Possiamo individuare diversi approcci nell’affrontare l’emergenza terrorismo. Innanzitutto, dobbiamo sottolineare come provvedere alle emergenze e prevenire e reprimere il terrorismo siano compiti di ogni Stato, tali esigenze tuttavia non possono mai prevalere sulla tutela della democrazia e dei diritti fondamentali, la vera difficoltà sta nel bilanciare queste due componenti, la sicurezza e la libertà.
29 L. MARINI, Le minacce del terrorismo, la comunità internazionale, le Nazioni Unite in Terrorismo internazionale. Politiche di sicurezza. Diritti fondamentali, p. 231, speciale Questione Giustizia, settembre 2016
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L’art. 4 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 prevede quanto segue:” In caso di pericolo pubblico eccezionale, che
minacci l’esistenza della nazione e venga proclamato con atto ufficiale, gli Stati parti del presente Patto possono prendere misure le quali deroghino agli obblighi imposti dal presente Patto, nei limiti in cui la situazione strettamente lo esiga, e purché tali misure non siano incompatibili con gli altri obblighi imposti agli Stati medesimi dal diritto internazionale e non comportino una discriminazione fondata unicamente sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla religione o sull’origine sociale. La suddetta disposizione non autorizza alcuna deroga agli articoli 6, 7, 8 (par. 1 e 2), 11, 15, 16 e 18. Ogni Stato parte del presente Patto che si avvalga del diritto di deroga deve informare immediatamente, tramite il Segretario generale delle Nazioni Unite, gli altri Stati parti del presente Patto sia delle disposizioni alle quali ha derogato sia dei motivi che hanno provocato la deroga. Una nuova comunicazione deve essere fatta, per lo stesso tramite, alla data in cui la deroga medesima viene fatta cessare.” Quando i principi fondamentali di ogni ordinamento entrano in contatto con le problematiche dell’emergenza, spesso sono posti in una condizione di rischio, perché devono essere applicati a fenomeni che potrebbero porre in pericolo il nucleo duro di tali principi30. Dalla lettura di tale norma
risulta evidente come sia possibile adottare misure emergenziali, ma queste devono essere giustificate ed avere una durata limitata nel tempo, tale che i diritti non ne risultino troppo compressi nella loro fruibilità, permane sempre ed in ogni caso un gruppo di diritti non suscettibili di limitazioni di alcun tipo.
In ogni stato democratico il livello di libertà assicurato ai cittadini sia come singoli sia come gruppo può costituire una fonte di vulnerabilità per lo Stato stesso quando si verifichino fenomeni particolarmente
30 P. BONETTI, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, p. 13, il Mulino
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violenti quali atti terroristici. Il terrorismo, come abbiamo già detto, mira a spaventare gli individui, a minare il loro senso di sicurezza.
Tuttavia, il terrorismo non riguarda più un singolo Stato, ma è diventato un problema globale che coinvolge tutti e che richiede la cooperazione di tutte le entità statali.
Il primo approccio che analizziamo è quello internazionale, maturato in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Come abbiamo accennato i trattati internazionali che si occupano di terrorismo sono sedici. Tutti sono caratterizzati dal medesimo schema che consiste:
- Individuazione e descrizione del comportamento ritenuto ostile; - Richiesta agli Stati d’introdurre pene adeguate e severe per gli
autori dei comportamenti considerati illeciti;
- Richiesta agli Stati di procedere nei confronti degli autori dei comportamenti considerati illeciti o di consentirne l’estradizione verso lo Stato aderente legittimato all’esercizio dell’azione penale;
- Previsione della prevalenza delle norme in materia di lotta al terrorismo rispetto alle norme interne che impediscono la punizione di questi reati per motivi ideologici, filosofici, religiosi, razziali, etc.;
- Richiesta di massima cooperazione fra gli Stati aderenti anche tramite lo scambio di informazioni e di ogni altra forma di assistenza;
- Invito agli Stati aderenti affinché applichino la migliore diligenza per impedire la commissione di atti terroristici31.
L’aspetto più indicativo di tale assetto è il tentativo di rendere condiviso a livello internazionale il tipo di comportamento che si intende perseguire.
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Più in generale la politica adottata dalle Nazioni Uniti per contrastare l’emergenza terroristica è nota come Global Counter Terrorism
Strategy: tale approccio si sviluppa a seguito degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 in contrapposizione alla strategia americana della Global War On Terrorism con cui gli Stati Uniti miravano a conquistare maggior potere nello scenario internazionale.
La Global Counter Terrorism Strategy si fonda sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza 1373 del 2001 e 1624 del 2005 sulla base delle quali è stato istituito il Security Council Counter- Terrorism Committee (CTC) con il compito di assistere gli Stati membri nella lotta al terrorismo, altra risoluzione che svolge un ruolo chiave è la numero 60/288 del 2006 adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La prima delle due risoluzioni interviene a contrastare e punire le forme di finanziamento del terrorismo, sequestrare i beni delle persone che sono coinvolte in atti di terrorismo, non fornire alcuna assistenza a gruppi terroristici e condividere ogni informazione ritenuta utile. La seconda riguarda la propaganda a favore del terrorismo, il CTC assiste gli Stati e deve individuare le best practices in materia tenendo un elenco aggiornato32; tali strumenti non sono considerati vincolanti, i vincoli
riguardano l’attuazione delle due risoluzioni.
Con queste due risoluzioni si compie un passo avanti rispetto al sistema delineato dai trattati, questo ha avuto il merito di tipizzare il terrorismo all’interno degli strumenti classici di diritto internazionale. Nel sistema diretto dal CTC le convenzioni cedono il passo alle best practices che, pur non essendo vincolanti, sono considerate politicamente persuasive, in quanto consentono di giudicare il grado di partecipazione di uno Stato alla lotta contro il terrorismo globale.
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Le best practices hanno un duplice valore: da un lato sono metro di giudizio per la collaborazione internazionale, tale metro è diretto ad allineare le legislazioni di ogni Stato intorno a modelli considerati validi in quanto approvati da organismi internazionali e dall’altro sono criteri oggettivi per valutare la legalità di un modello di azione contro il terrorismo, se un modello di uno Stato è considerato valido può essere considerato condivisibile sul piano internazionale.
È evidente che in tale sistema non possono trovare spazio tutte quelle pratiche considerate poco trasparenti finanche illegali che non possono essere oggetto di pubblicità quale il meccanismo portato avanti con le
extraordinary renditions: tali pratiche consistono nel rapimento con detenzione illegale compiuto da un Paese sul territorio di un altro con la collaborazione di tale Stato al fine di interrogare il soggetto rapito. La terza risoluzione che dobbiamo analizzare è la 60/288 del 2006 adottata dall’Assemblea Generale e che formalizza la Global Counter
Terrorism Strategy questa è accompagnata da un Piano di Azione. La strategia globale è soggetta a revisione biennale per far sì che rimanga sempre aggiornata con le esigenze attuali di lotta al terrorismo, l’ultima revisione è del 1° luglio 2016 anno in cui si celebrava il primo decennale della strategia stessa.
In generale la strategia si basa su quattro pilastri: esaminare le condizioni che favoriscono la diffusione del terrorismo, individuare misure idonee a prevenire e combattere il terrorismo, individuare misure mirate per rendere gli Stati capaci di prevenire e combattere il terrorismo e per rafforzare il ruolo delle Nazioni Unite in materia ed infine individuare misure volte a garantire il rispetto dei diritti umani e lo stato di diritto come base fondamentale della lotta al terrorismo.
Il 15 gennaio 2016 viene presentato il nuovo piano d’azione, il Segretario Generale Ban Ki- moon nel presentarlo sottolinea come in precedenza si sia investito molto sul secondo pilastro (prevenzione e
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contrasto) e come tale approccio si sia dimostrato insufficiente e talvolta anche inadeguato, perciò è necessario investire sul primo ed il quarto pilastro: le condizioni che favoriscono il terrorismo e il rispetto dei diritti umani e della Rule of Law nell’azione di contrasto al terrorismo. Il “nuovo” piano d’azione si articola in tre parti.
Nella prima si parla dei danni provocati dall’estremismo violento alla pace e sicurezza (e qui non manca di richiamare l’esistenza di legami fra terrorismo e crimine organizzato); allo sviluppo sostenibile; ai diritti umani e alla Rule of Law; alle comunità.
Nella seconda si parla del contesto e dei fattori che favoriscono l’estremismo violento: a) la carenza di opportunità sociali, marginalizzazione, cattivo governo e violazione dei diritti umani, esistenza di conflitti non risolti, radicalizzazione nelle carceri; b) i processi di radicalizzazione.
Nella terza si analizzano sette diversi profili di azione che possiamo ricondurre a tre categorie principali: a) le raccomandazioni per prevenire l’estremismo violento, in particolare l’esistenza di una disciplina “globale” che deriva dai provvedimenti della Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza, nonché la necessità di dare vita a i piani d’azione nazionali e regionali e di ri-direzionare l’impiego dei fondi; b) specifiche linee di azione (favorire i percorsi di dialogo; migliorare le
governance, la tutela dei diritti umani e la Rule of Law; coinvolgere le comunità locali e le famiglie; rafforzare le opportunità delle generazioni giovani; coinvolgere e rafforzare il ruolo delle donne; investire in educazione, training e lavoro; operare in modo strategico nel settore della comunicazione e dei social media); c) il rafforzamento del ruolo di supporto che le Nazioni Unite e le loro diverse Agenzie ed entità
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possono svolgere in favore degli Stati, degli organismi regionali e delle comunità33.
Da una prima lettura risulta evidente l’accento posto sull’importanza della prevenzione ciò si ricollega ai cosiddetti foreign fighters che, come abbiamo visto, rappresentano uno dei tratti distintivi dell’IS.
La figura giuridica Ftf è stata “creata” dal Consiglio di Sicurezza basandosi sull’esperienza piuttosto che su una sistemazione giuridica. Facciamo un passo indietro, nel diritto internazionale si riconoscono due figure di combattenti. La prima è quella dei mercenari che si individuano sulla base di alcuni elementi codificati, tali soggetti non appartengono alle forze armate coinvolte nel conflitto e di conseguenza nemmeno alle parti coinvolte, manca un incarico specifico da parte di Stati terzi, la scelta di partecipare al conflitto è dovuta a ragioni di guadagno34. La
seconda figura è quella dei combattenti stranieri, o foreign fighters, questa risulta priva di una precisa base normativa, secondo la dottrina sono tali coloro che non sono cittadini degli Stati in conflitto né appartengono alle parti coinvolte nel conflitto, tuttavia partecipano al conflitto stesso, ma a differenza dei mercenari non sono spinti da ragioni di guadagno. Le motivazioni che li spingono possono essere le più varie dalla identificazione religiosa a quella ideologica o etnica di una parte del conflitto.
Risulta evidente che le due figure hanno in comune diversi tratti, soprattutto se si considera la partecipazione a conflitti in cui una delle due parti non è un attore statuale35.
33 L. MARINI, Le minacce del terrorismo, la comunità internazionale, le Nazioni Unite in Terrorismo internazionale. Politiche di sicurezza. Diritti fondamentali, p. 241, speciale Questione Giustizia, settembre 2016
34 Convenzione Onu sui mercenari del 1989 e art.47 del primo protocollo Addizionale
alla Convenzione di Ginevra.
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Nel settembre 2014 il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione n. 2178 nella quale si affronta in modo esplicito la figura del Ftf definito come colui che «si reca in uno Stato diverso da quello di residenza o
nazionalità al fine di commettere, pianificare o preparare azioni terroristiche o di prendervi parte o al fine di fornire o ricevere addestramento ad azioni terroristiche, compresi in casi in cui questo si colleghi a conflitti armati». La risoluzione fa discendere la qualifica di combattente dalla natura terroristica delle attività poste in essere dal soggetto stesso, pare evidente il riferimento a coloro che si trasferiscono verso un’area di conflitto specifica e si uniscono a gruppi terroristici; ciò si evince dal fatto che le analisi successive alla risoluzione in esame hanno avuto ad oggetto i Ftf che hanno come area di riferimento la Siria e l’Iraq interessati dall’azione dell’IS e dai gruppi collegati.
Proprio la Siria ci fa capire come la definizione di Ftf sia incerta e passibile di diverse letture, se non c’è alcun dubbio sulla connotazione terroristica dell’IS e dei foreign figthers che la supportano lo stesso non può dirsi degli altri gruppi che combattono il regime siriano: per Damasco e Mosca si tratta di terroristi, per le altre forze occidentali di ribelli.
Il rischio di una errata qualificazione di determinati gruppi può portare a condurre attacchi armati ingiustificati e non privi di rischi per la popolazione che resta la principale vittima del terrorismo, difatti, secondo i dati diffusi dal Global Terrorism Index, fino al 2015 il Paese più colpito dagli atti terroristici dell’IS è stato l’Iraq seguito dall’Afghanistan.