglioramento della qualità dei prodotti, ampliamento della libertà di scelta del consumatore), che potrebbe aprire un potenziale notevole per il controllo di coerenza dei singoli interventi normativi.

Rimane comunque, anche in quest’ultima sentenza, una certa povertà di contenuti.

In sostanza, può dirsi che, nella giurisprudenza della Corte è mancata la percezione piena dell’esigenza, pur formalmente riconosciuta, che l’allargamento della competenza statale, mediante il criterio di “trasversalità”, richiederebbe una particolare cura del profilo finalistico della tutela della concorrenza: solo il coerente perseguimento di finalità ricomprese nel principio può infatti giustificare, sul piano sistematico, il superamento di una definizione della materia mediante confini oggettivi, e quindi quella “invasione” delle competenze regionali che il testo dell’art. 117, in quanto tale, non prevede espressamente201.

Sotto questo profilo la giurisprudenza costituzionale, e con essa la definizione sopra riportata, è rimasta carente.

Vediamo appunto che affermare che la “tutela della concorrenza” comprende la disciplina antitrust è tautologico, perché tale disciplina ha come scopo dichiarato quello di tutelare la concorrenza, ma non definisce, a sua volta, il bene giuridico tutelato.

Inoltre nelle enunciazioni della Corte vediamo l’inclinazione tradizionale a identificare la “tutela della concorrenza” con la “tutela della libertà di concorrenza”, il che, come abbiamo già affermato, è uno dei ricorrenti equivoci della giurisprudenza costituzionale.

200 Sentenza Corte Costituzionale, n. 94 del 2013.

201 M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione. Una rassegna critica

della giurisprudenza costituzionale italiana dell’ultimo decennio, Mercato Concorrenza Regole, n.3, 2014.

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In sostanza, può dirsi che la giurisprudenza della Corte ha tentato, di superare l’idea, presente nelle prime sentenze in materia, che finiva per identificare “tutela della concorrenza” con “regolazione della concorrenza”, a prescindere dai contenuti e dalle finalità di quest’ultima (il risultato paradossale di questa interpretazione stava nel legittimare, sotto la formula della tutela della concorrenza, anche interventi statali restrittivi della concorrenza medesima).

Dopo i primi anni, la giurisprudenza della Corte ha corretto questo assunto, in linea di principio. Così, è stata rapidamente abbandonata l’idea che qualsiasi intervento pubblico incidente sul funzionamento dei mercati, ivi comprese le misure di aiuto alle imprese, dovesse farsi rientrare nella “tutela della concorrenza” (con la conseguenza, sottovalutata in un primo momento, che questa tesi avrebbe portato a giudicare illegittima qualsiasi misura regionale di aiuto pubblico ad imprese locali, ancorché compatibile con le norme europee).

In questo modo la Corte ha parzialmente bloccato i tentativi, da parte del legislatore nazionale, di utilizzare la norma costituzionale sulla

tutela della concorrenza come passepartout, mediante

l’autoqualificazione in tal senso di determinati provvedimenti

legislativi che non attengono direttamente, o comunque

esclusivamente, alla concorrenza fra imprese.

Tuttavia, come si è sopra notato, è rimasta estranea alla definizione di concorrenza, come bene giuridicamente tutelato, sia qualunque reale connotazione, sia qualunque indicazione qualitativa sul “tipo” di concorrenza tutelato (per esempio competition on the merits)202. Giunti a questo punto è sicuramente lecito chiedersi se l’approvazione della riforma costituzionale, promossa dal governo Renzi, avrebbe potuto condurre ad un qualche miglioramento.

Ricordiamo che il percorso della c.d. legge Renzi-Boschi, che abbracciava tutta la Parte Seconda della Carta Costituzionale, si è concluso con una sostanziale bocciatura referendaria nel dicembre 2016.

Ai nostri fini, ci limiteremo a commentare brevemente la parte di riforma concernente il Titolo V.

L’esigenza di riformare nuovamente il Titolo V della Costituzione nasce dall’esigenza di porre un freno al contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni. Sebbene il problema della conflittualità tra Stato e

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Regioni non si possa limitare all’aspetto giurisdizionale, è tuttavia evidente come quest’ultimo ne costituisca un sintomo emblematico. È, comunque, significativo che i presidenti della Corte Costituzionale che si sono succeduti, dall’approvazione della riforma del 2001 ad oggi, hanno rinvenuto tra le cause di questo contenzioso oceanico l’assenza della stragrande maggioranza delle leggi di attuazione e specificative. Il legislatore ha individuato il “capro espiatorio” nelle materie di legislazione concorrenti, eliminandole e distribuendo le materie presenti in quell’elenco tra quelle di competenza esclusiva statale e quelle di esclusiva competenza regionale.

Lo spirito che anima la riforma è, quindi, quello del riaccentramento legislativo ed amministrativo.

Lo schema di ripartizione delle competenze è stato, quindi, modificato in questi termini: per la competenza statale vediamo un significativo aumento del numero delle materie (dalla lettera “s” si è arrivati alla lettera “z”) invece, per le materie di competenza regionale, vediamo l’introduzione di un doppio binario. In primo luogo vengono, infatti, indicate alcune materie di competenza del legislatore regionale, mentre, alla fine del comma è stabilito che spetta alle Regioni “ogni materia non

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