• Non ci sono risultati.

4. I sonetti delle rime morali

5.1. Il ciclo di Roma

5.1.3. Tante reliquie tue cadute, e sparte

Il poeta, rivolgendosi direttamente a Roma, la loda come la grande madre degli eroi del passato; l’entusiasmo però subito si smorza nella triste constatazione che del glorioso passato rimane poco, sia nelle antiche rovine sia negli uomini. Si no- tino le dittologie sinonimiche ai versi 1 (cadute, e sparse), 5 (Miro & ammiro) e 7 (chiare memorie, e salde); notevole è l’anafora dell’aggettivo tanto che caratteriz- za la prima quartina, per sottolineare quanto del passato stia andando perduto. In- fine, la patina classicheggiante dell’attacco del sonetto sottolinea il passato mitico di Roma, la cui gloria è ora un semplice ricordo. Il sonetto presenta un’architettura classica, il cui schema rimico prevede per le quartine una struttura incrociata (ABBA-ABBA) e per le terzine incatenata (CDC-DCD).

1

4

8

12

TANTE reliquie tue cadute, e sparte

O degna altrice di famosi heroi, Tante machine eccelse, e tanti tuoi Fregi superbi di Natura, e d’Arte, Miro, & ammiro: e di Quirino, e Marte

Tante dal mar d’Hesperia à i lidi Eoi Chiare memorie, e salde ancora tra noi In bronzi, e marmi, e viè più salde in carte. Ma qualhor l’occhio poi di gloria antica

Ne’ moderni tuoi figli orma non scorge, Già del prisco valor fatta mendica; Questa, ch’à terra cadde, e più non sorge

(Lasso convien, che lagrimando io dica) Viè più dolor, che meraviglia porge.

v. 2 Heroi (Mo04 = Mo09) > heroi (Mo14 = Mo02) = heroi • v. 3 macchine (Mo02 = Mo04) > machine (Mo09 = Mo14) = machine • v. 4 Natura (Mo09) → Natura, • v. 5 ammiro; (Mo02 = Mo04 = Mo09) > ammiro: (Mo14) → ammiro; • v. 6 a (Mo02 = Mo04) > à (Mo09 = Mo14) = à • v. 7 ancora (Mo02) > ancor (Mo04 = Mo09 = Mo14) = ancor | trà (Mo02 = Mo04 = Mo09) → tra • v. 11 mendica. (Mo02) > mendica; (Mo04 = Mo09 = Mo14) = mendica; • v. ch’a (Mo02 = Mo04) > ch’à (Mo09 = Mo14) = ch’à • v. 13 conven (Mo04 = Mo09) > convien

Commento

Il decimo sonetto, penultimo del ciclo dedicato a Roma, accompagna un passo impor- tante: il ritorno al passato che Marino ha avviato col primo componimento sta prenden- do definitivamente corpo e, in questa sede, assume una forma ancora più riconoscibile. Se finora gli eventi trattati si allontanano solo di qualche manciata d’anni dall’epoca in cui vive il poeta (il sacco di Roma, il ricordo del pontificato di Sisto V), la presente liri-

ca schiude al lettore un mondo fatto di divinità ed eroi, richiamando un tempo di solide tradizioni morali, di integrità e di dignità. È l’età in cui il mos maiorum è un insieme di valori intimamente perseguiti, in cui la letteratura morale non ha alcun motivo di esiste- re. Lo stile si dimostra coerente con il tenore del discorso: un elogio della gloria passata e delle antiche virtù non può che accompagnarsi ad un’atmosfera mitologica dalla patina latineggiante (altrice, machine) che si appella a preziosismi classici dal sapore di favola. Tutto è perfetto, tutto è ordinato e grande, fino a quando non si compara questa situa- zione (quasi onirica) con quella presente che più dolor, che meraviglia porge. Il parago- ne con il tempo attuale viene affidato alla seconda parte del sonetto, ossia alle terzine - espediente piuttosto sfruttato nell’architettura delle Morali: nella brevità del componi- mento, Marino riesce infatti a condensare uno sviluppo tragico straordinariamente equi- librato, attribuendo alle quartine il compito di presentare una situazione positiva (la ras- sicurante presenza di Dio nella natura piuttosto che la rievocazione della grandezza di Roma) e utilizzando le terzine per mettere in atto un abbassamento, quasi una perver- sione, del messaggio iniziale. Questa logica segue da vicino il procedimento della

Commedia in cui Dante, da una situazione negativa, si eleva ad una posizione positiva:

lo sviluppo è il medesimo, con la differenza che l’assunto non migliora man mano che il componimento volge al termine. Si potrebbe definire questi sonetti “tragici” dal mo- mento che l’atteso “lieto fine” viene sostituito da una conclusione infelice, dal retrogu- sto amato e triste.

Il poeta, che si immagina passeggiare fra le rovine antiche della città di Roma, sembra rapito in un’estasi dall’impostazione vagamente preromantica: Marino, estimatore e cul- tore dell’antichità, mira e ammira (per conservare la stessa figura etimologica del sonet- to) le tante reliquie, le chiare memorie di un fasto ormai trascorso, le cui orme trovano sopravvivenza nei bronzi, nei marmi, nelle opere letterarie, ma non negli uomini.

Il profondo dolore che si avverte non è tuttavia per la decadenza, la caduta cui Roma è andata incontro, ma per la consapevolezza che più non sorge: l’Urbe, nel corso della sua evoluzione e della sua incontrollabile espansione, ha dovuto fronteggiare molti ostacoli, ma nessuno di questi l’ha mai colpita così forte da impedirle di rialzarsi. Nemmeno

l’invasione di Brenno e la battaglia di Canne vinta da Annibale, citate nel commento al sonetto precedente, sono riuscite a fiaccare lo spirito della città eterna che ha sempre trovato il modo di risorgere. Marino auspicherebbe un ritorno in auge di Roma, ma il mondo contemporaneo non gli lascia speranza: la differenza che separa il passato dal presente risiede nello spirito genuino, stoico e incrollabile degli antenati i quali, disposti a sacrificarsi per il bene e la crescita della patria, hanno lottato e combattuto perché Roma diventasse grande e non avesse eguali; nel mondo contemporaneo, il nerbo e la vitalità, virtù un tempo coltivate, sono andate incontro ad un lassismo dei costumi sem- pre più accentuato, fino a scomparire quasi del tutto («ma qualhor l’occhio poi di gloria antica / ne’ moderni tuoi figli orma non scorge, / già del prisco valor fatta mendica»). Questa imperfezione che si è consolidata nel corso dei secoli ha effetti disastrosi sulla società attuale che si trova popolata da vigliacchi, imbroglioni e avari, capaci di pensare al proprio bene esclusivo senza curarsi degli altri.

È in questa perversione dell’antico vigore (e rigore) che la letteratura morale trova la sua causa principe e il motivo della sua esistenza: l’espediente più adatto e di più imme- diata comprensione è il paragone, il cui intento edificante viene affidato ad un membro dall’alto valore morale raffrontato ad un secondo, dal carattere negativo. Il primo impor- tane confronto è fornito dalla contrapposizione fra l’aggettivo tanto (che, nelle diverse declinazioni, punteggia con insistenza le due quartine) e l’isolato mendica al verso 11: il passato e il presente si comparano sulla misura dell’abbondanza delle memorie che sono sopravvissute, seppur cadute e sparse, e la pochezza e la miseria che l’antico valor ri- scuote fra i contemporanei. La reiterazione di quanto il passato fosse ricco e abbondan- temente ricoperto di machine eccelse e di superbi fregi di Natura e d’Arte rimarca il ca- rattere di splendore, di ricchezza sia interiore che esteriore, di elevata statura morale propria dell’età classica, di cui ne’ moderni figli di Roma non si trova traccia.

Il sonetto vanta un precedente illustre, ricordato sia per la dedica a Roma sia per le e- videnti riprese lessicali che si snodano silenziose lungo tutto il componimento marinia- no: si tratta della lirica Roma, onde sette colli e cento tempi di Torquato Tasso.

Roma, onde sette colli e cento tempi, mille opre eccelse, ora cadute e sparte, gloria a gli antichi e doglia a’ nostri tempi, verso il cielo innalzar natura ed arte;

rinnova di virtù que’ primi esempi già celebrati in più famose carte, e’l mio difetto di tua grazia adempi, me raccogliendo in ben sicura parte. Io non colonne, archi, teatri e terme omai ricerco in te, ma il sangue e l’ossa per Cristo sparte in questa or nobil terra

o pur dovunque altra l’involve e serra.

Lagrime e baci dar cotanti io possa,

quanti far passi con le membra inferme1.

Tasso scrive questo componimento nel dicembre del 1588 a Roma, dove può ammirare i restauri commissionati da Papa Sisto V e il rinascente splendore dell’Urbe. Diversi sono i motivi che accomunano i due sonetti: prima di tutto, è evidente il riutilizzo dell’endiadi cadute e sparte attribuita, in entrambe le occasioni, ai resti delle monumen- tali costruzioni di Roma antica; le tassiane opre eccelse diventano, in una scia classi- cheggiante, machine eccelse, secondo il significato etimologico derivante dal latino

mactare, “onorare, celebrare”; l’innalzamento di natura ed arte si trasla ai loro fregi che

diventano superbi; le famose carte, le quali alludono alle pagine celebrative di Roma, si trasformano in salde carte, con pressoché il medesimo significato; infine, Tasso intro- duce in chiusura il tema delle lacrime ripreso e rielaborato da Marino, in cui il pianto diventa carattere distintivo dell’autore di fronte ad un orizzonte così carico di devasta- zione, tale da procurare più dolor, che meraviglia.

L’esperimento mariniano ripercorre il tracciato tassiano, modellandolo e alterandone il dettato in modo da conseguire effetti completamente nuovi: le situazioni in cui i due po- eti si trovano a scrivere sono diverse e, come sappiamo, Marino non si riduce mai sem- plicemente a copiare, ma rielabora prendendo spunto da opere che rimangono attive nel sostrato dell’ispirazione, a scopo evocativo. La rivisitazione di Tasso, cui viene data una veste arcaizzante, si accompagna a più puntuali riprese di altri autori che affiorano nella forma di costrutti e stilemi particolari: altrice di famosi heroi è praticamente uguale alla formula alma altrice di famosi eroi utilizzata da Erasmo da Valvasone (1523-1593), considerato il più importante letterato del Cinquecento friulano; i fregi superbi di Natu-

ra, e d’Arte corrispondono ai versi 9-10 di un sonetto di Ascanio Pignatelli, duca di Bi-

saccia (nell’Avellino, in Campania) intitolato Qual dietro al moto suo rapido tira, riferi- to al ballo di una Nobildonna:

Scopre ella allor de’ suoi superbi fregi, che diè Natura, ed Arte accrebbe, altera trionfatrice l’alte glorie, e i pregi2.

Voler trovare altri riferimenti significherebbe forzare il messaggio mariniano, distor- cendolo in un’alterazione non rispondente al reale: riconosco che anche i riferimenti poc’anzi messi in luce sono di difficile giustificazione visto il contesto in cui questi due autori (Erasmo da Valvasone e Ascanio Pignatelli) non solo scrivono, ma vivono. Risul- ta infatti difficile immaginare un momento di contatto fra Marino e questi personaggi, ma di fronte alla pressoché coincidenza dei luoghi in cui i tre si muovono (Valvasone,

1 BASILE 1994, tomo II, libro IV, parte II, numero 1428, pp. 1570-71. 2 SLAWINSKI 1996, LIV, vv. 9-11, p. 38.

in provincia di Pordenone, non dista più di un centinaio di chilometri da Venezia e il ducato di Bisaccia si trova in provincia di Avellino, in Campania, a una sessantina di chilometri da Napoli) e alla fama di cui il Valvasone e il Pignatelli godono nelle rispet- tive regioni, costituiscono probabili modelli del sonetto mariniano che risulta, nei passi evidenziati, un vicino discendente (come dimostrano i richiami così espliciti). Altri pre- stiti letterari si possono riscontrare in sede di quinto verso dove Marino, chiaramente pensando ad un sonetto tassiano, ne sviluppa le conclusioni: chiare sono le memorie di

Quirino e Marte (Marino) perché il poeta si riferisce a quella città dove s’adorò Quirino

e Marte1 (Tasso).

Il sonetto, forte di tutti i richiami analizzati, è a sua volta modello di ispirazione per un altro componimento mariniano inserito ne La Galeria, nella sezione intitolata Capricci, in cui si descrive la città di Roma in un’incisione di Francesco Villamena (1566-1625):

La gran Città, che dal figliuol di Marte, fu già di sassi edificata, quella

che le ruine poi lasciando sparte precipitò, fatta di donna ancella,

or per altro maestro, e con altr’arte rinnovellata in quest’età novella, fabricata (o miracolo!) di carte, per mai non ricader, sorge più bella.

Uopo or non fia, che da confin lontano tragga vagante il peregrino il piede

per cercar Roma in grembo a Roma invano: qui distinta la vede, e quinci vede

quanto in virtù d’una ingegnosa mano la fermezza de’ marmi ai fogli cede2.

Il contesto è sicuramente diverso da quello delle Rime Morali, così come i temi che Ma- rino decide di mettere in evidenza: qui non si fa parola del ricco e glorioso passato della città, di come gli uomini moderni siano privi della tenacia e della vitalità degli antenati, o di come la Natura e l’Arte seppero forgiare in maniera tanto superba le reliquie che ora si vedono, abbattute, a terra. Vi si trovano solo dei taciti richiami agli eventi più dif- fusamente descritti in altra parte della produzione poetica: la pesantezza della caduta viene stemperata nella perifrasi fatta di donna ancella o richiamata con una negazione (per mai non ricader); il volto completamente mutato dell’Urbe, tematica fautrice di tanto dolore nel sonetto morale, viene qui solamente accennato nella prima terzina dove, esaltando l’opera del Villamena, Marino rivolge l’invito di limitarsi all’incisione a chi- unque non voglia rimanere deluso dalle condizioni di abbandono in cui langue la città. I richiami fra i due sonetti mariniani sono ridotti al minimo, ma entrambi testimoniano

1 BASILE 1994, tomo II, libro IV, parte I, numero 1371, v. 3, p. 1464. 2 PIERI-RUFFINO 2005, Capricci, numero 6, p. 360.

quanto sia doloroso per Marino constatare che Roma, la prima città d’Italia, la testa di uno sterminato impero, sia ridotta in ginocchio, rovinata a terra dopo una caduta dalla quale più non sorge. Traspare con nitidezza il ruolo che il quadrivium di componimenti assume all’interno della raccolta: il sentimento che maggiormente caratterizza queste liriche è la compassione nei confronti della maestà spodestata di Roma che un tempo poteva vantare ricchezza e splendore e che ora giace al suolo, inerte e immobile. Da un passato in cui ogni cosa era grande e abbondante ad un presente in cui si sperimenta la mancanza e il bisogno di tutto: la Roma contemporanea non condivide niente con la cit- tà che era; in più, la certezza che la contingente situazione non sia destinata a cambiare getta il poeta in un profondo sconforto il cui unico sfogo, il pianto, scaturisce per il do- lore e non per la meraviglia.