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Un’altra serie di interventi, in cui la competenza Statale è stata riconosciuta, questa volta coerentemente, sulla base di un criterio finalistico, è quella riguardante la legittimità degli interventi statali di liberalizzazione dei mercati.

Intendiamo per liberalizzazione l’eliminazione di barriere amministrative all’entrata di nuove imprese nei mercati o alla crescita e diversificazione dell’attività di imprese già presenti.

Questo filone giurisprudenziale ha sancito la legittimità costituzionale delle diverse misure statali di liberalizzazione dei mercati succedutesi, con diversi interventi legislativi, tra il 2006 e il 2012, sviluppando coerentemente la tradizionale affermazione del carattere trasversale della “tutela della concorrenza”128.

Il primo caso che si presenta ai giudici costituzionali è quello della sentenza n. 430 del 2007, in cui è dichiarata l’infondatezza delle questioni di costituzionalità aventi ad oggetto l’art. 3 del D.L. n. 223 del 2006, contenente misure di liberalizzazione degli orari e delle modalità di vendita degli esercizi commerciali.

La Corte ha giustificato l’intervento Statale, volto ad eliminare tutta una serie di limiti gravanti sulla fase di avvio e sullo svolgimento dell’attività commerciale, riconducendo la norma impugnata alla competenza statale esclusiva in tema di tutela della concorrenza in quanto espressamente rivolta a promuovere “la garanzia della libertà

di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto funzionamento del mercato”129.

È, inoltre, in questa sentenza che la Corte, per la prima volta, al fine di non vanificare le competenze Regionali, ammette l’esistenza di uno spazio residuo per gli interventi pro-concorrenziali regionali a patto, però, che questi abbiano effetto “indiretto” e “marginale”.

Con la successiva sentenza n. 443 del 2007 la Corte risolve la questione costituzionale relativa alle norme del D.L. n. 223 del 2006 che aveva eliminato una serie di vincoli gravanti sull’esercizio delle professioni

128 M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione. Una rassegna critica

della giurisprudenza costituzionale italiana dell’ultimo decennio, Mercato Concorrenza Regole, n.3, 2014.

129 L. Cassetti, La Corte Costituzionale “salva” le liberalizzazioni del 2006: dalla

trasversalità alla “prevalenza” della competenza statale in materia di tutela della concorrenza, federalismi.it, 2008.

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(minimi tariffari, divieto di pubblicizzare i titoli e le specializzazioni professionali, il divieto di fornire all’utenza servizi interdisciplinari da parte di società di persone o di associazioni di professionisti).

In particolare, la Regione Veneto lamentava la sproporzione dell’intervento statale poiché l’estremo dettaglio della misura era incompatibile con la definizione da parte dello Stato dei principi generali di una materia (professioni) che il riformato art. 117 attribuisce alla competenza concorrente. Secondo la difesa regionale, il carattere dettagliato della riforma non poteva essere giustificato nemmeno in nome della trasversalità della tutela della concorrenza, dal momento che la stessa Corte, con la sentenza n. 14 del 2004, ha escluso che la trasversalità di quella funzione possa arrivare a vanificare completamente lo schema di riparto di competenza definito dall’articolo 117 Cost.

La Corte, tuttavia, non accoglie le ragioni della ricorrente e riconduce la norma che ha eliminato i minimi tariffari alla competenza esclusiva statale in materia di “tutela della concorrenza”, evidenziando la coerenza di questa riforma con gli orientamenti politici e giurisprudenziali elaborati in seno all’ordinamento comunitario che ha in diverse occasioni ricordato l’assoluta necessità di favorire l’apertura del mercato italiano dei servizi professionali legali, dichiarando, così, costituzionalmente legittimo l’intervento Statale.

Infatti, una volta ricondotto, sulla base di questa ricostruzione del quadro europeo, l’art. 2 del D.L. n. 223 agli interventi statali di “promozione della concorrenza”, in quanto norma volta a superare la logica dei minimi tariffari inderogabili in via convenzionale e quindi a favorire la concorrenza nei mercati dei servizi professionali, la Corte precisa, richiamando le sentenze n. 401 e n. 430 del 2007, che è del tutto superfluo indagare sul carattere dettagliato della norma in questione. Infatti, anche una norma con queste caratteristiche “purché orientata

alla tutela della concorrenza si pone come legittima esplicazione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in subiecta materia”.

L’eventuale illegittima invasione delle competenze costituzionalmente garantire alle regioni, derivante dall’agire trasversale della materia- obiettivo avente ad oggetto la promozione della concorrenza, non può essere imperniata sulla natura, dettagliata o meno, delle norme statali impugnate, quanto piuttosto sulla “rigorosa verifica della effettiva

funzionalità delle norme a tutela della concorrenza”130.

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Il ragionamento dei giudici costituzionali è stato, quindi, esteso anche alla liberalizzazione della pubblicità informativa sui titoli e sulle specializzazioni professionali, sulla base del presupposto che siffatte misure inducono e stimolano la concorrenza tra gli operatori.

Analogamente, l'eliminazione del divieto di costituire società per fornire servizi multidisciplinari è stata ritenuta dalla Corte legittima nella misura in cui “aumenta e diversifica l’offerta sul mercato”. In linea con queste conclusioni, la Corte ha altresì ritenuto conforme a Costituzione la norma del decreto legge (art. 2, co.3) che prescrive la sanzione della nullità delle norme deontologiche nell’ipotesi in cui le stesse non siano state adeguate alle novità sopra richiamate131.

Con la Sentenza 452 dello stesso anno la Corte ha ritenuto conforme a Costituzione una delle disposizioni più controverse del D.L. n. 223 del 2006: gli interventi statali adottati in via d’urgenza per il potenziamento del servizio taxi, mediante il rilascio di nuove licenze e l’espressa previsione, riconosciuta a tutti i comuni, di consentire il trasporto di linea di passeggeri ad operatori in possesso dei necessari requisiti tecnico professionali sono stati ritenuti legittimi, in quanto finalizzati all’aumento dell’offerta del trasporto pubblico locale e, come tali, rivolti al potenziamento delle condizioni di concorrenzialità nel settore interessato.

I ricorsi regionali avevano in realtà ancora una volta censurato il carattere dettagliato ed auto-applicativo delle misure di liberalizzazione sopra descritte.

Questo rilievo si fondava del resto sulla necessaria valutazione in ordine alla ragionevolezza dell’intervento statale che promuove la concorrenza, secondo lo schema inaugurato con la sentenza n. 14 del 2004, in cui la Corte, a fronte della natura trasversale delle misure volte a promuovere la concorrenza, aveva opportunamente precisato che le inevitabili interferenze con le competenze legislative regionali insite nella trasversalità della funzione statale in questione non avrebbero potuto annullare il riparto costituzionale delle competenze.

Anche in questa circostanza però la Corte non valuta la proporzionalità di queste previsioni rispetto all’obiettivo dell’incremento della concorrenzialità dell’intero mercato del trasporto di competenza dell’ente locale, ma supera l’argomento dell’estremo dettaglio di quelle

131 L. Cassetti, La Corte Costituzionale “salva” le liberalizzazioni del 2006: dalla

trasversalità alla “prevalenza” della competenza statale in materia di tutela della concorrenza, federalismi.it, 2008.

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previsioni ribadendo, coerentemente con i principi enucleati nella sent. 401 del 2007, che una volta ricondotta la normativa impugnata all’interno di una funzione trasversale (tutela della concorrenza) non rileva in alcun modo il fatto che l’intervento statale abbia un contenuto analitico.

Alla luce di quanto già detto nei paragrafi precedenti, è evidente che la Corte non misura più la proporzionalità e l’adeguatezza dell’intervento Statale a difesa della competitività dei settori produttivi interessati dalle misure di liberalizzazione in relazione al loro (più o meno esteso) impatto sugli equilibri dell’economia nazionale, al fine di contenere la trasversalità della competenza statale in tema di “tutela della concorrenza”, ma si limita ad argomentare la riconducibilità delle norme censurate alla funzione statale di “promozione della concorrenza”. Questo in virtù dell’esito dello scrutinio di proporzionalità ed adeguatezza, visto nella sentenza n. 401 del 2007, che ha portato ad intendere la trasversalità non più come “intreccio” o “interferenza” di competenze, ma come “prevalenza” della normativa Statale132.

Andando in avanti nel tempo, alla seconda ondata di liberalizzazioni, operata dal governo Monti nel 2012, notiamo il perdurare della concordanza di vedute fra il legislatore nazionale e la Corte Costituzionale. Concordanza valutata, questa volta, da molti favorevolmente anche se il giudizio deve essere temperato dalla considerazione che, in fondo, la deferenza della Corte verso la legislazione economica nazionale può dirsi una costante della storia della giurisprudenza costituzionale italiana133.

Non da meno è la sentenza n. 200 del 2012.

Qui bisogna premettere che in data 7 marzo 2011 veniva presentato alla Camera dei deputati un disegno di revisione degli articoli 41, 97 e 118, quarto comma, della Costituzione, che in particolare sostituiva il primo comma dell’art. 41 con il seguente “L’iniziativa economica e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”. A distanza di qualche mese, dopo il fallimento di questo tentativo di riforma, il governo ha adottato il D.L

132 Op. Ult. Cit.

133 M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione. Una rassegna critica

della giurisprudenza costituzionale italiana dell’ultimo decennio, Mercato Concorrenza Regole, n.3, 2014.

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n. 138 del 2011, che in sede di conversione (l. n. 148 del 2011) riproduceva il testo ora riportato.

Era inoltre prevista una lunga serie di principi, beni e ambiti suscettibili di porsi quali eccezioni al principio così enunciato (art. 3, primo comma), qualificava le disposizioni del primo comma come “principio fondamentale per lo sviluppo economico” e “attuazione della piena tutela della concorrenza tra le imprese” (art. 3, secondo comma) e prevedeva la soppressione delle disposizioni normative statali incompatibili con quanto disposto al primo comma, con la corrispondente adozione di regolamenti di delegificazione entro il termine ivi fissato (art. 3, terzo comma).

La Corte, chiamata a giudicare la legittimità costituzionale di tale disciplina, osserva che l’articolo 3, primo comma, non rivela elementi di incoerenza con il quadro costituzionale, in quanto “ il principio della

liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale”,

richiamando così la precedente giurisprudenza134.

L’intervento censurato veniva così inquadrato nel campo delle competenze statali di portata trasversale relative alla tutela della concorrenza, con l’argomento che “la liberalizzazione, intesa come

razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di ‘ri-regolazione tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze”.

La Corte ha inoltre aggiunto che il legislatore statale non ha dettato una propria compiuta e dettagliata disciplina delle attività economiche, ma solo disposizioni di principio, le quali, per ottenere piena applicazione, necessitano di ulteriori interventi normativi sia dal legislatore statale, che dal legislatore regionale, ciascuno nel proprio ambito di competenza.

Venivano invece accolte le questioni aventi ad oggetto l’art. 3, comma 3. Per la Corte tale norma, nel prevedere una “soppressione

134 Sentenze Corte Costituzionale, n. 247, n. 152 del 2010, n. 167 del 2009 e n. 388

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generalizzata delle normative statali con esso incompatibili appare indeterminata e potenzialmente invasiva delle competenze legislative regionali”, potendo “riguardare un novero imprecisato di atti normativi statali, con possibili ricadute sul legislatore regionale, nel caso che tali atti riguardino ambiti di competenza concorrente o trasversali, naturalmente correlati a competenze regionali”.

In questo modo i commi 1 e 2, pur non dichiarati formalmente incostituzionali, venivano resi privi di ogni effetto sulla legislazione vigente.

Ciò è sufficiente a mostrare il carattere anomalo del principio enunciato dal comma 1, che, oltre a pretendere di riformulare inammissibilmente l’art. 41 con una disposizione di legge ordinaria, aveva appunto bisogno, come un principio di rango costituzionale, di una serie di attuazioni legislative anche statali per poter dispiegare efficacia (peraltro col rischio che un indiscriminato processo di delegificazione concernesse materie coperte da riserva di legge)135.

L’origine di tale pretesa muoveva dal fallimento ricordato tentativo di riscrittura dell’articolo 41 Cost. e dal conseguente intento di introdurlo nell’ordinamento anche a costo di aggirare la Costituzione.

I giudici costituzionali avrebbero potuto di certo ignorare il carattere anomalo di questa disposizione, ma non che il principio era stato introdotto nell’ambito di una integrale riscrittura dell’articolo 41, né la contestuale operazione di sovraordinarne la portata a quella della legislazione in vigore.

La Corte si concentra, invece, esclusivamente sul principio, come se fosse destinato ad agire da parametro interposto, confermando, però, così la portata costituzionale delle disposizioni impugnate, dal momento che, seguendo una simile argomentazione, l’eliminazione degli “ostacoli inutili o sproporzionati” sarebbe stata dovuta ad esse e non in virtù dell’articolo 41 Cost.

Si finiva, così, con l’accettare il postulato dell’insufficienza del disposto costituzionale ai fini della rimozione di ostacoli “inutili o sproporzionati” e della visione “dinamica” e “promozionale” della concorrenza, come se fossero frutto di una normativa costituzionale deficitaria, in quanto priva della formula magica “è permesso ciò che non è vietato”, anziché di una legislazione e, ancor più, di una prassi amministrativa degenerata, da eliminare o da correggere settore per

135 C. Pinelli, La tutela della concorrenza come principio e come materia. La

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settore e con estrema attenzione alla fase di attuazione delle riforme di semplificazione136.

La Corte, nella successiva sentenza n. 299 del 2012, si richiamerà alle sue enunciazioni di principio sulle liberalizzazioni per rigettare censure regionali avverso una legge statale che prevede un’integrale eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali, affermando che “L’eliminazione dei limiti agli

orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali favorisce, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori e amplia la possibilità di scelta del consumatore”.

Qui, più che il surrettizio passaggio dal favore per una liberalizzazione intesa come “razionalizzazione della regolazione” ad uno per la semplice deregolamentazione, con conseguente abbandono di ogni rispetto per le competenze regionali sul commercio, appare criticabile l’inavvertita estensione alla concorrenza fra operatori commerciali di un indirizzo maturato a proposito di ostacoli amministrativi ingiustificati alla concorrenza.

Più tardi, con la sentenza n. 8 del 2013, vengono respinte le questioni sollevate dalle Regioni avverso un nuovo intervento di liberalizzazione delle attività economiche, che prevedeva misure di delegificazione miranti all’abrogazione di norme che ostacolano l’iniziativa economica o frenano l’ingresso nei mercati di nuovi operatori, salvo quelle giustificate da interessi costituzionali e compatibili con l’ordinamento comunitario, nonché proporzionate alle finalità pubbliche perseguite. La Corte, muovendosi nel solco della pronuncia prima riportata, osserva che “i principi di liberalizzazione” indicati dal legislatore statale “presuppongono che le Regioni seguitino ad esercitare le proprie

competenze in materia di regolazione delle attività economiche”

Quanto agli ostacoli amministrativi alla concorrenza, si può aggiungere che la pronuncia n. 200 del 2012 si era richiamata a giurisprudenza pregressa137 per dire che “una regolazione delle attività economiche

ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale”.

136 Op. Ult. Cit.

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Queste affermazioni, per molti condivisibili, collocano correttamente la “tutela della concorrenza” al livello delle disposizioni di principio e attribuiscono allo Stato il potere-dovere di determinare i contenuti finalistici della tutela, con indicazione vincolante per tutte le pubbliche autorità.

Questa impostazione non e però del tutto coerente con quella espressa dagli altri filoni giurisprudenziali prima commentati (in particolare, quello in materia di contratti pubblici), che tendono a costruire la tutela della concorrenza per blocchi di materie in senso stretto138.

Come già segnalato la liberalizzazione non costituisce un principio assoluto, né tanto meno vieta il permanere di regolazioni amministrative volte a correggere, anche al di fuori della materia dei servizi pubblici, possibili “fallimenti del mercato”.

Il riconoscimento della potestà statale comporta dunque, nella logica della Corte, anche la potestà di disporre regole limitative e derogatorie di quelle generali in tema di liberalizzazione.

I principi di liberalizzazione non sono, quindi, ostacoli al mantenimento di divieti soggettivi o incompatibilità all’esercizio di attività d’impresa o libero professionali da parte dei dipendenti pubblici, anche perché questi divieti rimangono legittimati dal principio di buon andamento dalla pubblica amministrazione ex art. 97 Cost.

In questa prospettiva è stata correttamente riconosciuta la legittimità di norme statali che impongono vincoli in capo a società che svolgono attività di pubblico interesse139. Legittimità sempre condizionata al rispetto del criterio di proporzionalità nei confronti della tutela di altri interessi costituzionalmente rilevanti.

Così pure, i principi di liberalizzazione non sono di ostacolo alla permanenza di una competenza statale per la fissazione di indirizzi fondamentali della regolazione amministrativa di determinati settori economici, in materie di competenza concorrente. Ad esempio in materia di commercio, gli indirizzi di razionalizzazione della rete di impianti di distribuzione di carburanti, cioè di riduzione programmata dei punti-vendita140 o in materia di autorizzazione alla vendita di acque

138 M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione. Una rassegna critica

della giurisprudenza costituzionale italiana dell’ultimo decennio, Mercato Concorrenza Regole, n.3, 2014.

139 Sentenza Corte Costituzionale, n. 94 del 2013. 140 Sentenza Corte Costituzionale, n. 183 del 2012.

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minerali, la prescrizione di determinate misure di controllo ambientale e sanitario alla fonte141.

Questa linea, volta ad affermare la competenza esclusiva statale nella fissazione di principi fondamentali di regolazione amministrativa di determinati mercati, si fonda direttamente sul terzo comma dell’art. 117 Cost., che attribuisce tale potere allo Stato in materie di competenza concorrente, rafforzato, però, dall’assunto che la regolazione amministrativa costituisce modalità di attuazione della tutela della concorrenza.

Ciò ha portato la Corte a dichiarare costituzionalmente illegittime norme regionali meramente riproduttive della disciplina statale, perché comunque invasive della competenza statale e tali da ostacolare l’immediata efficacia di eventuali modifiche delle norme statali stesse142, e, allo stesso tempo, a invalidare norme regionali che prevedevano regole di maggiore liberalizzazione, rispetto a quanto previsto dal legislatore centrale143.

Questa competenza statale si estende fino a individuare le sanzioni amministrative pecuniarie applicabili a una certa materia, e a determinarne la relativa misura. Tuttavia, la Corte ha rilevato che quando queste sanzioni incidono su materie di competenza concorrente, lo Stato non può disporre di incamerare per intero al proprio bilancio l’importo delle sanzioni pagate dai trasgressori144.

L’orientamento giurisprudenziale esaminato ha introdotto un problema di interferenza del principio di tutela della concorrenza, con la disciplina di materie di competenza regionale.

Il problema si pone in termini diversi per le materie di competenza concorrente, in cui lo Stato può dettare, oltre le regole di tutela della concorrenza, anche i principi fondamentali della materia, e le competenze residuali, in cui lo Stato può intervenire solo con norme giustificate dalla competenza finalistica di tutela della concorrenza. In ogni caso l’interferenza tra una competenza statale finalistica e le competenze regionali materiali/oggettive, forniscono terreno ideale per definire non solo un regolamento di confini, ma anche i criteri di

141 Sentenza Corte Costituzionale, n. 244 del 2012.

142 Sentenze Corte Costituzionale, n. 29 del 2006, n. 153 del 2006, n. 271 del 2009,

n. 18 del 2013.

143 Sentenza Corte Costituzionale, n. 98 del 2013. 144 Sentenza Corte Costituzionale, n. 271 del 2012.

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bilanciamento fra tutela della concorrenza e tutela di altri interessi costituzionalmente e giuridicamente rilevanti.

Uno sviluppo coerente della concorrenza come materia trasversale dovrebbe portare le seguenti conseguenze.

Innanzitutto quando l’interferenza si pone fra un “principio”, rispetto a cui la materia definita con criterio finalistico, e una “materia” definita con criterio meramente oggettivo e privo di connotati finalistici (ad esempio commercio o reti di trasporto), le norme statali poste a tutela del principio dovrebbero senz’altro prevalere, così da imporre un risultato di armonizzazione massima della disciplina, a livello nazionale.

Questo criterio, applicato alle norme statali poste a tutela della concorrenza, porterebbe al risultato che le norme regionali dettate nell’esercizio di una qualsiasi competenza, esclusiva o concorrente, dovrebbero cedere di fronte alle norme statali dettate in attuazione del principio.

Quando, invece, l’interferenza si pone tra due competenze che sono poste in funzione dell’attuazione di altrettanti “principi” (ad esempio la tutela della concorrenza e la tutela dell’ambiente),l’eventuale conflitto fra norma statale di tutela della concorrenza e norma regionale di tutela di un altro bene giuridico di rilevanza costituzionale, potrebbe risolversi, quando si verta su di una materia di competenza concorrente,

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