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4. I sonetti delle rime morali

5.0. Le rime morali: edizione critica e commento

5.0.1. Apre l’huomo infelice allhor, che nasce

Marino descrive la brevità della vita che non conosce tregua dal dolore: fino al sopraggiungere della morte, l’uomo è in preda ai continui attacchi di Fortuna e Amore, costretto a sopportare a sopportare le fatiche e le morti che caratterizzano la sua breve esistenza. Il primo sonetto della raccolta inaugura così il tema della misera condizione umana che troverà il proprio bilanciamento nell’ultimo sonetto della raccolta, nel moto ascensionale tipico della letteratura morale. Si noti la ri- ma derivativa nasce (v. 1) e rinasce (v. 8). Il sonetto presenta un’architettura clas- sica, il cui schema rimico prevede per le quartine una struttura incrociata (ABBA-

ABBA) e per le terzine ripetuta (CDE-CDE).

v. 3 al pianto; (Mo02 = Mo04 = Mo09) > al pianto, (Mo14) = al pianto, | e nato apena (Mo02) > e nato a pena (Mo04) > e nato à pena (Mo09 = Mo14) = nato à pena • v. 7 più ferma, e più se- rena (Mo02 = Mo04 = Mo09) > più fosca, che serena (Mo14) = più fosca, che serena • v. 8 Fortuna (Mo09) → Fortuna, • v. 9 Quante (Mo02 = Mo04 = Mo09 = Mo14) → Quanto • v. 10 e morti infin (Mo02 = Mo04) > e morti, infin (Mo09) > e morti infin (Mo14) → o morti in-

fin, • v. 12 alfin (Mo02 = Mo04) > al fin (Mo09 = Mo14) = al fin • v. 14 Dala cuna ala tomba

(Mo02 = Mo04) > Da la cuna à la tomba (Mo09 = Mo14) → Dal cuna à la tomba

1 Nel testo definitivo si riporta la versione Quante, conforme alle versioni precedenti l’edizione del 1625

che riporta Quanto: quest’ultima versione, infatti, non concorda con il sostantivo fatiche.

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A testo si riporta la versione Da la, nonostante l’edizione del 1625 riporti Da l. Quest’ultimo può essere considerato un errore tipografico, visto il genere femminile del termine cuna. La variante riportata a testo rispecchia inoltre la predilezione nutrita da Marino per le preposizioni articolate scisse nella stampa finale.

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APRE l’huomo infelice allhor, che nasce In questa vita di miserie piena

Pria ch’al Sol, gli occhi al pianto, e nato a pena Va prigionier fra le tenaci fasce.

Fanciullo poi, che non più latte il pasce, Sotto rigida sferza i giorni mena: Indi in età più fosca, che serena Tra Fortuna, & Amor more, e rinasce. Quante1 poscia sostien tristo, e mendico

Fatiche, o morti infin, che curvo, e lasso Appoggia a debil legno il fianco antico? Chiude al fin le sue spoglie angusto sasso

Ratto così, che sospirando io dico, Da la2 cuna a la tomba è un breve passo.

Commento

La posizione iniziale riveste sempre un ruolo fondamentale: è il momento della pre- sentazione dell’argomento, della situazione di partenza dalla quale si intende sviluppare, far crescere e fiorire l’opera - o, in questo caso, la sezione poetica -, per arrivare ad una conclusione finale. Come si è già indicato nell’introduzione, le Rime Morali si preoccu- pano di presentare al lettore una poetica didattica da interiorizzare, il cui fine è favorire la diffusione di un insegnamento universale e indurre una reazione a livello morale.

Viste le basi di questo lirismo umanamente edificante, è chiaro che la trattazione dell’argomento debba partire dall’uomo: il primo sonetto della raccolta non si limita a parlare dell’essere umano, ma ne riflette il carattere materiale, mortalmente concreto. Quella che l’autore decide di presentare è la sconfitta del protagonismo umano: il dolo- re, che sorge con la nascita e termina solo con la morte, diventa a tutti gli effetti un in- separabile compagno di viaggio. Il realismo emerge con forza: dalla nascita vissuta fra

tenaci fasce alla vecchiaia, la vita umana non conosce tregua. La concretezza del lessi-

co, che non disdegna di abbassarsi comprendendo anche toni rudi e bruschi (angusto

sasso, tomba), si staglia con una solidità vigorosa e diretta la quale, senza mezzi termi-

ni, investe il lettore di una carica tanto negativa quanto reale (e realista). Al canonico approccio sull’elogio delle virtù1 con cui le sillogi morali erano solite iniziare, Marino - spirito pragmatico - predilige un attacco diretto, che non si perda in disquisizioni astrat- te, ma che metta in evidenza l’effettivo stato di cose: indugiare sulla descrizione delle virtù, il più delle volte dedicando il componimento ad un solo personaggio, ha come u- nico risultato non solo quello di perdere di vista il quadro generale ma anche quello di travisare, di conseguenza, il messaggio principe di questa letteratura. La tendenza uni- versalistica si troverebbe, peraltro, a cozzare contro l’esclusivismo della dedica. Per questo motivo, per facilitare la penetrazione dell’assunto contenuto nella lirica, Marino non rifiuta l’uso di un linguaggio crudo, che non lesina sui particolari, anche più penosi, della vita dell’uomo, definito infelice fin dalla nascita. È chiaro l’intento dell’autore: abolire la speranza è il modo più diretto per dimostrare la negatività della posizione u- mana sulla terra; si prendono le distanze dalla credenza secondo la quale ad una partico- lare età dell’uomo sia attribuito un grado, per quanto effimero, di felicità. Non esiste fe- licità possibile durante la permanenza sulla terra e ogni stanza ha il preciso compito di rintracciare gli elementi negativi di ogni fase della crescita: la nascita è infelice perché

1 Per istituire un termine di paragone, di seguito si riportano alcuni componimenti iniziali di raccolte di

rime morali - nessuno dei quali prende in considerazione la condizione umana come punto di partenza: Cinto il sacrato crin di verde lauro di Pietro Massolo; Quando spinge ver noi l’aspro Boote di Gabriello Chiabrera; Verace fama, e vere lodi accolsi di Angelo Grillo; Amor col raggio di beltà s’accende della raccolta di Tasso curata da Carlo Fiamma.

sancisce l’entrata in un mondo di miserie pieno (prima quartina) e perché condanna ad una vita di schiavitù e di servilismo (va prigionier); la fanciullezza viene scandita dai colpi della rigida sferza cui segue l’adolescenza più fosca, che serena; infine succede la vecchiaia, ricordata esclusivamente per la stanchezza con cui l’uomo è costretto a con- vivere, trascinandosi e appoggiando il fianco antico ad un bastone che ne riflette l’essenza e che ne sottolinea l’intrinseco disagio (debil legno).

Anche la scelta del lessico merita particolare attenzione: ogni fase della vita è introdot- ta da un verbo impersonale, quasi non umano. L’uomo non sembra vivere la sua vita, ma sopravvivere ad essa, sopportandola; non gode dei giorni che gli sono concessi, ma si limita a menarli e sostenerli; gli alti e bassi dell’esistenza trovano esatta corrispon- denza nel binomio di morte e rinascita (mai del tutto compiuta, dal momento che ci si avvicina, a passi spediti, verso la morte definitiva). Questa vita si apre e chiude come un qualsiasi oggetto, senza passione, senza sentimento, in modo impersonale e, mi si permetta il neologismo, “a-personale”, quasi automatico, tale da non concedere nessun lampo di vita. L’uomo diventa qui un semplice involucro, un automa destinato per defi- nizione a soffrire.

Interessante, per quanto concerne il verso 7, è l’analisi delle varianti precedenti all’edizione definitiva del 1625: la prima versione a stampa (1602) riporta uno schiari- mento, per quanto tenue, nel cupo orizzonte di sofferenza, quasi una visione positiva della giovinezza considerata più ferma, e più serena. Questa formula si conserva fino al 1609 ed è a partire dal 1614 che lo spiraglio di felicità si rabbuia inesorabilmente. La domanda che viene spontanea è se, nell’intervallo dei cinque anni che dividono le due edizioni, sia successo a Marino qualcosa che possa averlo indotto a cambiare idea circa la serenità che si vive nell’adolescenza1. Un qualche indizio lo si può evincere dall’evoluzione del verso che sostituisce l’aggettivo ferma con fosca: l’impressione che ne deriva è che il poeta, nell’arco di questo lustro, abbia sperimentato uno spiacevole

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Baiacca, nella sua cronaca, descrive l’arrivo di Marino a Torino e sottolinea come l’ingegno del poeta fosse da subito apprezzato e rispettato, al punto che Carlo Emanuele I lo trattenne presso la sua corte: «[25] Quivi anche subito le virtù di lui [Marino] furono conosciute e con grido comune celebrate, però che a pena giunto in Turino fece il Panegirico del medesimo duca con tanta prestessa e facondia, che quel prencipe se ne maravigliò e molto se ne compiacque, ed in segno del concetto onoratissimo in cui lo teneva, de la Croce de’ suoi Cavalieri de’ SS. Maurizio e Lazzaro, da lui a persone nobili per nascita e per azioni egregie riguardevoli solida concedersi, l’onorò» (CARMINATI 2011, pp. 85-86). Marino stesso in una lettera al principe di Mantova confessa di esser stato incarcerato ingiustamente e inaspettatamente: la sua devota servitù infatti avrebbe dovuto garantirgli delle ricompense e non il carcere; inoltre, tolta la ruffianeria di circostanza, il poeta si dichiara disposto a confermare la sua colpevolezza pur di godere della grazia del duca di Savoia: «Quando io aspettava qualche ricompensa della mia servitù in questa corte, eccomi in prigione sotto pretesto che io abbia nella mie poesia scherzato poco modestamente intorno alla persona del serenissimo padrone; [...] a me giova di confessarmi reo, per rendermi capace di grazia mercé della reale e cristiana clemenza del serenissimo signor duca e mediante la benigna intercessione di V. A., s’Ella si degnerà per sua bontà di favorirmi» (BORZELLI 1911, p. 99, lettera numero LXIV, 1610).

cambiamento della sua personale situazione, da forte e sicura a cupa e barcollante. Que- ste circostanze mi portano a pensare che l’autore abbia cambiato il verso in seguito alla permanenza in carcere (dall’aprile del 1611 al giugno del 1612), al quale è condannato dallo stesso protettore - il duca di Savoia Carlo Emanuele I - che l’aveva accolto con tanto entusiasmo, nel 1610, al suo arrivo a Torino:

«I biografi [...] dicono che ei [Marino] prese a parlar troppo liberamente del Duca, anzi con giustezza il suo Ferrari aggiunge: “Aveva fin negli anni della prima gio- vinezza composte in Napoli alcune ottave in istile burlesco, con le quali i difetti naturali di un gentiluomo, più per ischerzo, che per offesa, ad altrui compiacenza si divisavano. Lesse un giorno il Cavaliere fra le altre sue composizioni gioiose ancor le ottave in congresso di soggetti da lui amici virtuosi e sinceri creduti, subi- to a S. A. [il Duca di Savoia], che contro lui quei versi avesse composti e che in ogni luogo con ischerno della sua riputazione parlasse, malignamente riferirono»1. La verosimiglianza della teoria secondo cui Marino avrebbe inserito nel componimento qualcosa di intimamente personale risulta suffragata da almeno due motivazioni2. La prima è una mera questione cronologica, legata alla coincidenza delle date: il sonetto definisce fosca l’età compresa fra la fanciullezza (Fanciullo poi del verso 5) e la vec- chiaia (resa da una domanda retorica che occupa tutta la prima terzina), riferendosi quindi all’età della maturità che nella vita umana ha la maggiore estensione; si conside- ri, a questo proposito, che Marino è condannato al carcere a quarantadue anni, in piena età adulta. Il secondo motivo prende spunto dall’ispirazione generale della sezione: così come il giovane poeta ha voluto inaugurare la sezione morale con un componimento pensato per identificare l’uomo in quanto creatura mortale, allo stesso modo può aver fatto ricorso all’autobiografismo per conferire al testo una maggiore concretezza, un tocco di veridicità, congedandosi ulteriormente dall’astrattezza cui questa produzione era confinata.

L’ultima terzina, infine, vede l’affacciarsi dell’autore non più come semplice uomo il cui vissuto renda più reale il componimento: l’io dico del verso 13 è carico di un signi- ficato completamente diverso, contrassegno di un punto di vista esterno alle cose del mondo, di un elevarsi - sempre senza presunzione - al di sopra degli uomini per poterne scrutare meglio il destino. Vivendo, l’uomo pensa che la sua sofferenza sia eterna, la sua vita gli appare lenta e dilatata, senso che peraltro viene sottolineato dalla stanca di- stensione temporale cui l’autore decide di ricorrere; esternamente, da un punto di vista

1 BORZELLI 1927, pp. 127-128.

2 Le motivazioni potrebbero essere elevate a tre, considerato il verso successivo, l’ottavo: tra Fortuna, &

Amore more, e rinasce. Sempre nell’intervallo che si sta analizzando (1609-1614), le biografie di Marino riportano lo sbocciare, fra il poeta e una giovane vedova di nome Teresa, di un amore dall’esito infausto, come riporta Angelo Borzelli: «il Vallauri, [...], con sicurezza parla chiaramente di un amor del Marino per una Teresa giovane vedova e di una satira dettata da lui per gelosia contro la donna amata, i quali versi accesero di odio un cognato di lei, che dopo mesi procurò la ruina del poeta» in BORZELLI 1927, p. 128.

quasi divino, il passo che separa la culla dalla tomba è breve, dal momento che l’uomo,

ratto, si precipita verso la morte, pur non accorgendosene e malgrado i suoi patimenti

gli sembrino infiniti. Si scontrano qui due modalità di avvertire il temporaneo, una pret- tamente umana e una onnisciente e sempre presente, dietro la quale si arrocca, nella sua posizione, il poeta che, sospirando, sembra rassicurare con sguardo bonario coloro che si affannano nelle loro questioni: la verità è una e universale e la fine, inevitabile, co- mune a tutti (chiude al fin le sue spoglie angusto sasso), sopraggiunge più velocemente di quanto si creda.

Il sonetto si snoda fra una sfera personale, forte di richiami alla vita dell’autore - per quanto non esplicitamente dichiarati -, ed una impersonale, nella quale confluiscono le verità sulla vita, coronate alla fine da una conclusione secca che non lascia spazio ad al- cuna speranza. La lirica unisce il messaggio morale ad un linguaggio che non vuole blandire o accarezzare il lettore, ma che pretende di essere il più diretto e materiale pos- sibile, accogliendo picchi di durezza straordinaria (in questa vita di miserie piena, v. 2;

quante poscia sostien [...] fatiche, o morti infin, vv. 9-10; Da la cuna a la tomba, v. 14)

e di distacco: un esempio appropriato è quello fornito dal passo poc’anzi citato in cui Marino, senza usare alcun tipo di perifrasi, contrappone la tomba alla culla, portando questi due momenti, di nascita e morte, quasi ad una compenetrazione e dando così vita ad un circolo vizioso in cui l’uomo è intrappolato e dal quale, per quanto si adopri, non potrà mai uscire. La vita è fatta di contraddizioni e di misteri, di domande destinate a rimanere senza risposta e di ansie: solo la pratica attiva della religione, il donarsi a Dio riesce a riscattare questa situazione di logoramento fisico che spinge il corpo tristo, e

mendico e curvo, e lasso (si noti la struttura chiastica) verso l’inesorabile fine. A questo

proposito si faccia attenzione alla domanda retorica che occupa la prima terzina, più vi- cina ad un urlo di dolore che un interrogativo, che rasenta i toni di una supplica pronun- ciata da qualcuno che, ormai stanco e sconfitto, si avvicina alla morte quasi bramandone il sopraggiungere; l’inflessione è carica di quello struggimenti tipico di chi non è più di- sposto a tollerare i giochi di Fortuna e Amore. La domanda retorica assume la veste di emblema, di simbolo di un animo ormai stanco che, da tempo, si trova a sopravvivere piuttosto che a vivere; è una denuncia dell’ingiustizia dell’esistenza che vessa, senza mai stancarsi, gli animi umani condannati a patire fatiche e costretti ad assistere ai mali del mondo, la cui fine si intravede baluginare solo nel buio della tomba.

L’andamento proprio della sezione delle Morali viene subito delineato in questa prima sede: il carattere concreto, plastico dell’umano si eleva, in un movimento ascensionale, verso l’alto, verso un coronamento che si scorge nell’ultimo componimento della rac- colta. Il sedicesimo sonetto è quello nel quale sono racchiuse e custodite le speranze di

una vita ultraterrena positiva e serena, che formano il giusto bilanciamento alla disillu- sione che si respira in questa prima lirica.