CAPITOLO 3: I LIMITI ALLA LIBERTÀ RELIGIOSA ALLA
4. La libertà religiosa in Italia, le leggi “anti moschee” e i simbol
Il crescente fenomeno migratorio ha posto problemi di grande impatto sul piano dei comportamenti sociali, della reazione giuridica, dei costumi. Tali rilevanti flussi migratori hanno reso l’Italia un paese multiculturale, multietnico e multi religioso. I fedeli che non appartengono al ceppo giudaico- cristiano sono portatori di tradizioni e culture diverse dalle nostre e talvolta ciò può comportare contrasti con i principi dell’ordinamento italiano. Gli immigrati guardati con più timore sono senza dubbio quelli di fede musulmana, associati sempre più spesso ai membri dell’IS e al terrorismo.
Come abbiamo sottolineato in precedenza è riduttivo parlare di terrorismo islamista o jihadista, sarebbe più appropriato parlare di “terrorismo cosiddetto islamico”. Dal punto di vista letterale jihad significa lotta, per la maggioranza dei musulmani il jihad è lo sforzo dell’individuo per aiutare sé stesso e gli altri a conoscersi e a superare gli ostacoli, la parola jihad perciò è priva di qualsiasi legame con il fanatismo religioso di tipo militante. I militanti delle organizzazioni terroristiche sono spinti da un senso di rivalsa nei confronti della civiltà occidentale odierna, in tutti i suoi aspetti, a questo si accompagna la religione, che viene utilizzata come motivazione principale quando in realtà non è la forza motrice primaria che spinge questi soggetti.
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Tutte queste condizioni generano paura e timore e spingendo la popolazione a chiedere maggior sicurezza, tuttavia, il diffuso bisogno di sicurezza non integra il contenuto di un vero e proprio diritto; la sicurezza rappresenta la condizione necessaria all’esercizio dei diritti nello Stato democratico consistendo nella protezione dei principi sanciti dalla Costituzione. Il rischio è che la libertà religiosa venga guardata con occhio diverso, attento più all’esigenza di sicurezza e tutela identitaria degli Stati che alla tutela delle coscienze religiose85.
È riemersa, in un certo qual modo, la tendenza di epoca prerepubblicana a ragionare di libertà religiosa in chiave di polizia ecclesiastica, a collegare i temi della sicurezza all’esercizio pubblico del culto ed alle modalità organizzative delle comunità islamiche, in particolar modo, e spesso abusando del paradigma dell’ordine pubblico a discapito delle minoranze confessionali. Giova ricordare che tali minoranze non sono destinatarie di un regime giuridico di semplice “non discriminazione”, esse dovrebbero godere di una speciale protezione che esige dai poteri dello Stato il compimento di azioni positive di garanzia delle minoranze e dei loro fedeli, tese alla rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo dell’individuo, sviluppo che spesso passa dal ricercare la propria strada anche attraverso la religione. Questa convinzione può riscontrarsi nella lettura del principio di laicità che nella “versione italiana” consiste in una laicità “positiva” che legittima interventi legislativi a protezione della libertà religiosa86.
I pregiudizi che colpiscono le minoranze, quella islamica in particolare, sono molteplici, diffusi e ripetuti con costanza e determinazione. Le regole dell’Islam talvolta possono essere in contrasto con la disciplina
85 V. VALENTE, Misure di prevenzione e de-radicalizzazione religiosa alla prova della laicità (a margine di taluni provvedimenti del Tribunale di Bari), p.3, in Stato,
Chiese e pluralismo confessionale, n.37 del 2017, in www.statoechiese.it
86 G. CASUSCELLI, La libertà religiosa alla prova dell’Islam: la peste dell’intolleranza, p. 10, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, luglio 2008, in www.statoechiese.it
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stessa della libertà religiosa e con gli inderogabili principi di ordine pubblico che connotano il nostro ordinamento democratico. Finisce sul banco degli imputati il rapporto di soggezione totale dei singoli alla confessione, o al gruppo di appartenenza, mediante il quale si arriva ad esigere dagli aderenti gesti e comportamenti che violino norme etiche e contravvenire le norme penali. Non si vuole negare che episodi di questo genere vi siano, ma questi non sono tali da assumere carattere di sistematicità ed un’ampiezza che giustifichino reazioni sociali che vorrebbero porre l’Islam su un gradino inferiori rispetto alle altre religioni e privare i suoi fedeli dalla fruizione della libertà religiosa andando a ledere, di fatto, anche il principio di uguaglianza.
Passiamo ad analizzare i limiti ai quali è sottoposta la libertà religiosa; l’art. 19 Cost. afferma che: “Tutti hanno diritto di professare
liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.” l’unico limite espressamente richiamato è il buon costume, resta da vedere come viene declinato tale concetto dalla giurisprudenza italiana.
Giova qui ricordare alcune pronunce della Corte Costituzionale; la decisione più risalente nel tempo per quanto riguarda i limiti al bilanciamento della libertà religiosa è la sentenza n. 309/2003. La questione riguarda la richiesta di un soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza, questi chiede al tribunale l’autorizzazione ad allontanarsi “periodicamente e continuativamente” dal comune nel quale ha l’obbligo di soggiorno per potersi recare in un altro comune dove può partecipare alle funzioni della Chiesa Evangelica. Una volta verificato che nel comune di residenza del sorvegliato non esistono comunità di fedeli, né luoghi di culto della Chiesa Evangelica e preso atto che il richiedente aderisce da diverso tempo alla Chiesa stessa il tribunale non ha potuto concedere l’autorizzazione in quanto l’art. 7- bis
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della legge n. 1423/1956 permette l’allontanamento solo per “gravi e
comprovati motivi di salute”. La mancanza di una previsione che autorizzi l’allontanamento dal comune di soggiorno per esercitare il culto in forma associata secondo il giudice a quo porrebbe l’art. 7- bis in contrasto con l’art. 19 Cost. che riconosce il diritto di ognuno a professare liberamente il proprio culto in forma individuale o associata. L’Avvocatura dello Stato interviene in difesa della costituzionalità dell’art. 7- bis affermando che la libertà religiosa garantita dalla carta costituzionale “incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista
della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell’ordine pubblico”87.
La formula della sicurezza pubblica esprime una “situazione nella
quale sia assicurato ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio di quei diritti di libertà che la Costituzione garantisce con tanta forza”88. Così considerata la sicurezza pubblica costituisce una
limitazione implicita ai diritti di libertà garantiti dalla Costituzione e tra essi rientra anche la libertà religiosa individuale. La posizione dell’Avvocatura dello Stato si pone nel solco di quella assunta dalla giurisprudenza costituzionale in materia, tuttavia dobbiamo ricordare che l’art. 19 Cost nel suo dettato esclude il riferimento all’ordine pubblico, così come voluto dal legislatore costituente al fine di impedire che questo potesse essere invocato come limite all’esercizio dei riti religiosi, la norma richiama “solo” il limite del buon costume. Il limite della sicurezza e dell’ordine pubblico non può operare in ogni circostanza, in virtù del criterio delle “limitazioni implicite”; l’interprete deve, di volta in volta, stabilire se nel conflitto tra interesse al mantenimento dell’ordine pubblico e interesse individuale all’esercizio
87 Corte Costituzionale, 1° ottobre 2003, n. 309, in www.giurcost.org 88 Corte Costituzionale, 23 giugno 1956, n.2, in www.giurcost.org
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del culto debba darsi rilevanza all’uno o all’altro89. La Corte ha ritenuto
la questione non fondata, il tribunale avrebbe dovuto sollevare una questione di irrazionalità per omissione, facendo leva sull’omogeneità del diritto alla salute con il diritto al culto, essendo considerati entrambi diritti inviolabili e fondamentali si sarebbe potuta far valere l’irrazionalità di una formulazione che non prevede la stessa disciplina per situazioni analoghe. Il giudice rimettente ha fatto invece valere la violazione diretta dell’art. 19 ritenendo che la discrezionalità del legislatore nel prevedere casi eccezionali si sarebbe dovuta arrestare di fronte al diritto di libertà religiosa del soggetto. Quindi il giudizio della Corte si è spostato sull’esercizio della discrezionalità legislativa. La Corte ha ritenuto che la misura del soggiorno obbligato non incide direttamente sul diritto del soggetto di professare la propria fede religiosa, ma solo indirettamente in conseguenza della limitata diffusione della confessione di appartenenza sul territorio. La limitazione dell’esercizio del culto in forma associata sarebbe una conseguenza che discende dalla limitazione della libertà personale e di circolazione. Tuttavia, la Corte non manca di sottolineare che le misure limitative della libertà personale, comprese le misure di prevenzione non devono sacrificare l‘esercizio dei diritti costituzionali “oltre la soglia
minima resa necessaria dalle misure medesime, cioè dalle esigenze in vista delle quali essa sia legittimamente prevista e disposta”90. Il
discorso cambia se ci riferiamo all’esercizio del culto in forma associata, per il quale la Corte sostiene l’impossibilità di estendere il bilanciamento in quanto questo non sarebbe idoneo perché colliderebbe con le esigenze della misura di sicurezza adottata, l’autorizzazione infatti dovrebbe avere validità per tutta la durata della misura e sarebbe impossibile garantire idonee misure di sicurezza nei luoghi di culto e
89 S. ANGELETTI, Il diritto individuale all’esercizio del culto di fronte alle misure di prevenzione: un difficile bilanciamento tra valori costituzionali, p. 3, in Il Diritto
Ecclesiastico, n.1 del 2005, su www.olir.it
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durante la celebrazione delle cerimonie religiose. La Corte conclude ipotizzando, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, che l’obbligo di soggiorno possa essere fissato in un comune dove abbia sede la confessione cui appartiene il soggetto sottoposto alla misura; la Corte si mostra sensibile al valore dell’esercizio del culto in forma associata considerato da sempre sostegno spirituale e fattore di promozione per il ravvedimento del soggetto pericoloso.
Altre importanti pronunce in tema di libertà religiosa riguardano il diritto ad un edificio di culto e i simboli religiosi nei luoghi pubblici. Partiamo dal diritto ad un edificio di culto: questo non è espressamente previsto in Costituzione, ma può essere desunto dall’art. 19 in quanto avere un luogo in cui esercitare il proprio culto costituisce un presupposto fondamentale per rendere effettiva la pratica della libertà religiosa. Il luogo fisico costituisce un ponte tra la dimensione individuale e collettiva di una comunità che necessita di un bene immobile in cui ritrovarsi ed esercitare la dimensione collettiva del culto. Possiamo quindi affermare che il diritto costituzionale alla disponibilità di un edificio di culto possa essere qualificato come la dimensione fisica della libertà religiosa91. Il luogo di culto non soddisfa
solo un bisogno religioso, ma costituisce un posto in cui soddisfare il bisogno di aggregazione, inclusione sociale, dove poter sviluppare la propria personalità e sentirsi parte di una comunità. Dal punto di vista della consistenza il diritto ad un edificio di culto costituisce un interesse legittimo in quanto richiede l’esercizio di un pubblico potere attribuito dal legislatore ad un’amministrazione, la disciplina rientra tra quelle di competenza concorrente del “governo del territorio” ex art. 117, comma 3, Cost.; il primo contatto tra il diritto, nella sua veste di interesse legittimo, e l’esercizio dei pubblici poteri avviene in un momento anteriore a quello della pianificazione tale momento acquista rilevanza
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e con esso acquista rilevanza l’obbligo per il legislatore di prevedere procedimenti adeguati per tale bisogno materiale. La regolamentazione del momento pre- pianificatorio, espressione di un potere fortemente discrezionale a connotazione politica, può operare come freno al potere, a garanzia della trasparenza e del contenimento dell’arbitrio potenzialmente discriminatorio92. Il legislatore regionale è gravato
dall’obbligo costituzionale di attuare il diritto in esame, deve disciplinare in dettaglio il “governo del territorio” e con esso gli istituti partecipativi strumentali all’effettività della gestione dello spazio urbano ed extra- urbano. La regolamentazione del momento pre- pianificatorio funzionale alla stipulazione di un accordo costituisce la garanzia effettiva della par condicio dei soggetti istanti.
La costruzione di edifici di culto rientra, ai sensi dell’art. 16, comma 8 del Testo Unico in materia edilizia, tra le opere di urbanizzazione secondaria, cioè quelle opere necessarie a garantire l’inserimento degli edifici nel tessuto sociale e quindi nella vita di relazione. Per la realizzazione dell’opera è necessario il rilascio della concessione edilizia nel rispetto del piano urbanistico.
La questione dell’edilizia di culto riguarda in particolare le comunità religiose che si sono insediate nel nostro Paese in seguito a consistenti flussi migratori. Il problema si pone in particolare, per confessioni religiose prive di intesa quali i musulmani, gli ortodossi ucraini e rumeni e i sikh. Il rilascio della concessione di cui sopra non può ledere il diritto di culto e il principio di uguale libertà delle confessioni religiose. Per quanto il governo del territorio sia di competenza regionale, sarebbe necessaria una legge “cornice” che prescriva le modalità di realizzazione e imponga limiti e principi rilevanti in modo che poi le Regioni sviluppino tali aspetti in un secondo momento. I legislatori regionali e le amministrazioni locali hanno nel corso degli anni disciplinato in
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maniera più o meno diretta la materia degli “edifici di culto”, ma il risultato sarebbe stato ben diverso se questo fosse avvenuto a seguito dell’emanazione di una legge generale sulla libertà religiosa dello Stato. Si è assistito nel corso degli anni a un crescendo di tensioni sul punto con le Regioni che da un lato cercano di sempre più di limitare di fatto il diritto a un luogo di culto, e il Governo che dall'altro si attiva sempre più velocemente per ricorrere alla Corte Costituzionale ritenendo illegittime tali statuizioni.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 195 del 1993 dichiara illegittima una norma di una legge della regione Abruzzo che riconosceva il diritto all’attribuzione di contributi pubblici per la costruzione di luoghi di culto solo alla Chiesa Cattolica e alle confessioni con intesa. L’esclusione da tali benefici, secondo la Corte, in base allo status di una confessione religiosa viola il principio di uguale libertà delle confessioni religiose riconosciuto dal primo comma dell’art. 8 della Costituzione. L’attribuzione dei contributi previsti dalla legge per gli edifici di culto è subordinata solo alla consistenza ed incidenza sociale della confessione richiedente e all’accettazione da parte di questa delle condizioni e ai vincoli di destinazione93.
Più recentemente la Corte Costituzionale interviene con riferimento alla legge regionale della Lombardia n. 12/ 2005 “Legge sul governo del territorio” modificata mediante la legge regionale 2/2015, c.d. legge “anti-moschee”, che modifica l’art. 70 con nuovi commi e sostituisce integralmente l’art. 72 rivedendo l’equilibrio tra tre diversi interessi, libertà di culto, esigenze urbanistiche e sicurezza pubblica, favorendo questi ultimi due aspetti. La legge in esame richiede, per la realizzazione dei luoghi di culto non cattolici, che la confessione abbia una “presenza diffusa, organizzata e stabile sul territorio” imponendo la previa
93 F. RICCIARDI CELSI, Pluralismo religioso, multiculturalismo e resilienza urbana: profili di diritto ecclesiastico, pp. 13- 14, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 12/2017, su www.statoechiese.it
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stipulazione di un’apposita convenzione con il Comune interessato. L’elemento quantitativo è stato da tempo abbandonato dalla Corte come criterio in quanto discriminatorio. Le comunità che non riescono ad accedere agli spazi destinati dai Comuni alla realizzazione di edifici di culto non sono nemmeno in grado di esercitare il loro culto in altri luoghi, poiché la legge vieta la conversione a uso di culto di locali costruiti con altre finalità. La legge in esame, quindi, attua una discriminazione tra le confessioni religiose violando l’art. 3 Cost. e gli artt. 8, 20 Cost. ed inoltre pregiudica la possibilità di professare liberamente il proprio culto in forma individuale e collettiva rendendo difficoltosa la realizzazione di un luogo di culto, quindi viola anche l’art. 19 Cost. perciò la legge “anti-moschee” ostacola la libertà di culto. La Corte, con la sentenza n. 63/2016, boccia quindi il provvedimento, tra le motivazioni si legge che “Non è, invece, consentito al legislatore
regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione, ad esempio prevedendo condizioni differenziate per l’accesso al riparto dei luoghi di culto. Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione essenziale per l’effettivo esercizio della libertà di culto, un tale tipo di intervento normativo eccederebbe dalle competenze regionali, perché finirebbe per interferire con l’attuazione della libertà di religione, garantita agli artt. 8, primo comma, e 19 Cost., condizionandone l’effettivo esercizio”94. La norma viene dichiarata incostituzionale per
violazione del principio di uguaglianza nella libertà di religione e di culto in quanto questo non ammette restrizioni solo per le confessioni senza intesa, inoltre è violato il divieto per la legge regionale di entrare nel merito dei rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose. Nella sentenza compare anche un riferimento alla sicurezza in quanto la legge regionale prevedeva diversi richiami alla sicurezza tra cui il
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coinvolgimento delle forze dell’ordine nella pianificazione dei luoghi di culto e l’imposizione che davanti ai luoghi di culto sia collocata una videocamera, a spese dell’ente titolare del luogo di culto, collegata direttamente con le forze di polizia. La Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di tali disposizioni.
Dopo meno di due mesi dalla pubblicazione della sentenza appena esaminata la regione Veneto emana la legge regionale n.12/2016 modificativa della legge regionale n. 11/2004; il contenuto è molto simile a quello censurato poco tempo prima dalla Corte Costituzionale. La legge è stata oggetto di ricorso da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, la Corte Costituzionale si è pronunciata nella sentenza n. 67/2017. La Consulta, dopo aver affermato che “nella giurisprudenza
costituzionale è ormai consolidato il principio per cui la libertà religiosa, di cui quella di culto costituisce un aspetto essenziale, non può essere subordinata alla stipulazione di intese con lo Stato da parte delle confessioni religiose”, afferma tuttavia che tale posizione, ribadita, da ultimo, nelle sentenze n. 52 e n. 63 del 2016, “non esclude la
possibilità che lo Stato regoli bilateralmente, e dunque in modo differenziato, i rapporti con le singole confessioni religiose”95.
Da entrambe le pronunce è possibile dedurre che il problema non è “solo” di indirizzo politico, ma si radica più profondamente nella società, manca nella popolazione la consapevolezza di quanto sia importante la difesa della libertà religiosa che non si ferma alla garanzia di poter professare la propria fede ma va oltre, deve essere garantita la possibilità alle diverse confessioni religiose di ritrovarsi per pregare insieme in un luogo adatto, la dimensione di condivisione, collettiva
95 F. OLIOSI, Libertà di culto, uguaglianza e competenze regionali nuovamente al cospetto della Corte Costituzionale: la sentenza n. 67 del 2017, p. 10, in Stato, Chiese
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della libertà di culto non può mancare, perché parte integrante del culto stesso.
Il momento storico attuale, certamente è fonte di preoccupazioni e tensioni, riconducibili anche alla religione islamica considerata nella sua forma più deleteria ed estremista, ciò non deve però indurci in inganno: non si tratta di educare a tutti i costi, neppure di integrare a tutti i costi, si tratta di fare nostri quei valori di laicità, eguaglianza e libertà religiosa che non devono essere negoziabili in una società democratica96.
Per quanto riguarda la sicurezza è comprensibile che negare un edificio di culto possa spingere le comunità religiose a trovarsi in luoghi non consoni e difficilmente controllabili, ricreando quello che in Francia è stato chiamato l’Islam “delle cantine”. Il rischio di una situazione del genere è quello di una chiusura al dialogo e all’integrazione. Respingere chi è diverso da noi a causa di una religione che ci risulta incomprensibile, e che temiamo, pensando che tutti i musulmani siano terroristi e fondamentalisti, questo rischia di far avvicinare i più deboli e vulnerabili a chi diffonde l’odio nei confronti degli “infedeli” e ha in mano le armi per plagiare soggetti “borderline” alla ricerca della propria identità che si sentono rifiutati dalla comunità in cui vivono. Passiamo ad analizzare un tema altrettanto importante quello dei simboli