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Applicazioni, parte 2

Nel documento Elettronica Applicata (pagine 23-35)

Tornando a parlare di amplificatori operazionali visti come “blocco ester-no”, “circuitale”, c’è da fare ancora una cosa, al fine di perfezionare il mod-ello già presentato: considerare gli eventuali effetti dell’impedenza di usci-ta. Consideriamo dunque il modello dell’amplificatore operazionale di figura 1.11.

Vogliamo calcolare a questo punto l’impedenza di uscita; per fare ciò, col-leghiamo all’uscita un generatore di tensione di prova, il solito Vx, e dunque consideriamo spenti tutti gli altri generatori indipendenti del circuito (i pi-lotati ovviamente no!). La corrente Ix sarà composta di due contributi: uno che entrerà verso il pilotato e uno che andrà verso R2; la cosa interessante è però il fatto che, di sicuro, I2 ≪ I1: dal momento che ro è una resistenza molto più piccola di R1, R2, e anche del loro parallelo, potremmo dire senza paura che Ix ≃ I1, e quindi che:

Ix≃ I1 = Vx− Advd

ro

Però, sappiamo anche che vd è esprimibile come:

vd= −βVx = − R1

R1+ R2Vx

+ Ix I1 I2 Vx vd Advd R1 R2 rd ro

Figura 1.11: Modello completo dell’amplificatore operazionale.

Ix Vx+ AdβVx ro Da qui: Ix Vx = 1 + βAd ro , βAd= T Quindi: Zo = Vx Ix = ro 1 + T

Supponendo di avere una resistenza (in casi veramente pessimi, dunque molto elevata) pari a 100 Ω; se il guadagno di anello fosse intorno a 1000, ridurremmo di 3 ordini di grandezza la resistenza, che diverrebbe pari a 100 mΩ ! Possiamo dunque supporre, in maniera definitiva, che questo circuito (amplificatore non invertente), da noi sviscerato e considerato in ogni suo aspetto, considerando qualsiasi effetto di non idealità, sia un buon amplifica-tore di tensione: impedenza elevatissima di ingresso, in modo da “far cadere molta tensione” ai propri morsetti di ingresso, e impedenza bassissima di

vi

vu

Figura 1.12: Schema del voltage follower.

uscita, in modo da poter “prelevare direttamente” la tensione dal generatore pilotato con il quale si modellizza l’effetto di amplificazione del dispositivo.

1.3.1 Voltage Follower

Una variante del circuito del quale abbiamo ampiamente parlato, è quella della figura 1.12.

In questa topologia, si ha la massima retroazione possibile: il fatto di avere come retroazione un corto circuito, aumenta il segnale che si dirige verso il “-”; i risultati della cosa saranno da un lato abbassare il guadagno del circuito, ma d’altra parte aumentare moltissimo l’impedenza di ingresso, e ridurre dello stesso fattore quella di uscita; questo circuito assorbirà dunque pochissima corrente, e in uscita sarà sostanzialmente un generatore ideale di tensione (ossia a impedenza pressochè nulla).

1.3.2 Transresistenza

Un’ulteriore topologia circuitale basata sull’amplificatore operazionale è la cosiddetta transresistenza (figura 1.13).

L’ingresso è in corrente, uscita è in tensione; poichè il rapporto tra l’uscita e l’ingresso è dimensionalmente modellizzabile con una resistenza, questa topologia è detta “transresistenza”. Dal momento che la corrente non entra nel morsetto invertente del dispositivo, la corrente va tutta verso R2, quindi si avrà una tensione di uscita pari a:

IR

Vu

R2

Figura 1.13: Modello completo dell’amplificatore operazionale.

In sostanza, questa topologia circuitale “trasforma” la corrente in ten-sione, fornendo un’uscita per l’appunto in tenten-sione, proporzionale della re-sistenza R2 (come si può immaginare dalla legge di Ohm: a parità di correnti su di una resistenza, vi sarà una caduta di tensione maggiore con resistenze maggiori!).

1.3.3 Amplificatore invertente

La transresistenza è stata presentata sostanzialmente come preludio a questa topologia, rappresentante, assieme all’amplificatore non invertente, una delle massime applicazioni per quanto riguarda l’utilizzo lineare dell’amplificatore operazionale. Nella fattispecie, come vedremo tra breve, questa topologia sarà alla base di molti altri circuiti lineari basati sul dispositivo attivo.

Una piccola nota, riguarda questo termine, “lineare”, utilizzato per quan-to riguarda la modalità di utilizzo dell’amplificaquan-tore operazionale. Cosa sig-nifica “lineare” ? Per come stiamo utilizzando l’amplificatore operazionale, esso fornisce, ad una variazione lineare dell’ingresso (su punti di tensione eq-uispaziati, equidistanti), una variazione lineare dell’uscita: a variazioni del-l’ingresso vi sono variazioni proporzionali, seguendo dunque una legge lineare (una retta) dell’uscita. Come vedremo in seguito nella trattazione, esistono applicazioni dell’amplificatore operazionale che non prevedono un uso lineare, bensì logaritmico, o di altro genere.

Dopo questo cappello introduttivo, vogliamo presentare qualcosa di nuo-vo, a partire dalla precedente topologia: proviamo a sostituire il generatore di corrente con un generatore di tensione, seguito da una resistenza in serie come in figura 1.14.

R1

R2

vu

vi

Figura 1.14: Schema dell’amplificatore invertente.

Prima di esporre il (breve) calcolo del guadagno di questo circuito, pre-sentiamone subito il punto debole: la resistenza di ingresso, Ri, è pari a R1, ossia alla resistenza in serie al generatore di tensione di ingresso. Infatti, dal momento che R1 è collegata tra un generatore di tensione e uno “0 V vir-tuale”, ossia un morsetto con una differenza di potenziale nulla rispetto ad un morsetto collegato a 0 V (il morsetto non invertente), si può dire valga l’equazione alla maglia verso lo 0 V passando per il “-”; introducendo un generatore di prova di tensione, Vx, si avrà, su R1, una corrente Ix pari a:

Ix = Vx

R1 −→ Ri = Vx

Ix

= R1

Cosa possiamo dire a questo punto? Beh, sappiamo quanta corrente va in R1, ma sappiamo anche che nell’operazionale non vada corrente (usando il modello ideale, che finora si è verificato piuttosto valido; eventualmente si ridiscuterà la cosa); tutta la corrente (già quantificata come rapporto tra la tensione di ingresso e R1) andrà dunque verso R2, così che si avrà:

Vu = −Vi R1 · R2 Da qui: Vu Vi = −R2 R1

un’espres-sione molto semplice, dipendente esclusivamente dal rapporto delle resisten-ze), ed invertire di fase (ruotare di 180) il segnale di ingresso.

Abbiamo dunque ottenuto un altro tipo di amplificatore, con però un “piccolo” problema: questo non è un vero amplificatore di tensione. Dal mo-mento che la sua impedenza di ingresso, pari a R1, è tutt’altro che elevata, non si avrà la massima caduta di tensione possibile all’interno del dispositi-vo. Si potrebbe dimostrare, con gli stessi conti utilizzati per quanto riguarda l’amplificatore non invertente, che la resistenza di uscita del sistema inver-tente e di quello non inverinver-tente coincidono (la dimostrazione si basa sull’uso dei soliti generatori di test).

Usi secondari della configurazione invertente

La cosa interessante di questa configurazione è il fatto che l’espressione del-la sua transcaratteristica è estremamente semplice: essa consiste sostanzial-mente nel rapporto tra due elementi resistivi. Supponendo di voler estendere questo tipo di topologia, mediante l’uso di elementi con memoria, si otter-rebbe, con due generiche impedenze Z1 e Z2 (al posto dei corrispondenti resistori R1 e R2), qualcosa di molto più generale:

Vu

Vi = −Z2

Z1

Questo significa che, scegliendo Z1e Z2idonee, è possibile sintetizzare con enorme facilità funzioni di trasferimento a nostra scelta, ottenendo risultati anche molto differenti da quello che potrebbe essere un banale amplifica-tore come quelli appena ottenuti. Per questo si suol dire che l’amplificaamplifica-tore invertente sia la “madre” di un po’ tutti i circuiti lineari basati sull’uso del-l’amplificatore operazionale, quali filtri attivi o circuiti di vario tipo. Nella prossima sottosezioni della trattazione inizieremo a presentare un primo es-empio di schema basato sull’amplificatore invertente. Come capiremo presto, il nome operazionale del dispositivo di amplificazione sul quale ci stiamo basando deriva proprio dal fatto che, a partire dal suo uso, è possibile, in maniera molto semplice, ottenere operazioni matematiche di vario tipo sui segnali (derivazione, logaritmo, integrazione, combinazioni lineari).

1.3.4 Integratore

Consideriamo il circuito della figura 1.15.

Si può vedere facilmente che, nel dominio di Laplace, la funzione di trasferimento di questo oggetto sia pari a:

vi

vu

R1

C2

Figura 1.15: Schema circuitale dell’integratore.

Vu

Vi = − 1

sC2R1

Questa topologia è detta integratore; volendo analizzare l’andamento del segnale nel dominio del tempo, applicando l’operatore “antitrasformata di Laplace” alla funzione di trasferimento, vedremmo:

vu(t) = L−1{Vu(s)} = vu(0) − 1

R2C2

Z t

0 vi(t)dt

Questo circuito integra il segnale in ingresso, studiando nel dominio del tempo; da qua il nome integratore. Purtroppo, in linea teorica il circuito fun-ziona bene, ma come vedremo presto esso presenta problemi assolutamente non indifferenti, che andranno risolti mediante uno studio più attento della topologia in questione.

Si noti che, invertendo condensatore e resistore, si ottiene un circuito dal funzionamento del tutto duale: un derivatore!

1.3.5 Sommatore Invertente

Qual è l’operazione più facile da fare, in termini di algebra? Beh, sicuramente, la somma. E circuitalmente, come si può fare la somma? Esiste dunque un mo-do di realizzare, mediante l’amplificatore operazionale, un circuito in gramo-do di sommare due segnali tra di loro?

Un’idea potrebbe essere lo schema 1.16.

Da un lato si collega allo 0 V il morsetto non invertente; al morsetto inver-tente si collegano invece i segnali di tensione, mediante una differente resisten-za. Dal momento che tutti gli elementi del circuito sono in stato lineare, è

v1

v2 vu

R1

R2 R3

Figura 1.16: Schema circuitale del sommatore invertente.

possibile sfruttare la natura lineare del circuito e utilizzare la sovrapposizione degli effetti. v1 vu R1 R2 R3

Figura 1.17: Schema circuitale del sommatore invertente con una tensione su un solo terminale di ingresso.

Consideriamo solo il generatore di segnale V1 acceso, e gli altri spenti (fig. 1.17. Vediamo che da un lato il morsetto non invertente è sempre collegato allo 0 V, ma di conseguenza anche il morsetto non invertente si trova a “0 V virtuale”. Dal momento che solo R1 ha il proprio generatore attivo, si può dire che R3 sia collegata a 0 V su entrambi i terminali, quindi in essa non vi sarà caduta di tensione, e perciò neanche circolazione di corrente per la legge di Ohm. Di fatto R3 nei calcoli potrà non essere considerata. La transcaratteristica parziale del circuito si potrà ricondurre a quella di un normale amplificatore invertente, e dunque si avrà che:

Vu Vi V1 = −R2 R1

Facendo lo stesso ragionamento per V2, collegato alla resistenza R3, si vede che: Vu Vi V2 = −R2 R3

Utilizzando la linearità della rete, e quindi il principio di sovrapposizione degli effetti, si può dire che:

Vu = −R2

R1 RR2

3

La cosa, ovviamente, è estensibile per un numero non determinato di generatori.

1.3.6 Amplificatore differenziale

Abbiamo fatto le somme (invertite) ma.. possiamo anche fare generiche com-binazioni lineari di un certo numero di segnali? Vorremmo, ad esempio, avere un’uscita con la forma:

Vu = K(V1− V2)

Perchè usiamo un K uguale per entrambi? Beh, sarebbe bello poter at-tribuire lo stesso peso ai segnali, in modo da poter semplicemente amplificare una somma o differenza tra due segnali.

Cosa facciamo? Possiamo andare a tentoni; il primo tentativo fattibile potrebbe essere un circuito analogo a quello di fig. 1.18

Considerando un circuito del tutto analogo al precedente, se non nel fatto che sul morsetto non invertente si introduce il segnale che si vuole sommare, si ottengono i seguenti contributi sfruttando la sovrapposizione degli effetti:

Vu|V1 =1 + R2 R1  · V1 Vu|V2 = −R2 R1 · V2 Sovrapponendo gli effetti:

Vu =1 + R2 R1  V1 RR2 1 V2 = K1V1− K2V2

v1 v2

vu

R1

R2

Figura 1.18: Circuito candidato al titolo di amplificatore differenziale. Uhm, ma abbiamo che K1 6= K2; tentativo fallito! Così, si può ottenere una certa combinazione lineare, ma non quella che ci piace!

Il passo di partenza è buono: abbiamo scoperto che i segnali sul “+” ven-gono amplificati e non invertiti (sommati), quelli sul “-” amplificati e invertiti (sottratti), ma non siamo riusciti ad attribuire ai due segnali il medesimo pe-so. Al fine di fare ciò, serve introdurre nel circuito alcuni elementi aggiuntivi, in modo da aumentare i gradi di libertà delle nostre equazioni, e poter meglio regolare il guadagno.

Come possiamo dunque fare per avere K1 = K2 ? Beh, un’idea potrebbe essere quella di ridurre V1, mediante un partitore di tensione sul morsetto sommante (non invertente), con una topologia come in figura 1.19.

Avremo, questa volta, utilizzando all’ormai solito modo la sovrapposizione degli effetti, i seguenti contribuiti:

V+= V1· R4 R3+ R4 Vu = V1· R4 R3+ R4  1 + R2 R1  R2 R1 V2

Per ottenere lo stesso K, è necessario che i due coefficienti di moltipli-cazione per i segnali di ingresso siano uguali, e dunque si abbia che:

R4 R3 + R4  1 + R2 R1  = R2 R1 −→ R4 R3+ R4 = R2 R1 · R1 R1+ R2 = R2 R1+ R2

v1 v2 vu R1 R2 R3 R4

Figura 1.19: Secondo circuito candidato al titolo di amplificatore differenziale. Se l’eguaglianza è verificata, allora lo è anche per i reciproci:

R4+ R3 R4 = R2+ R1 R2 −→ 1 + RR3 4 = 1 + R1 R2 Da qua: R1 R2 = R3 R4

Abbiamo ora trovato la condizione tale per cui un amplificatore è differen-ziale, e cioè è in grado di fare la sottrazione tra due segnali, senza attribuire ad uno dei due segnali un peso, ossia un’amplificazione in ingresso differente. Si sappia che, a causa dei parametri parassiti dell’amplificatore operazionale, la scelta ottimale delle resistenze è:

(

R1 = R3

R2 = R4

A sua volta, l’amplificatore differenziale è la “madre” di un’ampia famiglia di amplificatori: gli amplificatori da strumentazione. Si noti che il problema base dell’amplificatore invertente non è stato ancora risolto: questo amplifica-tore, come si vedrà in seguito, deve subire ancora evoluzioni, al fine di divenire un buon amplificatore di tensione, a causa della propria bassa impedenza di ingresso.

Guadagno di modo comune

Al fine di introdurre una problematica che verrà sviluppata in seguito, vogliamo studiare sotto un altro punto di vista questo circuito: la reiezione del modo comune.

Introducendo un segnale di modo comune nell’amplificatore differenziale, ossia lo stesso segnale su entrambi i morsetti, da un buon amplificatore dif-ferenziale ci aspetteremmo che l’uscita sia nulla: la differenza di un segnale con sè stesso, è uguale a 0, segnale costantemente nullo.

vC R1 R2 R3 R4 vu

Figura 1.20: Schema dell’amplificatore differenziale al quale è applicato il segnale di modo comune.

Consideriamo il circuito di fig. 1.20. Si vede che, a causa del segnale VC

introdotto all’ingresso, si ha una corrente, sul resistore R1, pari a:

I1 = 1 R1  VC R R4 4+ R3VC  = VC R3 R4+ R3 · 1 R1 La tensione di uscita, Vu, sarà:

Vu = R4

R4+ R3VC − I2R2

Dove I2 è la corrente sul resistore R2; dal momento che nell’operazionale non entra corrente (idealmente), e che abbiamo l’espressione operativa di I1, possiamo dire che I2 = I1; quindi, sostituendo:

Vu = R4

R3+ R4VC R2

R1 · R3

= R4 R3+ R4  1 −R2 R1 · R3 R4  VC

Il guadagno di modo comune AC, ossia il guadagno dell’amplificatore rispetto alle componenti di modo comune, ossia alle componenti “uguali” dei due segnali, è: AC = Vu VC = R4 R3+ R4  ·  1 − R2 R1 · RR3 4 

Continuando a rispettare la formula ottimizzata, ossia la condizione R1 =

R3 e R2 = R4, si ridurrà al minimo (tendenzialmente e idealmente, a 0) il guadagno di modo comune.

Nel documento Elettronica Applicata (pagine 23-35)