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4. I sonetti delle rime morali

5.0. Le rime morali: edizione critica e commento

5.0.3. Sotto caliginose ombre profonde

L’autore disquisisce su quanto sia difficile investigare gli occulti giudizi di Dio. Forte risuona il tema della contrapposizione fra luce divina della Verità e della conoscenza e buio, sotto le cui ombre si celano i misteri più profondi. Si notino l’endiadi del verso 7 (ingegni temerari, e stolti); il forte ossimoro al verso 9 (invi- sibil Sol); il contrasto dato dall’accostamento di abisso con luminoso e di lumino- so con fosco al verso 10; la rima derivativa veli-riveli (ai versi 11 e 13). Il sonetto presenta un’architettura classica, il cui schema rimico prevede per le quartine una struttura incrociata (ABBA-ABBA) e per le terzine incatenata (CDC-DCD).

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SOTTO caliginose ombre profonde

Di luce inaccessibile sepolti Tra nembi di silentio oscuri, e folti L’eterna Mente i suoi secreti asconde. E s’altri spia per queste nebbie immonde,

I suoi giudici in nero velo avolti, Gli humani ingegni temerari, e stolti

Col lampo abbaglia, e col suo tuon confonde. O invisibil Sol, ch’a noi ti celi

Dentro l’abisso luminoso, e fosco, E de’ tuoi propri rai te stesso veli: Argo mi fai, dov’io son cieco, e losco,

Nella mia notte il tuo splendor riveli, Quanto t’intendo men, più ti conosco.

v. 3 Trà’ (Mo09) → Trà | Silentio (Mo02 = Mo04 = Mo09) > silentio (Mo14) = silentio • v. 5 immonde (Mo02 = Mo04) → immonde, • v. 6 avvolti, (Mo09) > avolti (Mo14 = Mo02 = Mo04) = avolti, • v. 9 ch’a noi (Mo02 = Mo04) > ch’à noi (Mo09 = Mo14) = ch’à noi • v. 11

veli; (Mo02) > veli: (Mo04 = Mo09 = Mo14) = veli: • v. 12 cieco e losco (Mo02 = Mo04 = Mo09 = Mo14) → cieco, e losco • v. 13 Nela (Mo02 = Mo04) > Ne la (Mo09 = Mo14) → Nel-

Commento

La differenza significativa fra questo sonetto e quelli precedenti è la specificazione di un protagonista determinato, umano e definibile: è il poeta che, abbracciando un tema più spiccatamente religioso, ragiona sui segreti che l’eterna Mente ha nascosto alla limi- tata comprensione degli uomini. Nascosti sotto colti di ombre caliginose, giacciono i misteri, protetti da silenzi oscuri e folti, che Dio tiene lontani dall’indiscreto occhieggia- re (e s’altri spia) dei curiosi ingegni umani, la cui temerarietà, che subito sfocia nella sfrontata stoltezza, è punita da lampi e tuoni. Tuttavia, per timore che il suo messaggio non sia colto appieno, Marino procede ad un paragone, istituendo un parallelo fra il sole fisico e il Sole simulacro di Dio: entrambi non si possono guardare a lungo e per quanto siano evidenti la loro presenza e vicinanza, l’uomo mai riesce a scorgerli: la vista non riesce ad oltrepassare i raggi di cui entrambi si velano. Erompe anche in questo conte- sto, come nel sonetto precedente, nel paragone fra la Terra e la donna, tutto il concreto realismo di cui l’autore è capace: come si è detto, il protagonista del componimento è il poeta che, sperimentando l’impenetrabile abisso luminoso e fosco, vuole rendere edotto il pubblico di lettori della propria incapacità, traslando questa conoscenza su un piano esperibile da tutti. In questo modo, ognuno può sperimentare quanto sia arduo guardare il sole e capire, cogliendo il paragone, l’impossibilità di comprendere Dio. Non è infatti con gli occhi fisici che l’uomo deve cercare di scrutare i secreti, ma con quelli spirituali: è durante la notte (la mia notte) che il poeta riesce a vedere lo splendore senza dover subito distogliere lo sguardo. Tuttavia, la conclusione del sonetto culmina con un para- dosso che viene espresso nella più totale neutralità di giudizio: quanto t’intendo men,

più ti conosco. È una semplice constatazione, non un particolare motivo di rammarico o

di esultanza: il momento della vera conoscenza degli arcani misteri della vita è quando l’uomo profonde minori sforzi per capirli, non più lasciandosi guidare dalla luce della ragione, ma indagando solo attraverso il cieco affidamento. Più che di un insegnamento, il sonetto si fa carico di un insieme di osservazioni e constatazioni, tanto lontane dall’intento assolutista quanto vicine all’insegnamento cristiano: si conferma con mag- gior visibilità in questa lirica una pratica che verrà condivisa dai successivi sonetti, ossia quella di posizionare osservazioni e concetti moralmente didattici in un contesto avulso da giudizi; non si tratta di invettive, di esortazioni o di critiche: Marino espone e, nell’esposizione, si mantiene neutrale, lasciando al giudizio di ogni singolo lettore la li- bertà di agire nella maggior conformità alla propria propensione morale.

Il contrasto fra luce e ombra è uno dei principali punti cardine su cui si snoda il com- ponimento: gli espedienti che ne sottolineano con forza l’effetto sono individuabili sia

nella scelta delle parole sia nel raffinamento retorico, la cui struttura impreziosisce l’assunto poetico. Si rintracciano così endiadi (caliginose ombre profonde; ingegni te-

merari, e stolti; cieco, e losco), sinestesie (nembi di silentio), ossimori (invisibil Sol; a- bisso luminoso e fosco) e paradossi (quanto t’intendo men, più ti conosco), tutti miranti

a creare uno scenario indefinibile, impossibile da localizzare sia nel tempo che nello spazio, contraddittorio nei suoi minimi termini ma nonostante questo reale, quasi quanto il sole impenetrabile alla vista; l’impalcatura stilistica, finemente costruita in modo da comunicare più uno sfoggio di erudizione piuttosto che la volontà di spiegare uno dei misteri di Dio, si accompagna alla scelta di suoni che contribuiscono a creare la sugge- stione di una cupa e buia atmosfera. La prima quartina si presta particolarmente a forni- re un esempio appropriato di questo procedimento, dal momento che, vista la posizione iniziale, ha il compito di introdurre fin da subito il lettore nella questione che vuole trat- tare: l’allitterazione della vocale o collabora alla creazione di una patina cupa e ovattata fin dal primo verso, rispondente al messaggio veicolato: «Sotto caliginose ombre pro- fonde». A controbilanciare l’oscurità e il silenzio di quello che si può definire un vero e proprio paesaggio dell’anima, si staglia la luce del Sole e dei suoi raggi, dell’abisso in cui esso è racchiuso e dal lampo che gli fa da guardia: l’invisibil Sol che dei suoi rai se

stesso vela è protetto da nebbie immonde e da un nero velo. Il messaggio insito in questo

linguaggio metaforico è che Dio, e con lui tutti i più grandi misteri dell’esistenza, si tro- va al di là di una barriera, di un limite impossibile da valicare da parte dell’uomo: è il corpo che in terra si ricopre della sporcizia dei vizi che impedisce di elevarsi e di rag- giungere le alte vette del pensiero divino; la luce della Verità brilla in un abisso che al tempo stesso è luminoso e fosco, che rende l’uomo, nonostante i suoi sforzi si faccia Ar-

go, la creatura mitologica dai mille occhi, cieco e losco. Questo perché non è con gli oc-

chi della ragione che ci si deve accostare al messaggio divino, ma con quell’umiltà e quell’abbandono che si assume durante il sonno: è nella mia notte che si trova l’unica condizione nella quale il tuo splendor riveli. Non è un caso che proprio in questo pas- saggio si annidi una quasi pedissequa ripresa del Salmo 139 che recita et nox illuminatio

mea1. Il forte richiamo biblico rimarca il fatto che Dio non permette agli ingegni di os- servarlo, ma si mostra benevolo solo a coloro che, non avendo la presunzione di capirlo, si dimostrano volenterosi nell’accoglierlo; per questo motivo gli humani ingegni sono

temerari, e stolti. In questo contesto l’aggettivo temerario è avvicinabile al folle volo di

Ulisse e l’intero sonetto sembra diventare l’esplicita spiegazione di quanto Beatrice, nel

I canto del Paradiso, dice a Dante circa la sua salita verso l’alto: Non dei più ammirar, se bene stimo,

lo tuo salir, se non come d’un rivo

se d’alto monte scende giuso ad imo. Maraviglia sarebbe in te, se, privo d’impedimento, giù ti fossi assiso, com’a terra quiete in foco vivo1.

Se Dante non si fosse purgato della lordura del peccato durante il viaggio nei primi due mondi ultraterreni, sarebbe rimasto ancorato a terra, sulla cime del monte del Purgato- rio, bloccato in una situazione di empasse. L’uomo descritto da Marino, ancora in vita, incarna quest’ultima situazione: le nebbie immonde gli impediscono l’ascesa, il peccato è tanto pesante da impedire qualsiasi accostamento a Dio, se non nel sonno, durante il quale si recupera parte della purezza originaria e si abbassano i filtri della ragione, per- mettendo allo splendor divino di rivelarsi. Non solo: Dante risulta essere un modello anche per l’ispirazione generale del componimento. Nel canto V del Paradiso, infatti,

quando l’anima di Giustiniano si avvicina per sciogliere i dubbi del Poeta, si legge: Sì come il sole che si cela elli stessi

per troppa luce, come ʼl caldo ha rose le temperanze di valori spessi;

per più letizia sì mi si nascose dentro al suo raggio la figura santa; e così chiusa chiusa mi rispuose2.

I temi sono gli stessi, seppur con declinazioni differenti: la troppa luce, la similitudine del sole che si nasconde in se stesso, i raggi che proteggono dalla vista. Per una ripresa più puntuale, bisogna rifarsi ad una canzone di Tasso, Mentre ch’a venerar movon le

genti, dedicata a Leonora da Este. Il motivo della composizione è diverso da quello ma-

rinano, ma il recupero quasi pedissequo (viene addirittura mutuata la rima celi - veli) è troppo evidente per essere un semplice caso:

Forse, come talor candide e pure rende Apollo le nubi e chiuso intorno con lampi non men vaghi indi traluce, così vedrassi il tuo bel nome adorno splender per entro le mie rime oscure e ʼl lor fosco illustrar con la sua luce; e forse anco per sé tanto riluce

che, ov’altri in parte non l’asconda e tempre l’infinita virtù de’ raggi sui,

occhio non fia che in lui

fiso mirando non s’abbagli e stempre: onde, perch’ad altrui

col suo lume medesmo ei non si celi, ben dei soffrir ch'io sì l'adombri e veli3.

1 SAPEGNO 1962, Paradiso, I, vv. 136-141. 2 SAPEGNO 1962, Paradiso, V, vv. 133-138.

La rispondenza si snoda lungo tutto il componimento, con puntuali prestiti di verbi, epi- teti, rime. Non solo: la composizione di Marino dev’essere stata influenzata da un’altra opera tassiana, Le sette giornate del mondo creato, composta (secondo quanto attesta Giambattista Manso) fra il 1592 e il 15941. Mi riferisco, in particolare, alla seconda giornata, nella quale Dio separa le acque inferiori da quelle superiori. Vi si legge: «Di lui parlando, e di terreni obietti, / or da caliginose alte tenebre» (giornata II, vv. 12-13);

e sul tema della conoscenza luminosa dei misteri del mondo nascosta dalle fosche neb-

bie, «Già rivolgeasi da mattino a vespro / lor conoscenza; e quasi in lucida alba / cia-

scun in Dio mirando al ver s’illustra. / Ma ne le cose quel saper l’adombra» (giornata II,

vv. 37-40). Il tema della fallacia con cui l’ingegno umano conduce le sue ricerche nelle cose divine trova più alta espressione in Tasso: «e quinci e quindi a’ non veduto oggetti / non trova ingegno umano aperto il varco; / e ne’ veduti ancora sovente adombra; / ne gli altri, al troppo lume, i lumi abbaglia» (giornata II, vv. 164-167). Della medesima in- tensità è l’invettiva contro l’ingegno umano tanto sciocco quanto superbo: «Oh sciocca e stolta / sapienza mondana, ond’uom si gonfia / di vano fasto e di superbo orgoglio» (giornata II, vv. 729-731)2.

Anche in questo componimento emerge come Marino intendesse la propria produzione giovanile come un serbatoio di immagini e di costruzioni retoriche da cui attingere: se nel caso del sonetto precedente l’Adone era la destinazione designata, in questo caso è

La sampogna ad accogliere evidenti richiami3:

«Percioché se il sole è vera statua et simulacro di Dio nel tempio dell’Universo, voi siete in terra viva imagine dell’istesso sole, anzi espresso ritratto dell’istesso autor del sole. [...] Sì come il sole discaccia l’oscurità della notte et reca a’ mortali la chiarezza del giorno, così voi disgombrate la caligine de’ miei dolori, et aprite all’orizonte della mia mente un dì dolcissimo d’amorosi pensieri. Sì come il sole è fonte di luce perpetua, che se ben talora da qualche importuno nuvoletto è velato, in breve dissipandolo, ne raddoppia la sua limpidezza, così voi siete fontana di beltà infinita, la qual se pur talvolta da maligna nebbia di sdegno mi vien nasco- sta, [...]. Voi avete ne’ vostri sguardi tanta efficacia, che non sì tosto uno da’ vo- stri begli occhi ne lampeggia, come il profondo del cuore sento toccarmi dove il

fosco abisso delle mie pene diviene in un momento luminoso emisperio di felici-

tà»4.

1 L’opera viene stampata postuma nel 1607 a Viterbo e, successivamente, nel 1608 a Venezia (presso

Giambattista Ciotti). Nonostante le date sembrino non coincidere, bisogna ricordare che Marino non solo conosce personalmente Tasso a Napoli, ma che mantiene una certa familiarità con Manso, uno dei primi biografi di Tasso, al quale scrive costantemente missive, nelle quali chiede spesso che gli siano inviate le opere del poeta sorrentino.

2 L’edizione de Le sette giornate del mondo creato di Torquato Tasso è PETROCCHI 1951. 3

Tralasciando il richiamo, nell’Idillio 1 (dedicato ad Orfeo), sempre ne La sampogna che recita: «Di Tenaro le porte entrò l’ardito / giovane innamorato [Orfeo] e per le vie / caliginose e fosche» (DE MALDÉ 1993, p. 87, vv. 162-164).

Da questa analisi si evince come Marino, durante tutta la sua produzione, non prenda mai commiato da nessun momento della propria crescita, umana e letteraria, rendendo sempre attuali e moderni passaggi e strutture a lui particolarmente cari e celebrandole in più passi delle proprie opere. Questo atteggiamento nei confronti della propria produ- zione denota una cura quasi maniacale e un’attenzione certosina e non è da escludere che derivi dall’autocompiacimento nel quale Marino amava cullarsi, o in quell’abbondante ed esagerata autoesaltazione “barocca”. Certo è che le Rime rappre- sentano un passaggio fondamentale, sempre ricordato con affetto, che - proprio per la sua quasi onnipresenza - è difficile definire “giovanile” in toto dal momento che, anche durante il soggiorno francese, l’attenzione riservata a questa prima raccolta (di così tra- volgente successo) non sia scemata affatto, mantenendosi sempre costante, sempre atti- va e vigile, pronta a intervenire laddove il poeta incontri difficoltà nell’esprimere quello che anni prima aveva già espresso con tanta limpidità espressiva.