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Vincitrice del mondo, ahi chi t’ha scossa

4. I sonetti delle rime morali

5.1. Il ciclo di Roma

5.1.2. Vincitrice del mondo, ahi chi t’ha scossa

Marino prende in esame l’evento del Sacco di Roma del 1527: chiedendosi a chi vada attribuita la colpa di una così disastrosa caduta, arriva alla conclusione che l’unico vero responsabile della situazione attuale è proprio la città di Roma. Si no- ti la serie di rime inclusive che caratterizza le due quartine (scossa-ossa-possa- fossa), il notevole iperbato al verso 11; da considerare è anche il marcato latini- smo al verso 5 (possa). Il sonetto presenta un’architettura classica, il cui schema rimico prevede per le quartine una struttura incrociata (ABBA-ABBA) e per le ter- zine incatenata (CDC-DCD).

v. 3 divise (Mo02 = Mo04 = Mo09 = Mo14) → divise, • v. 5 non sì (Mo09) > non fù (Mo14 = Mo02 = Mo04) = non fù • v. 7 Nè, (Mo02 =Mo04 = Mo09 = Mo14) → Nè | ciel (Mo14) →

Ciel | permise; (?) (Mo04) > permise. (Mo09) > permise (Mo14 = Mo02) = permise • v. 9 a

(Mo02 = Mo04) > à (Mo09 = Mo14) = à • v. 10 battuta (Mo02 = Mo04 = Mo09 = Mo14) →

battuta, | doma, (Mo09) > doma (Mo14 = Mo02 = Mo04) = doma • v. 11 in un (Mo02 = Mo04

= Mo09 = Mo14) → in una | tomba, & estinta, (Mo02 = Mo04) > tomba & estinta, (Mo09) > tomba, & estinta. (Mo14) → tomba estinta • v. 12 conveniva (Mo09) > convenia (Mo14 = Mo02 = Mo04) = convenia • v. 13 ornò (Mo09) > ornò, (Mo14 = Mo02 = Mo04) → ornò, • v. 14 Roma altri, (Mo02 = Mo04 = Mo09 = Mo14) → Roma, altri

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VINCITRICE del mondo, ahi chi t’ha scossa

Dal seggio, ove Fortuna alto t’assise? Chi del tuo gran cadavere divise, Per l’arena le membra, e sparse l’ossa? Non di Brenno il valor, non fu la possa

D’Annibal, che ti vinse, e che t’ancise: Né che dar potess’altri, il Ciel permise Al tuo lacero tronco herbosa fossa. Per te stessa cadesti à terra spinta,

E da te stessa sol battuta, e doma Giaci à te stessa in una tomba estinta. E già non convenia, che chi la chioma

Di tante palme ornò, fusse poi vinta. Vincer non devea Roma, altri che Roma.

Commento

Riprendendo la dedica a Roma, il nono sonetto delle Morali approfondisce un aspetto che nel componimento precedente era solo accennato: la vera e propria caduta della cit- tà. I due passati remoti, che aprono e chiudono l’ottava lirica, trovano il giusto bilan- ciamento nella positività del ma sorta, ecco ti veggo, senza però fornire una giustifica- zione o collocazione temporale alla rovina immanente che attanaglia l’Urbe. Il compito di sopperire a questa mancanza viene affidato al presente sonetto (Vincitrice del mondo,

ahi chi t’ha scossa) che spiega il motivo dell’euforia provata per la futura rinascita della

città (più grande è la caduta, più miracolosa è la ripresa): l’episodio cui Marino fa rife- rimento e che è foriero di una tanto rovinosa disfatta è il Sacco del 1527, imputabile alla cattiva condotta di Roma e del suo governo, in particolar modo di Papa Clemente VII de’ Medici, fautore di manovre politiche poco accorte e apertamente doppiogiochiste.

Si riscontra un’identità metrico-sintattica alla quale si attiene anche la trattazione delle diverse fasi della tematica: la prima quartina accoglie due domande che, in tono dolo- rante, interrogano il lettore sull’identità del responsabile che ha perpetrato un così cru- dele scempio ai danni dell’Urbe; la seconda risponde invece ai precedenti quesiti tramite negazione, eliminando così dai possibili sospetti i più temibili nemici che Roma dovette affrontare. La prima terzina fornisce al lettore, senza ulteriori mezzi termini, il nome del vero colpevole, insistendo con una martellante anafora sulla responsabilità di Roma per la situazione presente; la chiusa, infine, contiene una constatazione generale, una rifles- sione personale che il poeta, per la prima volta, ammette all’interno di un componimen- to morale. L’intrusione della delusione dell’autore sottolinea l’impossibilità di eguaglia- re e sconfiggere la potenza dell’Urbe, arrivando così alla triste conclusione che l’unico nemico in grado di sconfiggerla sia proprio Roma stessa, vincer non devea Roma, altri

che Roma.

L’analisi del componimento non presenta particolari difficoltà esegetiche, né il lin- guaggio è eccessivamente arduo da capire. Per descrivere un così notevole evento, Ma- rino ha optato per un stile senza artifici, piano e umile (aggettivo da intendere in senso etimologico): persino le due domande iniziali sono difficilmente classificabili come domande retoriche, dal momento che assumono un accento più rassegnato che saccente, in cui l’amarezza dell’intonazione soverchia fino a occultare qualsiasi inclinazione allo scherzo poetico. La chiusa finale non condivide l’arguzia del fulmen in clausola di altri componimenti: sono tristi osservazioni che si snodano toccando diversi stati d’animo, dall’iniziale rabbia malinconica nel ricordare il passato di Vincitrice del mondo e nel prendere atto che dell’antica grandezza altro non resta se non il gran cadavere, alla ne-

gazione che, forte di un ritmo concitato e scandito da forti enjambement (possa -

d’Annibale e permise - al tuo lacero tronco), è consapevole della colpevolezza del go-

verno romano cui vengono rinfacciate, nel rimbrotto successivo, l’incompetenza e l’incapacità che hanno portato alla sconfitta. Da ultimo, gli altalenanti sentimenti di di- sprezzo misto a intimo rammarico sfociano nella rassegnazione ad accettare lo status

quo, di fronte all’innegabilità del quale non si può che essere remissivi. Sembra quasi di

analizzare le fasi psicologiche del dolore per la perdita (anche se temporanea) di una cit- tà che, da sempre, costituisce l’immagine simbolo della nostra penisola: infliggere un colpo così aspro al caput significa mettere in ginocchio l’intera struttura (qui definita, in modo appropriato, gran cadavere). Il Sacco del 1527 è stato effettivamente un evento di portata straordinaria non solo sul piano militare, ma anche e soprattutto su quello ideo- logico, dal momento che il baluardo della Cristianità viene minato dalle fondamenta, per di più da un esercito di mercenari protestanti: questo epocale episodio sarà una delle motivazioni che spingeranno il Pontefice (Paolo III Farnese) ad inaugurare il Concilio di

Trento e - fra l’altro - ad optare per una così capillare sorveglianza in senso ortodosso di tutta la produzione poetica.

È fondamentale notare come, nel sonetto, il ricorso di Marino alle fonti sia, ancora una volta, versatile ma straordinariamente limitato: l’impalcatura generale reca infatti la firma dell’ispirazione personale, impreziosita di pochi richiami alla tradizione. Vibrano nel componimento un trasporto e una vicinanza quasi intima all’argomento trattato: ri- sulta evidente, anche ad una prima lettura della lirica, quanto questa tematica sia cara al poeta il quale, di conseguenza, decide di operare un deciso sfoltimento nella scelta dei modelli, preferendo curare maggiormente l’originalità e l’intensità del messaggio. Nelle iniziali quartine, l’unico debito riconoscibile è lo stilema vincitrice del mondo che si rifà alla formula del mondo vincitrice utilizzata da Bernardo Tasso in un sonetto dedicato a Giulia Gonzaga:

Superbo colle, che col manco corno miri del chiaro Liri ogni pendice, col destro del Troian l’alta nutrice starsi nel monte del suo nome adorno,

ben t’invidiano i sette cui d’intorno alzò le mura la città felice,

altera già del mondo vincitrice, or ombra sol di così lieto giorno1.

L’elogio alla città di Roma, definita altera e felice, risente della triste condizione pre- sente cui si fa accenno al verso 8: or ombra sol di così lieto giorno. Quello che in Tasso padre ricopre però una posizione secondaria (considerato l’intento generale del compo-

nimento) in Marino viene approfondito come tema centrale: lapidaria è la sentenza tas- siana sul degrado della città, mentre più carico di implicazioni si dimostra quello mari- niano che, partendo da un assunto fittizio (già chiara nella mente del poeta risuona la ri- sposta), ricerca il responsabile dello smembramento del gran cadavere, metaforica allu- sione alla situazione italiana, al tempo frammentata e continuamente contesa dalle più potenti corone d’Europa1. L’artificio cui il Nostro ricorre è pensato per incrementare e intensificare l’attesa alla quale segue un addensarsi del dramma, condensato in un’unica terzina. Anche il ricorso agli antichi avversari di Roma è un procedimento teso a ritarda- re l’impatto della tragica agnizione: Brenno è stato il condottiero che, a capo di un’orda di Galli Senoni, ha messo per la prima volta a ferro e fuoco l’Urbe, consumando, nel 390 a.C., il primo Sacco della storia; Annibale, celeberrimo stratega cartaginese, con la vittoria riportata nella battaglia di Canne (2 agosto 216 a.C.), è stato il primo a costrin- gere in ginocchio la Repubblica romana che, fino a quel momento, si considerava im- battibile. Questi due oscuri capitoli della storia di Roma sono sovente menzionati dalla tradizione letteraria2 insieme alla figura di Pirro e, per estensione, all’episodio delle guerre pirriche: Marino effettua una variatio ricordando i primi due strateghi, trala- sciando quello epirota. Il motivo di tale selezione risiede negli esiti degli scontro fra Roma con i Galli e i Cartaginesi: questi due popoli sono stati in grado di far crollare il mito dell’invincibilità in cui si cullava l’Urbe, costringendola a chinare la testa di fronte alla straordinaria potenza dei loro eserciti. Il poeta riporta in vita solo quei casi in cui la sconfitta di Roma eguagli, se non addirittura superi, la caduta in seguito al Sacco del 1527: l’esperienza con Pirro non fornisce un appropriato exemplum per l’effetto che si vuole ricreare. Roma deve ora fare i conti con la propria incapacità, senza la possibilità di delegare ad altri la situazione di grave sfacelo.

Marino però non lascia nessun versante scoperto: nel caso il messaggio faccia fatica a penetrare, il poeta recupera la retorica dell’anafora impregnandola di una particolare e illustre struttura. Il riferimento rievoca, senza dubbio, il canto III dell’Inferno dantesco

quando il pellegrino con la sua guida si ferma a leggere l’iscrizione apposta sulla porta dell’Averno:

Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente3.

1 L’Italia risulta infatti frammentata nel Ducato di Milano, nelle Repubbliche di Genova e Venezia, nella

Repubblica Fiorentina, nello Stato Pontificio, nel Regno di Napoli.

2 Fra gli altri, Antonio Tebaldeo («Un Pirro, un Brenno, un Serse, uno Anniballe, / un Mitridate, un galli-

co furore, / un strepito de’ Gotti in te s’è mosso», in MARCHAND 1992, III 2, numero 697, vv. 9-11, p. 1007); Torquato Tasso («Potrian chiudere il passo a Pirro, a Brenno, / e fare ad Annibàl vergogna ed on- ta, / que’ valorosi, che alzeranno in guerra / l’Orsa sublime in ciel, sublime in terra», in BONFIGLI 1934, volume II, canto XX, ottava 130, p. 243).

Il riferimento è palese, la battente anafora serve in entrambi i casi per insistere sulla ve- ridicità di un concetto, sull’esattezza di un assunto, conferendo solennità e una non tra- scurabile forza espressiva. Nel caso di Marino, questa figura retorica è usata per presen- tare un calzante elenco di colpe imputabili esclusivamente e Roma. Se ora il Ciel le ha concesso una tregua, permettendole di adagiare il suo lacero tronco in una herbosa fos-

sa, è perché la situazione è tanto disperata da non attirare l’invidia di nessun altro nemi-

co; la caduta è stata tanto rovinosa che, ora, l’unico destino possibile per la città, ormai

estinta, è quello di giacere battuta e doma in una tomba.

Analizzato il sonetto nella sua forma retorica e strutturale, si consideri ora il motivo più propriamente storico per cui Roma debba essere considerata la causa della sua stessa sconfitta. L’episodio del Sacco della città si inserisce nel più ampio e complesso quadro europeo, nella situazione di conflitti fra Francesco I di Valois, re di Francia, e Carlo V, Imperatore di Sacro Romano Impero e Re di Spagna. L’allora Pontefice Clemente VII

de’Medici, approfittando della sconfitta francese a Pavia (per la battaglia combattutasi il 24 febbraio 1526) e dello scomodo trattato di Madrid che Francesco I fu obbligato a sot-

toscrivere, e volendo allontanare lo spauracchio di una possibile dominazione asburgica a nord e a sud dello Stato della Chiesa, inaugura una Lega, detta di Cognac, per riunire sotto un unico vessillo tutti coloro che fossero avversi all’espansione dell’imperatore in Italia settentrionale.

«Per l’Italia l’elezione di Carlo d’Asburgo a Imperatore del Sacro Romano Impe- ro (Francoforte, 28 giugno 1519) significò la rottura dell’effimero equilibrio crea- tosi nella penisola dopo il 1515 fra un Nord dominato dalla Francia di Francesco I

che con la vittoria di Marignano aveva conquistato il Milanese, e un Sud com- prendente il Napoletano, la Sicilia e la Sardegna, in mano alla Spagna. Al centro la potenza dei Medici si estendeva sulla ricca Firenze e si ammantava dell’autorità della Chiesa - sono gli anni d’oro del pontificato di Leone X - mentre Venezia so- pravvissuta al disastro di Agnadello (1509) riequilibrava la sua corsa alla terra- ferma con la tradizionale funzione di essenziale crocicchio commerciale»1.

Queste le premesse: la Lega di Cognac (22 maggio 1526) sorge subito dopo la libera- zione di Francesco I dalle carceri di Madrid, alimentato dalle clausole del trattato di

Madrid che prevedeva, fra le varie restituzioni terriere, la definitiva rinuncia della Fran- cia a Milano, Napoli, Genova e Asti. L’unione che si forma all’insegna del peso politico del Pontefice si compone, oltre che di Clemente VII e Francesco I, del Ducato di Milano, delle Repubbliche di Venezia e di Genova e della Repubblica di Firenze guidata dalla famiglia Medici. Vani i tentativi dell’imperatore asburgico di riguadagnarsi la fiducia del Papa, sempre più convinto delle sue mire espansionistiche nell’Italia del nord: non potendo intervenire di persona, Carlo V risolve di chiedere aiuto alla famiglia dei Co-

lonna, da sempre filo-imperiale e avversa ai Medici, i quali sollevarono una rivolta che culminò con un primo saccheggio della città pontificia. Il Papa, assediato a Roma e ve- nuto a conoscenza della capitolazione di Milano che la Lega aveva senza successo ten- tato di liberare dalla presenza dell’esercito imperiale, pervenne a più miti consigli, chie- dendo all’imperatore una tregua, richiesta che venne immediatamente accolta a patto che Clemente VII si impegnasse a rompere l’alleanza con la Francia. L’instabile posi-

zione del Pontefice lo portò ad acconsentire alle condizioni, ma alla prima occasione chiese aiuto all’unica potenza che fosse realmente in grado di proteggerlo, la Francia: l’intesa impero-Papato durò poco. Percepito questo voltafaccia, Carlo V autorizzò la

presa armata di Roma, inviando un nutrito contingente di lanzichenecchi:

«All’alba del 6 maggio 1527 Roma era coperta da una nebbia così fitta da impedi- re ai difensori di scorgere le mosse dell’esercito nemico. Questo, ingrossato da torme di avventurieri e perfino dai prigionieri che erano stati lasciati liberi di sce- gliere se tornare alle loro case o seguire le truppe, senza cannoni, ma colo con lan- ce, carabine e scale fatte da pali e legate insieme con vimini, sferrò l’assalto prin- cipale contro la città leonina, presso porta S. Spirito. Il Borbone [Carlo III di Bor-

bone-Montpensier], alla testa dell’esercito, giunse fino alle mura, dove però fu colpito a morte. Dopo un attimo di smarrimento per la caduta del comandante, i soldati anelanti alla vendetta e al saccheggio si slanciarono ad entrare nella città presso Porta Torrione, mentre i lanzichenecchi davano la scalata ai bastioni di S. Spirito. Mentre già gli imperiali dilagavano per il Borgo, il Pontefice riusciva a fuggire a stento dal Vaticano e a rifugiarsi in Castel S. Angelo, seguito da molti cardinali e da una massa di fuggiaschi. Secondo la testimonianza del Du Bellay il Pontefice tentò subito di avviare trattative di resa, non pensando affatto a difen- dersi [...]. Per spiegare la mancata difesa di Roma, oltre alla debolezza del Ponte- fice, si aggiungono una soldatesca scarsa, improvvisata, impreparata e priva di un unico comando superiore e una fazione ghibellina, fautrice dei Colonna, che favo- riva la vittoria imperiale. Agiva anche, oscuramente, ma non per questo, forse, con minor forza la speranza che l’esercito nemico rimasto senza guida, si sarebbe sbandato, e la fiducia nella intangibilità della sacra città di Roma, sede del Capo della Cristianità. Di fatto, superata una breve resistenza presso ponte Sisto, gli im- periali si riversarono per le vie della Città Eterna. Per alcune ore i soldati rimasero uniti, in ordine di battaglia: gli Spagnoli a piazza Navona e i lanzichenecchi a Campo dei Fiori, per timore del sopraggiungere dell’esercito nemico. A mezza- notte, rassicuratisi, ruppero le file e la città fu in preda alla soldatesca: ha così ini- zio il sacco di Roma»1.

Ed ecco dimostrato come Clemente VII, alla guida dello Stato Pontificio, sia da conside- rarsi il responsabile insieme ai suoi consiglieri (fra i quali si ricordi Francesco Guicciar- dini), di una sconfitta tanto amara da essere, a buon diritto, paragonata alla prima inva- sione dei Galli in Roma e al disastroso esito della battaglia a Canne contro Annibale.